(prima parte)
di Simona Mengascini
È stata un’Assemblea diocesana, ma è stata anche una festa: sabato 5 novembre laici, sacerdoti, religiosi si sono ritrovati, insieme con il nostro pastore, monsignor Rocco Pennacchio, in Cattedrale per fare il punto sul cammino sinodale, che entra nel suo secondo anno, ma anche per incontrarsi e parlarsi liberamente, dopo che questo, a causa della pandemia, non era stato possibile per quasi tre anni. Dopo la pausa di metà pomeriggio, con tanto di caffè e biscotti gentilmente offerti dai membri della Pastorale familiare diocesana, era quasi impossibile riprendere i lavori per la voglia che avevano le persone di stare insieme e raccontarsi: il Duomo sembrava essere diventato veramente la “tenda” del popolo di Israele, di cui si è parlato nell’ispirata Lectio di apertura, tenuta da don Andrea Andreozzi, attuale rettore del Pontificio seminario regionale umbro “Pio XI”.
Il pomeriggio è stato intensissimo ed emozionante: risentire papa Giovanni XXIII che nel discorso tenuto la sera dell’11 ottobre 1962, giorno nel quale si era aperto il Concilio Vaticano II, dice che la sua “è una voce sola, ma riassume la voce del mondo intero; qui tutto il mondo è rappresentato. Si direbbe che persino la luna si è affrettata, stasera – osservatela in alto! – a guardare a questo spettacolo” e concludere “tornando a casa, troverete i bambini; date una carezza ai vostri bambini e dite: ‘Questa è la carezza del Papa’” provoca sempre un brivido profondo. Il video è stato proiettato perché quest’anno ricorrono i sessant’anni dal Concilio e il titolo dell’Assemblea diocesana era proprio “Camminiamo insieme sulle orme del Concilio”: il tempo è passato, la spinta innovatrice di quell’evento non solo di Chiesa, ma di popolo, si è forse affievolita, tanto che l’attuale pontefice, Francesco, ha sentito la necessità di indire un Sinodo dalla durata triennale. E proprio in un altro filmato proposto, è risuonata la voce di papa Francesco, nel discorso di apertura del cammino sinodale a Roma del 9 ottobre 2021, che invocava lo Spirito Santo a “preservaci dal diventare una Chiesa da museo, bella ma muta, con tanto passato e poco avvenire”.
Si può dire che, in effetti, tutto l’incontro di sabato è stata una riflessione su chi siamo e su chi vogliamo essere: nelle sue conclusioni il vescovo Rocco ha ricordato che “il cammino sinodale non è qualcosa in più da fare” o un “aggettivo” da appiccicare a quello che si faceva già prima. Riprendendo il titolo dell’Assemblea, il pastore ha sottolineato che “camminiamo” significa che, come Chiesa, “dobbiamo pensarci in cammino e spingerci anche negli spazi inquinati e sconosciuti”; “sulle orme del Concilio” vuol dire che “il Concilio non è in discussione” e nella Chiesa “non contano i ruoli ma la dignità dei battezzati” e che occorre tornare alla “formazione per giocare il nostro Battesimo nel mondo”; infine “insieme” significa che nella Chiesa non ci deve essere semplice collaborazione ma una vera, e profonda “corresponsabilità”, che si traduce nel camminare insieme sia tra gruppi di diversa ispirazione e spiritualità ma anche tra preti e laici: in questo senso uno dei suggerimenti dati dal pastore è stato quello di costituire “un piccolo gruppo sinodale in ogni parrocchia”.
L’intervento del vescovo è stato preceduto da quello di don Giordano Trapasso, vicario pastorale, che ha tentato di fare una sintesi del primo anno di cammino sinodale in diocesi, e alla luce dello strumento di lavoro “I cantieri di Betania”, pubblicato lo scorso 11 luglio dalla Conferenza episcopale italiana (sia la sintesi diocesana che il documento dei vescovi sono reperibili nel sito della diocesi, www.fermodiocesi.it) ha indicato due percorsi di lavoro per le parrocchie: il primo consiste nel tracciare una “mappa del territorio”, ovvero cercare i luoghi, reali o virtuali, di dove le persone sono. Occorre “scegliere un ambiente che ci sembra più urgente da ascoltare e capire”, perché, come dice la costituzione del Concilio Vaticano II Gaudium et spes, “il mondo ha bisogno della Chiesa ma la Chiesa ha bisogno del mondo”. L’intento di questo primo passo è quello di “aprirci ad orizzonti più ampi di quelli della parrocchia” e coinvolgere persone “fuori dal giro” mettendosi in atteggiamento di ascolto e apertura. Il secondo percorso indicato è quello della “corresponsabilità”: “come possiamo passare dall’essere collaboratori a essere corresponsabili?”. Tra le indicazioni date quella di fare insieme “catechesi bibliche o esercizi spirituali seguiti da risonanze” e intraprendere “un cammino di formazione per i partecipanti agli organismi parrocchiali e diocesani”. Don Giordano ha dato anche una tempistica per questo cammino, che si dovrebbe concludere a settembre/ottobre del prossimo anno.
(1 – CONTINUA)
Un’Assemblea diocesana di ascolto e di vita
(seconda parte)
di Simona Mengascini
L’Assemblea è stata anche l’occasione di sentire le testimonianze di coloro che vivono l’ascolto e il dialogo, che erano i “compiti” affidati alle Chiese locali nel primo anno del cammino sinodale, come dimensione costitutiva della vita quotidiana: in questo senso molto interessanti sono state le esperienze di Carla Piermarini, sindaco di Ortezzano, eletta da appena un anno e di Nazareno Franchellucci, sindaco alla fine del secondo mandato, di Porto Sant’Elpidio, che un po’ a sorpresa, ad aprile scorso, sono stati invitati dal vescovo Pennacchio a dialogare, appunto, sul loro impegno con altri amministratori locali.
Piermarini ha sottolineato che ritrova proprio nell’“ascoltare, capire e intercettare le problematiche” una delle “difficoltà maggiori del suo lavoro” e ha ricordato che la prima delibera della sua Giunta è stata aprire un dopo-scuola gratuito dalle 15 alle 18, per venire incontro ai bisogni della popolazione, compresa quella costituita da bambini non italiani e dalle loro famiglie, di avere un luogo di appoggio “sicuro” e favorevole alla socialità.
Franchellucci ha riflettuto sulla bellezza e complessità di “conciliare vita lavorativa e familiare” per un sindaco che è esposto tutto il giorno alle richieste dei cittadini e deve “trovare un equilibrio tra dialogo, ascolto e azioni da mettere in campo”. Il primo cittadino ha poi ricordato i tempi duri dell’inizio del suo mandato, quando la crisi economica mordeva e ha ricevuto l’importantissimo “supporto dei parroci della mia città”, con cui si è fatta “squadra”: da lì “è partita una bellissima esperienza e siamo rimasti uniti e compatti anche nel periodo dell’accoglienza post-terremoto e poi in quello della pandemia”. “Dialogo e collaborazione” che si sono ripetute nell’organizzazione delle attività estive per i ragazzi.
L’ultima testimonianza è stata di Emanuela Santoni, dell’Azione Cattolica adulti di Grottazzolina, che ha raccontato di quello che è successo l’anno scorso, quando il suo gruppo si è potuto finalmente ritrovare dopo la pandemia: “Abbiamo capito che non potevamo tornare come prima. Dovevamo uscire dai nostri spazi fisici e mentali e andare incontro a persone e ed esperienze”, per cui “abbiamo organizzato cinque incontri fuori dai locali della parrocchia per ragionare sul futuro e trovare piste di impegno concreto”. Questi i temi affrontati in uno scambio ricco di interrogativi e suggestioni: la “bellezza” (al Museo diocesano), la “fragilità” (presso una famiglia che gestisce un’attività di ristorazione e ha persone con problemi di disabilità), le problematiche del lavoro (in un’azienda del territorio), problemi della terra e della sostenibilità (da una famiglia che fa agricoltura biologica) e “futuro possibile per il paese” (palazzo comunale).
(2 – CONTINUA)
Un’Assemblea diocesana di ascolto e di vita
(terza parte)
di Simona Mengascini
Il pomeriggio dell’Assemblea si è aperto con la Lectio di don Andrea Andreozzi, sul sorprendente brano di Esodo 18, 1 – 27: il racconto dell’incontro tra Mosè e il suocero Ietro, sacerdote di Madian, padre della moglie Sipporà, che gli aveva dato i figli Gherson ed Elièzer, in una tenda nel deserto, che dura ben due giorni e si conclude con l’istituzione dei giudici.
Un brano complesso, ma affascinante dove dopo il “racconto della fede”, ovvero la narrazione da parte di Mosè di ciò che Dio ha fatto per il popolo di Israele al faraone e agli Egiziani, i due escono dalla tenda e fanno festa. Ma ciò non basta perché “bisogna vedere se il racconto ricade nella vita: nel primo giorno si celebra e nel secondo si lavora”. Ovvero: Ietro vede che Mosè passa tutto il giorno a dare udienza al popolo, ma nonostante questo il tempo non basta mai e non tutti vengono ascoltati. Ietro si assume la responsabilità di “segnalare un problema” e di dire che “così non va bene”. Il racconto finisce con Mosè che accetta il suggerimento di Ietro di costituire “capi di migliaia” di “centinaia”, di “cinquantine” e di “decine”: il popolo è dunque diviso in gruppi con fisionomie diverse, come possono essere le nostre parrocchie “grandi e piccole”. Attualizzando il brano don Andrea ha suggerito di “condividere esperienze di salvezza nella gioia e nella letizia”, di avere la capacità di riconoscere la “bontà di un consiglio” e “saperlo accogliere e mettere in pratica” e infine, di “avere il popolo come riferimento costante: il popolo arriverà alla meta, alla terra promessa, Mosè si fermerà ai suoi confini”.
Con grandissima lucidità il professor Roberto Mancini, ordinario di Filosofia teoretica all’Università di Macerata, ha svolto una riflessione sull’eredità del Concilio Vaticano II, partendo da un’analisi della realtà odierna, che si caratterizza come un tempo di “violenza, disgregazione e devastazione del Creato”, dove predominano i sentimenti di “scoraggiamento e chiusura” e in cui prevalentemente “si tira avanti”. Da decenni “predomina la parola crisi” e si diffonde ovunque “il contagio dell’individualismo del singolo o del piccolo gruppo” che ha la sua radice nella “disperazione” che deriva dalla fatica e dalla sofferenza della vita e dal “dubbio sull’eternità”: si è “perso il senso del futuro” e anche Dio è diventato “uno scarto: oggi Dio non è un problema, è superfluo, irrilevante”. In questo contesto la Chiesa è chiamata a “rimettersi in discussione”: non è più, assolutamente, il tempo di dire “si è sempre fatto così”. Abbiamo il Concilio a illuminarci la strada: “è un dono, non è l’eredità di un morto”, è “l’attestazione dell’esperienza di una Chiesa che si rincontra con Dio”. Ciò che ha più caratterizzato il Concilio è stato “lo spirito di comunione in tutto ciò che era compromesso dalla separazione” anche dentro la Chiesa stessa: cielo e terra, laici e religiosi, gruppi e movimenti. Il professore ha poi indicato ambiti prioritari e concreti di azione: per esempio l’accoglienza delle donne, che non possono essere tenute ai margini della Chiesa, delle nuove generazioni, degli emarginati, delle persone sole, degli sfruttati. Il Concilio ci ha insegnato a vivere una “speranza incarnata” ovvero ad “agire per aprire una strada dove tutti vedono un muro”, a mettere in pratica “un’azione di pace” in “tutte le relazioni: la pace non può essere una meta remota, deve diventare un metodo” e infine a porci a “servizio della giustizia”, ovvero a “servizio dell’umanità”. Il Sinodo che stiamo vivendo ci invita a essere “Chiesa comunitaria” e a non disperderci nel “clericalismo”, nelle “piccole chiese” o nell’“opzione individualista”. E dunque il primo passo è quello della conversione: “il cuore dei padri deve convertirsi al cuore dei figli” perché i “giovani quando trovano adulti appassionati si aprono e rispondono”: è necessario che “la Chiesa fermana si apra alla partecipazione di tutte le generazioni”. Mancini ha infine ricordato che Etty Hillesum, morta nel campo di concentramento di Auschwitz nel 1943, ha avuto la forza di scrivere: “so che sto partecipando alla nascita della società futura”, una frase che ci ricorda come “lo spirito di comunione è più forte dello spirito di separazione”. (3 – FINE)