TERZA PREDICA DI AVVENTO – 18 dicembre 2020

Card. Padre Raniero Cantalamessa

 

È venuto ad abitare in mezzo a noi

 

“In mezzo a voi c’è uno che voi non conoscete!” È il grido triste di Giovanni Battista ascoltato nel Vangelo della Terza Domenica di Avvento che vorremmo far risuonare in questo ultimo incontro prima del Natale.

Nel memorabile messaggio Urbi et orbi del 27 Marzo scorso in Piazza San Pietro, dopo aver letto il vangelo della tempesta sedata, il Santo Padre si chiedeva in che cosa era consistita la “poca fede” che Gesù rimprovera ai discepoli, e spiegava:

Essi non avevano smesso di credere in Lui, infatti lo invocano. Ma vediamo come lo invocano: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?” (Mc 4, 38). Non t’importa: pensano che Gesù si disinteressi di loro, che non si curi di loro. Tra di noi, nelle nostre famiglie, una delle cose che fa più male è quando ci sentiamo dire: “Non t’importa di me?”. È una frase che ferisce e scatena tempeste nel cuore. Avrà scosso anche Gesù. Perché a nessuno più che a Lui importa di noi.
Possiamo scorgere anche un’altra sfumatura nel rimprovero di Gesù. Non avevano capito chi era colui che stava con loro sulla barca; non avevano capito che, con lui dentro, la barca non poteva affondare perché Dio non può perire. Noi discepoli di oggi commetteremmo lo stesso errore degli apostoli e meriteremmo lo stesso rimprovero di Gesù se nella violenta tempesta che si è abbattuta sul mondo con la pandemia ci dimenticassimo che non siamo soli nella barca e in balia delle onde.
La festa del Natale ci permette di allargare l’orizzonte: dal mare di Galilea al mondo intero, dagli apostoli a noi: “Il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1, 14). Il verbo greco all’aoristo, eskenosen (alla lettera, “ha piantato la tenda”) esprime l’idea di un’azione compiuta e irreversibile. Il Figlio di Dio è sceso su questa terra e Dio non può perire. Il cristiano può proclamare con più forte ragione del salmista:

Dio è per noi rifugio e fortezza,
aiuto sempre vicino nelle angosce.
Perciò non temiamo se trema la terra,
se vacillano i monti nel fondo del mare […] Dio è in mezzo ad essa: non potrà vacillare. (Sal 46, 2-4).

“Dio è con noi”, cioè dalla parte dell’uomo, suo amico e alleato contro le forze del male. Dobbiamo ritrovare il significato primordiale e semplice della incarnazione del Verbo, al di là di tutte le spiegazioni teologiche e i dogmi costruiti su di essa. Dio è venuto ad abitare in mezzo a noi! Ha voluto fare di questo evento il suo nome proprio: Emmanuele, Dio-con-noi. Quello che Isaia aveva profetizzato “Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele (Is 7, 14) è divenuto un fatto compiuto.

Dobbiamo, dicevo, riportarci a prima di tutte le controversie cristologiche del V secolo – a prima di Efeso e di Calcedonia – per ritrovare il paradosso e lo scandalo racchiuso nell’affermazione: “Il Verbo si è fatto carne”. Giova riascoltare la reazione di un pagano colto del II secolo, venuto a conoscenza di quella affermazione dei cristiani. “Figlio di Dio – esclamava il filosofo Celso inorridito – un uomo vissuto pochi anni fa?” Logos eterno uno “di ieri o avantieri? “, un uomo “nato in un borgo della Giudea, da una povera filatrice?”[1]. Non c’è da meravigliarsi. L’unione perfetta della divinità e dell’umanità nella persona di Cristo era la più grande di tutte le novità possibili, “l’unica cosa nuova sotto il sole”[2], la definisce san Giovanni Damasceno.

La prima grande battaglia che la fede in Cristo ha dovuto affrontare non è stata quella della sua divinità, ma quella della sua umanità e della verità dell’incarnazione. All’origine di questo rifiuto c’era il dogma di Platone secondo cui “nessun Dio si mescola con l’uomo”[3]. Sant’Agostino ha scoperto, per propria esperienza, la radice ultima della difficoltà di credere nell’incarnazione, e cioè la mancanza di umiltà. “Non essendo umile – scrive nelle Confessioni – non comprendevo l’umiltà di Dio”[4].

La sua esperienza ci aiuta a capire la radice ultima dell’ateismo moderno e ci indica l’unico modo possibile per superarlo. A partire da Hermann Samuel Reimarus nel secolo XVIII, è stato tutto un assalto alla verità storica del Vangelo e alla divinità di Cristo. Gesù ha detto: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre, se non per mezzo di me” (Gv 14, 6). Una volta dichiarata impercorribile questa unica via di accesso a Dio, è stato facile passare prima al deismo e poi all’ateismo.

L’esperienza di Agostino – dicevo – indica anche la via per superare l’ostacolo: deporre l’orgoglio e accettare l’umiltà di Dio. “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11, 25): tutta la storia dell’incredulità umana è spiegata da queste parole di Cristo. L’umiltà fornisce la chiave per capire l’incarnazione. Ci vuole poca potenza per mettersi in mostra; ce ne vuole molta, invece, per mettersi da parte e cancellarsi. Dio è questa illimitata potenza di nascondimento di sé: “Spogliò se stesso, assumendo la forma di servo…Umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte” (Fil 2, 7-8).

Dio è amore, per questo è umiltà! L’amore crea dipendenza dalla persona amata, una dipendenza che non umilia, ma rende felici. Le due frasi “Dio è amore” e “Dio è umiltà” sono come due facce della stessa medaglia. Ma che significa la parola umiltà applicata a Dio e in che senso Gesù può dire: “Imparate da me che sono mite ed umile di cuore” (Mt 11, 29)? La spiegazione è che l’umiltà essenziale non consiste nell’essere piccoli (si può essere piccoli di fatto senza essere umili); non consiste nel ritenersi piccoli (ciò può dipendere da una cattiva idea di sé); non consiste nel proclamarsi piccoli (lo si può dire senza crederlo); consiste nel farsi piccoli e farsi piccoli per amore, per elevare gli altri. In questo senso, veramente umile è soltanto Dio.

Chi è come il Signore, nostro Dio,
che siede nell’alto
e si china a guardare
sui cieli e sulla terra?
Solleva dalla polvere il debole,
dall’immondizia rialza il povero (Sal 113, 5-7),

Lo aveva capito, senza tanti studi, Francesco d’Assisi che nelle sue “Lodi di Dio Altissimo”, a un certo punto, rivolto a Dio dice: “Tu sei umiltà!”[5] e nella sua “Lettera a tutto l’Ordine” esclama: “Guardate, fratelli, l’umiltà di Dio”. Ogni giorno – scrive in una delle sue Ammonizioni – egli si umilia, come quando dalla sede regale discese nel grembo della Vergine”[6].

Natale è la festa dell’umiltà di Dio. Per celebrarla in spirito e verità dobbiamo farci piccoli, come ci si deve abbassare per entrare per la porta angusta che immette nella Basilica della Natività a Betlemme.

 

“In mezzo a voi c’è uno che voi non conoscete!”

 

Ma ritorniamo al cuore del mistero: “Il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi”. Dio è con noi per sempre, irrevocabilmente. Questo è, d’ora in poi, l’oggetto centrale della profezia cristiana. Zaccaria saluta il Precursore chiamandolo “profeta dell’altissimo” (Lc 1, 76) e Gesù dice di lui che è “più che un profeta” (Mt 11, 9). Ma in che senso Giovanni Battista è un profeta? Dov’è la profezia nel caso suo? I profeti biblici annunciavano una salvezza futura; Giovanni Battista non annuncia una salvezza futura; addita, al contrario, uno che è presente lì davanti a lui. I profeti antichi aiutavano il popolo a oltrepassare la barriera del tempo; Giovanni Battista aiuta il popolo ad oltrepassare la barriera, ancora più spessa, delle apparenze contrarie. Il Messia tanto atteso – aspettato dai patriarchi, annunciato dai profeti, cantato dai salmi – sarebbe dunque quell’uomo dalle apparenze e dalle origini così umili e ordinarie, di cui si sa tutto, compreso il paese di origine?

È relativamente facile credere a qualcosa di grandioso e di divino, quando si prospetta in un futuro indefinito: “in quei giorni”, “negli ultimi tempi”, in una cornice cosmica, con i cieli che stillano dolcezza e la terra che si apre per fare germogliare il Salvatore (cf. Is 45, 8). È più difficile quando si deve dire: “Eccolo! È lui!” Si è subito tentati di dire: Tutto qui? “Da Nazareth può venire qualcosa di buono?” (Gv 1, 46); “Costui sappiamo di dov’è” (Gv 7, 27).

Questo era un compito profetico sovrumano e si capisce perché il Precursore è definito “più che un profeta”. Egli è l’uomo che punta il dito verso una persona e pronuncia un perentorio “Ecce, Eccolo! “Ecco l’Agnello di Dio!” (Gv 1, 29). Che brivido dovette correre per il corpo di coloro che ricevettero per primi tale rivelazione. Una potente azione dello Spirito Santo accompagnava le parole del Precursore e ne rivelava la verità ai cuori ben disposti. Passato e futuro, attesa e compimento si toccavano. L’arco voltaico della storia della salvezza si chiudeva.

 

Io credo che Giovanni Battista ci ha lasciato il suo stesso compito profetico: continuare a gridare: “In mezzo a voi c’è uno che voi non conoscete!” (Gv 1, 26). Egli ha inaugurato la nuova profezia che non consiste – dicevo – nell’annunciare una salvezza futura, ma nel rivelare la presenza di Cristo nella storia: “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20). Cristo non è presente nella storia soltanto perché si scrive e si parla continuamente di lui, ma perché è risorto e vive secondo lo Spirito. Non solo intenzionalmente, ma realmente. L’evangelizzazione comincia da qui.

Al tempo del Battista, ciò che faceva difficoltà era il corpo fisico di Gesù, la sua carne così simile alla nostra, eccetto il peccato. Oggi è soprattutto il suo corpo mistico, la Chiesa, a fare difficoltà e a scandalizzare. Così simile al resto dell’umanità, non escluso neppure il peccato! Come il Precursore fece riconoscere Cristo sotto l’umiltà della carne ai suoi contemporanei, così è necessario oggi farlo riconoscere nella povertà e nella miseria della sua Chiesa, come pure nella povertà e miseria di ciascuno di noi.

 

Quello che Paolo aggiunge a Giovanni

 

Ma dobbiamo aggiungere qualcosa a quanto detto fin qui. Non importa, infatti, sapere soltanto che Dio si è fatto uomo; importa sapere anche che tipo di uomo Dio si è fatto. È significativo il modo diverso e complementare in cui Giovanni e Paolo descrivono ognuno l’evento dell’incarnazione. Per Giovanni essa consiste nel fatto che il Verbo che era Dio si è fatto carne (cf. Gv 1, 1-14); per Paolo, nel fatto che “Cristo, essendo di natura divina, ha assunto la forma di servo” (cf. Fil 2, 5 ss.). Per Giovanni, il Verbo, essendo Dio, si è fatto uomo; per Paolo “Cristo, da ricco che era, si è fatto povero” (cf. 2Cor 8, 9).

La distinzione tra il fatto dell’incarnazione e il modo di essa, tra la sua dimensione ontologica e quella esistenziale, ci interessa perché getta una luce singolare sul problema attuale della povertà e dell’atteggiamento dei cristiani verso di essa. Aiuta a dare un fondamento biblico e teologico alla scelta preferenziale dei poveri, proclamata nel Concilio Vaticano II. “I Padri conciliari – scrisse Jean Guitton, osservatore laico al Vaticano II – hanno ritrovato il sacramento della povertà, cioè la presenza di Cristo sotto le specie di coloro che soffrono”[7].

 

Il “sacramento” della povertà! Sono parole forti, ma fondate. Se per il fatto dell’incarnazione, il Verbo ha, in certo senso, assunto ogni uomo (così pensavano alcuni Padri greci), per il modo in cui essa si è realizzata, egli ha assunto, a un titolo tutto particolare, il povero, l’umile, il sofferente. Ha “istituito” questo segno, come ha istituito l’Eucaristia. Colui infatti che pronunciò sul pane le parole: “Questo è il mio corpo”, ha pronunciato le stesse parole anche dei poveri. Lo ha fatto quando, parlando di quello che si è fatto – o si è omesso di fare – per l’affamato, l’assetato, il prigioniero, l’ignudo e l’esule, ha dichiarato solennemente: “L’avete fatto a me” e “Non l’avete fatto a me” (Mt 25, 31 ss.).

 

Traiamo la conseguenza che deriva da tutto ciò sul piano dell’ecclesiologia. San Giovanni XXIII, in occasione del Concilio, ha coniato l’espressione “Chiesa dei poveri”[8]. Essa riveste un significato che va al di là di quello che si intende di solito. La Chiesa dei poveri non è costituita solo dai poveri della Chiesa! In un certo senso, tutti i poveri del mondo – siano essi battezzati o meno – le appartengono. “Ma – si obbietta – non hanno avuto la fede, né ricevuto il battesimo!” È vero, ma neppure i Santi Innocenti che festeggiamo dopo Natale li avevano avuti. La loro povertà e sofferenza, se è incolpevole, è agli occhi di Dio il loro battesimo di sangue. Dio ha molti più modi di salvare di quanti ne immaginiamo noi, anche se tutti questi modi – nessuno escluso – “in un modo noto solo a Dio”[9], passano attraverso Cristo.

I poveri sono “di Cristo”, non perché si dichiarano appartenenti a lui, ma perché lui li ha dichiarati appartenenti a sé, li ha dichiarati suo corpo. Questo non vuol dire che basti essere poveri e affamati in questo mondo per entrare automaticamente nel regno finale di Dio. Le parole: “Venite benedetti del Padre mio” sono rivolte a quelli che si sono presi cura dei poveri, non necessariamente ai poveri stessi, per il semplice fatto di essere stati materialmente poveri nella vita.

La Chiesa di Cristo è dunque immensamente più vasta di quello che dicono i numeri e le statistiche. Non per semplice modo di dire, o per un trionfalismo fuori luogo. Nessuno, al di fuori di Gesù, ha proclamato: “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 40), dove il “fratello più piccolo” non indica solo il credente in Cristo, ma ogni uomo.
Ne deriva che il papa – e con lui gli altri pastori della Chiesa – è davvero il “padre dei poveri”. È una gioia e uno stimolo per tutti noi vedere quanto questo ruolo è stato preso a cuore dagli ultimi Sommi Pontefici e in modo tutto particolare dal pastore che siede oggi sulla cattedra di Pietro. Egli è la voce più autorevole che si leva in loro difesa, in un mondo che conosce solo la selezione e lo scarto. Lui, non si è “dimenticato dei poveri”, no davvero! La Scrittura contiene una benedizione speciale per coloro che hanno a cuore la sorte del povero:

Beato l’uomo che ha cura del debole…
Il Signore veglierà su di lui,
lo farà vivere beato sulla terra,
non lo abbandonerà in preda ai nemici. (Sal 41, 2-3).

Di Maria e Giuseppe si legge nel vangelo che “non c’era posto per essi nell’albergo” (Lc 2, 7). Anche oggi non c’è posto per i poveri nell’albergo del mondo, ma la storia ha mostrato da che parte stava Dio e da che parte deve stare la Chiesa. Andare verso i poveri è imitare l’umiltà di Dio. È un farsi piccoli per amore, per innalzare chi è in basso.

Ma non ci illudiamo: questa è una cosa più facile a dirsi che a farsi. Un antico Padre del deserto, Isacco di Ninive, dava questo consiglio a chi è costretto a parlare di cose spirituali alle quali non è ancora giunto con la vita: “Parlane come uno che appartiene alla classe dei discepoli e non con autorità, dopo aver umiliato la tua anima ed esserti fatto più piccolo di ogni tuo ascoltatore”[10]. È così che io ho parlato dell’andare verso i poveri.

 

“Prenderemo dimora presso di lui”

 

“Il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi”. Dobbiamo, prima di concludere, passare dal plurale al singolare. Non è venuto genericamente nel mondo, ma personalmente in ciascuna anima credente. Gesù ha detto: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14, 23). Cristo non è presente dunque soltanto sulla barca del mondo o della Chiesa; è presente nella piccola barca della mia vita. Che pensiero, se riuscissimo a crederci veramente! Santa Elisabetta della Trinità vi ha trovato il segreto della propria santità. “Mi sembra – scriveva a un’amica – di aver trovato il mio cielo sulla terra, poiché il cielo è Dio e Dio è nella mia anima. Il giorno che ho capito questo tutto si è illuminato”[11].

Con le restrizioni che pone al culto pubblico e alla frequenza delle chiese, la pandemia potrebbe essere l’occasione per molti di scoprire che Dio non lo incontriamo solo andando in chiesa; che possiamo adorare Dio “in spirito e verità” e intrattenerci con Gesù anche stando chiusi in casa, o nella nostra camera. Il cristiano non potrà mai fare a meno dell’Eucaristia e della comunità, ma quando questo è impedito da forza maggiore non deve pensare che la sua vita cristiana si interrompe. Se non si è mai incontrato Cristo nel proprio cuore, non lo si incontrerà mai altrove, nel senso forte del termine.

C’è una affermazione ardita circa il Natale che è rimbalzata di epoca in epoca, sulla bocca di grandi dottori e maestri di spirito della Chiesa: Origene, sant’Agostino, san Bernardo. Angelo Silesio, e altri ancora. Esso, in sostanza, dice così: “Che giova a me che Cristo sia nato una volta a Betlemme da Maria, se egli non nasce per fede anche nel mio cuore?”[12]. “Dov’è che Cristo nasce, nel senso più profondo, se non nel tuo cuore e nella tua anima?”, scrive sant’Ambrogio[13]. “Il Verbo di Dio, fa eco san Massimo Confessore, vuole ripetere in tutti gli uomini il mistero della sua incarnazione”[14]. Una verità, come si vede, veramente ecumenica.

Facendo eco a questa stessa tradizione, san Giovanni XXIII, nel messaggio natalizio del 1962, elevava questa ardente preghiera: “O Verbo eterno del Padre, Figlio di Dio e di Maria, rinnova anche oggi, nel segreto delle anime, il mirabile prodigio della tua nascita”.

Facciamo nostra questa preghiera, ma, nella situazione drammatica in cui ci troviamo, aggiungiamo anche l’ardente supplica della liturgia natalizia: “Re delle genti, atteso da tutte le nazioni, pietra angolare che riunisci i popoli in uno: Vieni e salva l’uomo che hai formato dalla terra”[15]. Vieni e risolleva l’umanità stremata dalla lunga prova di questa pandemia.

 

 

[1] In Origene, Contro Celso, I, 26.28; VI, 10.

[2] S. Giovanni Damasceno, Fede ortodossa, 45.

[3] Platone, Simposio, 203°; cf. Apuleio, De deo Socratis, 4: “Nullus deus miscetur ho minibus”.

[4] Confessioni, VII, 18.24.

[5] Fonti Francescane, 221.

[6] Fonti Francescane, 144.

[7]J. Guitton, cit. da R. Gil, Presencia de los pobres en el concilio, in “Proyección” 48, 1966, p.30.

[8] In AAS 54, 1962, p. 682.

[9] Gaudium et spes, 22.

[10] Isacco di Ninive, Discorsi ascetici 4, Città Nuova, Roma 1984, p. 89.

[11] Lettera 107 del 1902 alla contessa De Sourdon.

[12] Cf. Origene, Commento al vangelo di Luca 22, 3 (SCh 87,p. 302); Angelo Silesio, Il Pellegrino cherubico, I, 61: “Wird Christus tausendmal zu Bethlehem geborn / und nicht in dir: du bleibst noch ewiglich verlorn“.

[13] S. Ambrogio, In Lucam, 11, 38.

[14] S. Massimo Confessore, Ambigua (PG 91, 1084).

[15] Antifona ai Vespri del 22 Dicembre.