Domenica 19 gennaio in parrocchia festeggeremo Sant’Antonio abate, presso l’oratorio don Nazareno Orlandi.
Nel pomeriggio alle 16.30 presso il Santuario benedizione degli animali.
Vita e Culto
All’epoca di san Benedetto, fondatore del monachesimo
occidentale (VI secolo), già circolava da un secolo la Vita narrata di
sant’Antonio (250-356) che visse nel deserto egiziano per oltre 80 anni e legò
la sua persona alla fondazione dell’ascetismo monastico cristiano.
Quell’ascetismo, infatti, partendo proprio dall’Egitto si diffuse in tutto il mondo
cristiano proponendosi come stimolo di conversione religiosa e come modello
di vita spirituale per sant’Agostino, per lo stesso san Benedetto e per molti
altri uomini e santi.
Antonio nacque intorno al 250 in Egitto, a Coma, oggi Qemans, città posta
presso Eracleopoli sulla riva occidentale del Nilo. I suoi genitori erano già
cristiani ed economicamente benestanti. Egli visse l’infanzia e l’adolescenza
con semplicità, bontà e purezza. Rimasto orfano a 20 anni insieme con una
sorella più piccola, decise su ispirazione evangelica di abbandonare ogni
ricchezza e di darsi alla vita monastica, cosa che fece dopo aver affidato la
sorella a delle donne pie e dopo provveduto al futuro di lei. Al principio egli si
ritirò presso la sua città, in un luogo solitario, come facevano molti cristiani
per sfuggire alle persecuzioni. In quel luogo, seguendo in un primo momento
un altro monaco, Antonio si diede alla preghiera ed al lavoro e meditò
profondamente le Sacre Scritture. Poi egli si condusse in perfetta solitudine,
ed in questa condizione ebbero inizio le tentazioni che egli combatteva e
vinceva con la preghiera e con l’uso del segno della croce di Cristo. A 35 anni,
preso ormai dalla grande volontà di ascesi, egli si inoltrò per il deserto e si
incamminò verso i monti del Pispir, in direzione del Mar Rosso. Con quel
percorso, che si svolse tra i sepolcri e le rocche abbandonate e tra le insidie
dell’ambiente e degli animali, nacque il fuoco dell’ascetismo: «una fiamma che
nessun’acqua poté estinguere».
Si fermò presso un fortilizio diroccato, luogo orrido e nido di serpi ma con il
vantaggio di trovarsi presso una fonte. Antonio vi stette nascosto per alcuni
anni, aiutato solo da un monaco che ogni tanto lo riforniva con viveri lanciati
dall’esterno delle mura. La solitudine di Antonio divenne proficua ed
esemplare per molti altri monaci che si erano ritirati nel deserto ed essi si
rivolsero a lui per ricevere il suo insegnamento e la sua guida. In questo modo
il santo eremita, chiamato ad essere abate, organizzò alcuni monasteri intorno
al suo eremo presso la riva del Nilo e a ridosso delle montagne circostanti.
Durante la sua guida monastica Antonio ebbe la visita di sant’Ilarione (307) e
nel 311, durante la persecuzione di Massimino Dacia, lasciò il deserto per recarsi ad Alessandria e
confortare i martiri con la sua presenza. Dopo quella esperienza decise di non tornare più al suo eremo e
si incamminò con alcuni carovanieri verso la Tebaide per raggiungere un luogo ancora più lontano ed
adatto alla sua ascesi nella solitudine. Raggiunse così, dopo tre notti e tre giorni di cammino, un luogo
situato tra le montagne a trenta miglia dal Nilo, dal quale si poteva vedere il Sinai. Là egli visse il resto
della sua lunghissima vita organizzando il suo eremo ed il suo orto, sempre attaccato dai demoni e dalle
bestie selvatiche. I suoi monaci del Pispir riuscirono a ritrovarlo e fu ancora possibile per lui avere contatti
con le comunità monastiche e con la civiltà circostante. Da quel luogo egli ebbe occasione di muoversi
ancora per andare alla ricerca di Paolo, il primo eremita del deserto come racconta san Girolamo, e di
recarsi ad Alessandria poco prima della sua morte, su invito del vescovo Atanasio suo amico e discepolo,
per confutare la dottrina ariana. Prima di morire egli chiese a Macario e ad Amathas, unici monaci a cui
aveva concesso di vivere presso il suo eremo, di non rivelare il luogo della sua imminente sepoltura al
fine di terminare in umiltà e senza celebrazioni la sua esistenza terrena. Grazie alla divulgazione della
Vita scritta da sant’Atanasio (Atanasio, Vita Antonii) la conoscenza di Antonio si diffuse in tutta la cristianità
ed il suo culto quasi subito varcò i confini dell’Egitto estendendosi in Oriente e in Occidente. La sua festa
fu istituita nel V secolo in Palestina dall’abate Eutimio e venne segnata al 17 Gennaio nel Martirologio
Geronimiano (V secolo) e nel Martirologio Storico di Beda il Venerabile (IX secolo). La devozione per il
santo, che ebbe dai monaci l’appellativo di ‘magno’, assunse caratteri fortemente popolari ed egli fu
considerato protettore potente contro i contagi e contro l’herpes zoster (detto dal volgo «fuoco di
sant’Antonìo»). A lui vennero intitolate chiese, congreghe ed edicole votive, ed il suo nome fu
abitualmente imposto a moltissimi neonati.
Nel 561, grazie ad una rivelazione divina, vennero scoperte le sue reliquie e trasferite nella chiesa di
San Giovanni battista ad Alessandria. Nel 635, durante la conquista araba, le sue reliquie furono portate
a Costantinopoli ove stettero fino al tempo delle crociate, fino a quando un cavaliere le portò a Motte -Saint-Didier in Francia e furono riposte in una chiesa consacrata da papa Callisto lI nel 1119. Qualche
decennio prima era già stato istituito l’Ordine dei monaci di Sant’Antonio.
Nel 1491 le reliquie di sant’Antonio abate (o ‘magno’) furono traslate a Saint Julien situata vicino ad
Arles. Intorno alle reliquie di Antonio conservate nella Chiesa di Saint-Antoine de Viennois si sviluppò la
devozione principale che riguardava la guarigione dal ‘fuoco di Sant’Antonio’. Il numero dei malati che
ricorrevano al santo taumaturgo era così elevato che fu necessario costruire apposite strutture
ospedaliere ed impegnare l’ordine degli Antoniani per l’assistenza e la cura dei devoti pellegrini. Il simbolo
di quell’Ordine fu la cruccia a forma di T che il santo portava per appoggiarsi nella sua vecchiaia, ed una
pratica che poi si diffuse in tutte le contrade d’Europa fu quella di allevare in libertà dei maialini, con al
collo un campanello, che venivano nutriti dalla popolazione.
Il fuoco, il bastone, l’animale, il saio monastico, l’assistenza, divennero i simboli devozionali principali
legati al culto di sant’Antonio abate, e sono ancora oggi presenti nella tradizione religiosa popolare. I falò
di sant’Antonio abate che si accendono in moltissimi paesi,con il contributo di tutti nella raccolta delle
fascine e con la divisione quasi sacrale delle ceneri residue, sono una pratica caratteristica ed
affascinante della tradizionale vita comunitaria; così come lo sono la devozione, importantissima in molti
luoghi, di portare gli animali dell’aia con nastrini e fiocchi a ricevere la benedizione ecclesiastica, e la
protezione che il santo assicura alle attività agricole e alla salute degli animali domestici. Il patronato
devo-zionale ed il significato esemplare del culto dl sant’Antonio abate nella moderna civiltà si può
considerare anche di carattere ‘ecologico’ e di valozizzazione dei corretti rapporti dell’uomo con la natura.
Infatti Sant’Antonio abate è celebrato come patrono dei vigili del fuoco, dei fornai, dei pizzicagnoli, dei
macellai, dei salumieri, degli animali domestici e del bestiame. La tradizione vuole pure che la devozione
antoniana si sia ampiamente diffusa grazie alla promessa che lo stesso Gesù aveva fatto al santo eremita
per premiarlo con la fama delle sue aspre lotte combattute nella solitudine.