DISCORSO DI PAPA FRANCESCO

(Sala Clementina – Lunedì, 21 dicembre 2015)

 Cari fratelli e sorelle,

vi chiedo scusa di non parlare in piedi, ma da alcuni giorni sono sotto l’influsso dell’influenza e non mi sento molto forte. Con il vostro permesso, vi parlo seduto.

Sono lieto di rivolgervi gli auguri più cordiali di un santo Natale e felice Anno Nuovo, che si estendono anche a tutti i collaboratori, ai Rappresentanti Pontifici, e particolarmente a coloro che, durante l’anno scorso, hanno terminato il loro servizio per raggiunti limiti di età. Ricordiamo anche le persone che sono state chiamate davanti a Dio. A tutti voi e ai vostri familiari vanno il mio pensiero e la mia gratitudine.

 

Nel mio primo incontro con voi, nel 2013, ho voluto sottolineare due aspetti importanti e inseparabili del lavoro curiale: la professionalità e il servizio, indicando come modello da imitare la figura di san Giuseppe. Invece l’anno scorso, per prepararci al sacramento della Riconciliazione, abbiamo affrontato alcune tentazioni e “malattie” – il “catalogo delle malattie curiali”; oggi invece dovrei parlare degli “antibiotici curiali” – che potrebbero colpire ogni cristiano, ogni curia, comunità, congregazione, parrocchia e movimento ecclesiale. Malattie che richiedono prevenzione, vigilanza, cura e, purtroppo, in alcuni casi, interventi dolorosi e prolungati.

Alcune di tali malattie si sono manifestate nel corso di questo anno, causando non poco dolore a tutto il corpo e ferendo tante anime, anche con lo scandalo.

Sembra doveroso affermare che ciò è stato – e lo sarà sempre – oggetto di sincera riflessione e decisivi provvedimenti. La riforma andrà avanti con determinazione, lucidità e risolutezza, perché Ecclesia semper reformanda.

Tuttavia, le malattie e perfino gli scandali non potranno nascondere l’efficienza dei servizi, che la Curia Romana con fatica, con responsabilità, con impegno e dedizione rende al Papa e a tutta la Chiesa, e questa è una vera consolazione. Insegnava sant’Ignazio che «è proprio dello spirito cattivo rimordere, rattristare, porre difficoltà e turbare con false ragioni, per impedire di andare avanti; invece è proprio dello spirito buono dare coraggio ed energie, dare consolazioni e lacrime, ispirazioni e serenità, diminuendo e rimuovendo ogni difficoltà, per andare avanti nella via del bene»[1].

Sarebbe grande ingiustizia non esprimere una sentita gratitudine e un doveroso incoraggiamento a tutte le persone sane e oneste che lavorano con dedizione, devozione, fedeltà e professionalità, offrendo alla Chiesa e al Successore di Pietro il conforto delle loro solidarietà e obbedienza, nonché delle loro generose preghiere.

Per di più, le resistenze, le fatiche e le cadute delle persone e dei ministri rappresentano anche delle lezioni e delle occasioni di crescita, e mai di scoraggiamento. Sono opportunità per tornare all’essenziale, che ‎significa fare i conti con la consapevolezza che abbiamo di noi stessi, di Dio, del prossimo, del sensus Ecclesiae e del sensus fidei.

 

Di questo tornare all’essenziale vorrei parlarvi oggi, mentre siamo all’inizio del pellegrinaggio dell’Anno Santo della Misericordia, aperto dalla Chiesa pochi giorni fa, e che rappresenta per essa e per tutti noi un forte richiamo alla gratitudine, alla conversione, al rinnovamento, alla penitenza e alla riconciliazione.

In realtà, il Natale è la festa dell’infinita Misericordia di Dio. Dice sant’Agostino d’Ippona: «Poteva esserci misericordia verso di noi infelici maggiore di quella che indusse il Creatore del cielo a scendere dal cielo e il Creatore della terra a rivestirsi di un corpo mortale? Quella stessa misericordia indusse il Signore del mondo a rivestirsi della natura di servo, di modo che pur essendo pane avesse fame, pur essendo la sazietà piena avesse sete, pur essendo la potenza divenisse debole, pur essendo la salvezza venisse ferito, pur essendo vita potesse morire. E tutto questo per saziare la nostra fame, alleviare la nostra arsura, rafforzare la nostra debolezza, cancellare la nostra iniquità, accendere la nostra carità»[2].

Quindi, nel contesto di questo Anno della Misericordia e della preparazione al Santo Natale, ormai alle porte, vorrei presentarvi un sussidio pratico per poter vivere fruttuosamente questo tempo di grazia. Si tratta di un non esaustivo “catalogo delle virtù necessarie” per chi presta servizio in Curia e per tutti coloro che vogliono rendere feconda la loro consacrazione o il loro servizio alla Chiesa.

Invito i Capi dei Dicasteri e i Superiori ad approfondirlo, ad arricchirlo e a completarlo. È un elenco che parte proprio da un’analisi acrostica della parola “misericordia” – padre Ricci, in Cina, faceva questo – affinché sia essa la nostra guida e il nostro faro.

 

1. Missionarietà e pastoralità. La missionarietà è ciò che rende, e mostra, la curia fertile e feconda; è la prova dell’efficacia, dell’efficienza e dell’autenticità del nostro operare. La fede è un dono, ma la misura della nostra fede si prova anche da quanto siamo capaci di comunicarla[3]. Ogni battezzato è missionario della Buona Novella innanzitutto con la sua vita, con il suo lavoro e con la sua gioiosa e convinta testimonianza. La pastoralità sana è una virtù indispensabile specialmente per ogni sacerdote. È l’impegno quotidiano di seguire il Buon Pastore, che si prende cura delle sue pecorelle e dà la sua vita per salvare la vita degli altri. È la misura della nostra attività curiale e sacerdotale. Senza queste due ali non potremo mai volare e nemmeno raggiungere la beatitudine del “servo fedele” (cfr Mt 25, 14-30).

 

2. Idoneità e sagacia. L’idoneità richiede lo sforzo personale di acquistare i requisiti necessari e richiesti per esercitare al meglio i propri compiti e attività, con l’intelletto e l’intuizione. Essa è contro le raccomandazioni e le tangenti. La sagacia è la prontezza di mente per comprendere e affrontare le situazioni con saggezza e creatività. Idoneità e sagacia rappresentano anche la risposta umana alla grazia divina, quando ognuno di noi segue quel famoso detto: “fare tutto come se Dio non esistesse e, in seguito, lasciare tutto a Dio come se io non esistessi”. È il comportamento del discepolo che si rivolge al Signore tutti i giorni con queste parole della bellissima Preghiera Universale attribuita a Papa Clemente XI: «Guidami con la tua sapienza, reggimi con la tua giustizia, incoraggiami con la tua bontà, proteggimi con la tua potenza. Ti offro, o Signore: i pensieri, perché siano diretti a te; le parole, perché siano di te; le azioni, perché siano secondo te; le tribolazioni, perché siano per te»[4].

 

3. Spiritualità e umanità. La spiritualità è la colonna portante di qualsiasi servizio nella Chiesa e nella vita cristiana. Essa è ciò che alimenta tutto il nostro operato, lo sorregge e lo protegge dalla fragilità umana e dalle tentazioni quotidiane. L’umanità è ciò che incarna la veridicità della nostra fede. Chi rinuncia alla propria umanità rinuncia a tutto. L’umanità è ciò che ci rende diversi dalle macchine e dai robot che non sentono e non si commuovono. Quando ci risulta difficile piangere seriamente o ridere appassionatamente – sono due segni – allora è iniziato il nostro declino e il nostro processo di trasformazione da “uomini” a qualcos’altro. L’umanità è il saper mostrare tenerezza e familiarità e cortesia con tutti (cfr Fil 4, 5). Spiritualità e umanità, pur essendo qualità innate, tuttavia sono potenzialità da realizzare interamente, da raggiungere continuamente e da dimostrare quotidianamente.

4. Esemplarità e fedeltà. Il beato Paolo VI ricordò alla Curia – nel ’63 – «la sua vocazione all’esemplarità»[5]. Esemplarità per evitare gli scandali che feriscono le anime e minacciano la credibilità della nostra testimonianza. Fedeltà alla nostra consacrazione, alla nostra vocazione, ricordando sempre le parole di Cristo: «Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti» (Lc 16,10) e «Chi invece scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare. Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che vengano scandali, ma guai all’uomo a causa del quale viene lo scandalo!» (Mt 18, 6-7).

 

5. Razionalità e amabilità. La razionalità serve per evitare gli eccessi emotivi e l’amabilità per evitare gli eccessi della burocrazia e delle programmazioni e pianificazioni. Sono doti necessarie per l’equilibrio della personalità: «Il nemico – e cito sant’Ignazio un’altra volta, scusatemi – osserva bene se un’anima è grossolana oppure delicata; se è delicata, fa in modo di renderla delicata fino all’eccesso, per poi maggiormente angosciarla e confonderla»[6]. Ogni eccesso è indice di qualche squilibrio, sia l’eccesso nella razionalità, sia nell’amabilità.

 

6. Innocuità e determinazione. L’innocuità che rende cauti nel giudizio, capaci di astenerci da azioni impulsive e affrettate. È la capacità di far emergere il meglio da noi stessi, dagli altri e dalle situazioni agendo con attenzione e comprensione. È il fare agli altri quello che vorresti fosse fatto a te (cfr Mt 7, 12 e Lc 6, 31). La determinazione è l’agire con volontà risoluta, con visione chiara e con obbedienza a Dio, e solo per la legge suprema della salus animarum (cfr CIC, can. 1725).

 

7. Carità e verità. Due virtù indissolubili dell’esistenza cristiana: “fare la verità nella carità e vivere la carità nella verità” (cfr Ef 4, 15)[7]. Al punto che la carità senza verità diventa ideologia del buonismo distruttivo e la verità senza carità diventa “giudiziarismo” cieco.

 

8. Onestà e maturità. L’onestà è la rettitudine, la coerenza e l’agire con sincerità assoluta con noi stessi e con Dio. Chi è onesto non agisce rettamente soltanto sotto lo sguardo del sorvegliante o del superiore; l’onesto non teme di essere sorpreso, perché non inganna mai colui che si fida di lui. L’onesto non spadroneggia mai sulle persone o sulle cose che gli sono state affidate da amministrare, come il «servo malvagio» (Mt 24, 48). L’onestà è la base su cui poggiano tutte le altre qualità. Maturità è la ricerca di raggiungere l’armonia tra le nostre capacità fisiche, psichiche e spirituali. Essa è la meta e l’esito di un processo di sviluppo che non finisce mai e che non dipende dall’età che abbiamo.

 

9. Rispettosità e umiltà. La rispettosità è la dote delle anime nobili e delicate; delle persone che cercano sempre di dimostrare rispetto autentico agli altri, al proprio ruolo, ai superiori e ai subordinati, alle pratiche, alle carte, al segreto e alla riservatezza; le persone che sanno ascoltare attentamente e parlare educatamente. L’umiltà invece è la virtù dei santi e delle persone piene di Dio, che più crescono nell’importanza più cresce in loro la consapevolezza di essere nulla e di non poter fare nulla senza la grazia di Dio (cfr Gv 15, 8).

 

10. Doviziosità” – io ho il vizio dei neologismi – e attenzione. Più abbiamo fiducia in Dio e nella sua provvidenza più siamo doviziosi di anima e più siamo aperti nel dare, sapendo che più si dà più si riceve. In realtà, è inutile aprire tutte le Porte Sante di tutte le basiliche del mondo se la porta del nostro cuore è chiusa all’amore, se le nostre mani sono chiuse al donare, se le nostre case sono chiuse all’ospitare e se le nostre chiese sono chiuse all’accogliere. L’attenzione è il curare i dettagli e l’offrire il meglio di noi e il non abbassare mai la guardia sui nostri vizi e mancanze. San Vincenzo de’ Paoli pregava così: “Signore, aiutami ad accorgermi subito: di quelli che mi stanno accanto, di quelli che sono preoccupati e disorientati, di quelli che soffrono senza mostrarlo, di quelli che si sentono isolati senza volerlo”.

 

11. Impavidità e prontezza. Essere impavido significa non lasciarsi impaurire di fronte alle difficoltà, come Daniele nella fossa dei leoni, come Davide di fronte a Golia; significa agire con audacia e determinazione e senza tiepidezza «come un buon soldato» (2Tm 2, 3-4); significa saper fare il primo passo senza indugiare, come Abramo e come Maria. Invece la prontezza è il saper agire con libertà e agilità senza attaccarsi alle cose materiali che passano. Dice il salmo: «Alla ricchezza, anche se abbonda, non attaccate il cuore» (Sal 61, 11). Essere pronto vuol dire essere sempre in cammino, senza mai farsi appesantire accumulando cose inutili e chiudendosi nei propri progetti, e senza farsi dominare dall’ambizione.

 

12. E finalmente affidabilità e sobrietà. Affidabile è colui che sa mantenere gli impegni con serietà e attendibilità quando è osservato ma soprattutto quando si trova solo; è colui che irradia intorno a sé un senso di tranquillità perché non tradisce mai la fiducia che gli è stata accordata. La sobrietà – ultima virtù di questo elenco non per importanza – è la capacità di rinunciare al superfluo e di resistere alla logica consumistica dominante. La sobrietà è prudenza, semplicità, essenzialità, equilibrio e temperanza. La sobrietà è guardare il mondo con gli occhi di Dio e con lo sguardo dei poveri e dalla parte dei poveri. La sobrietà è uno stile di vita[8] che indica il primato dell’altro come principio gerarchico ed esprime l’esistenza come premura e servizio verso gli altri. Chi è sobrio è una persona coerente ed essenziale in tutto, perché sa ridurre, recuperare, riciclare, riparare e vivere con il senso della misura.

 

Cari fratelli,

la misericordia non è un sentimento passeggero, ma è la sintesi della Buona Notizia, è la scelta di chi vuole avere i sentimenti del Cuore di Gesù[9], di chi vuol seguire seriamente il Signore che ci chiede: «Siate misericordiosi come il Padre vostro» (Lc 6, 36; cfr Mt 5, 48). Afferma padre Ermes Ronchi: «Misericordia: scandalo per la giustizia, follia per l’intelligenza, consolazione per noi debitori. Il debito di esistere, il debito di essere amati si paga solo con la misericordia».

Dunque, sia la misericordia a guidare i nostri passi, a ispirare le nostre riforme, a illuminare le nostre decisioni. Sia essa la colonna portante del nostro operare. Sia essa a insegnarci quando dobbiamo andare avanti e quando dobbiamo compiere un passo indietro. Sia essa a farci leggere la piccolezza delle nostre azioni nel grande progetto di salvezza di Dio e nella maestosità e misteriosità della sua opera.

 

Per aiutarci a capire questo, lasciamoci incantare dalla preghiera stupenda che viene comunemente attribuita al Beato Oscar Arnulfo Romero, ma che fu pronunciata per la prima volta dal Cardinale John Dearden:

Ogni tanto ci aiuta il fare un passo indietro e vedere da lontano.
Il Regno non è solo oltre i nostri sforzi, è anche oltre le nostre visioni.
Nella nostra vita riusciamo a compiere solo una piccola parte
di quella meravigliosa impresa che è l’opera di Dio.
Niente di ciò che noi facciamo è completo.
Che è come dire che il Regno sta più in là di noi stessi.
Nessuna affermazione dice tutto quello che si può dire.
Nessuna preghiera esprime completamente la fede.
Nessun credo porta la perfezione.
Nessuna visita pastorale porta con sé tutte le soluzioni.
Nessun programma compie in pieno la missione della Chiesa.
Nessuna meta né obbiettivo raggiunge la completezza.
Di questo si tratta:
noi piantiamo semi che un giorno nasceranno.
Noi innaffiamo semi già piantati, sapendo che altri li custodiranno.
Mettiamo le basi di qualcosa che si svilupperà.
Mettiamo il lievito che moltiplicherà le nostre capacità.
Non possiamo fare tutto,
però dà un senso di liberazione l’iniziarlo.
Ci dà la forza di fare qualcosa e di farlo bene.
Può rimanere incompleto, però è un inizio, il passo di un cammino.
Una opportunità perché la grazia di Dio entri
e faccia il resto.
Può darsi che mai vedremo il suo compimento,
ma questa è la differenza tra il capomastro e il manovale.
Siamo manovali, non capomastri,
servitori, non messia.
Noi siamo profeti di un futuro che non ci appartiene.

 

E con questi pensieri, con questi sentimenti, vi auguro un buon e santo Natale, e vi chiedo di pregare per me. Grazie.

 

 

 



[1]Esercizi Spirituali, 315.

[2]Serm. 207, 1: PL 38, 1042.

[3]«La missionarietà non è solo una questione di territori geografici, ma di popoli, di culture e di singole persone, proprio perché i “confini” della fede non attraversano solo luoghi e tradizioni umane, ma il cuore di ciascun uomo e di ciascuna donna, Il Concilio Vaticano II ha sottolineato in modo speciale come il compito missionario, il compito di allargare i confini della fede, sia proprio di ogni battezzato e di tutte le comunità cristiane» (Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2013, 2).

[4]Missale Romanum, ed. 2002.

[6]Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali 349.

[7]«La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, ‎con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e ‎dell’umanità intera […] È una forza che ha la sua origine in Dio, Amore eterno e Verità assoluta» (Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 29 giugno 2009, ‎‎1: AAS 101 [2009], 641). Perciò occorre «coniugare la carità con la verità non solo nella direzione, segnata da san Paolo, della ‎‎“veritas in caritate” (Ef 4, 15), ma anche in quella, inversa e complementare, della “caritas in ‎veritate”. La verità va cercata, trovata ed espressa nell’“economia” della carità, ma la carità a sua ‎volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità» (ibid., 2).‎

[8]Uno stile di vita improntato alla sobrietà restituisce all’uomo «quell’atteggiamento disinteressato, gratuito, estetico che nasce dallo stupore per l’essere e per la bellezza, il quale fa leggere nelle cose visibili il messaggio del Dio invisibile che le ha create» (Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 37); cfr AA.VV., Nuovi stili di vita nel tempo della globalizzazione, Fondaz.Apostolicam actuositatem, Roma 2002.

[9]Giovanni Paolo II, Angelus del 9 luglio 1989: «L’espressione “Cuore di Gesù” richiama subito alla mente l’umanità di Cristo, e ne sottolinea la ricchezza dei sentimenti, la compassione verso gli infermi; la predilezione per i poveri; la misericordia verso i peccatori; la tenerezza verso i bambini; la fortezza nella denuncia dell’ipocrisia, dell’orgoglio, della violenza; la mansuetudine di fronte agli oppositori; lo zelo per la gloria del Padre e il giubilo per i suoi disegni di grazia, misteriosi e provvidenti… richiama poi la tristezza di Cristo per il tradimento di Giuda, lo sconforto per la solitudine, l’angoscia dinanzi alla morte, l’abbandono filiale e obbediente nelle mani del Padre. E dice soprattutto l’amore che sgorga inarrestabile dal suo intimo: amore infinito verso il Padre e amore senza limiti verso l’uomo».

 

DISCORSO DI PAPA FRANCESCO

(Sala Clementina – Lunedì, 22 dicembre 2014)

 

La Curia Romana e il Corpo di Cristo

“Tu sei sopra i cherubini, tu che hai cambiato la miserabile condizione del mondo

quando ti sei fatto come noi” (Sant’Atanasio)

 

Cari fratelli,

Al termine dell’Avvento ci incontriamo per i tradizionali saluti. Tra qualche giorno avremo la gioia di celebrare il Natale del Signore; l’evento di Dio che si fa uomo per salvare gli uomini; la manifestazione dell’amore di Dio che non si limita a darci qualcosa o a inviarci qualche messaggio o taluni messaggeri, ma dona a noi sé stesso; il mistero di Dio che prende su di sé la nostra condizione umana e i nostri peccati per rivelarci la sua vita divina, la sua grazia immensa e il suo perdono gratuito. E’ l’appuntamento con Dio che nasce nella povertà della grotta di Betlemme per insegnarci la potenza dell’umiltà. Infatti, il Natale è anche la festa della luce che non viene accolta dalla gente “eletta” ma dalla gente povera e semplice che aspettava la salvezza del Signore.

Innanzitutto, vorrei augurare a tutti voi – Collaboratori, fratelli e sorelle, Rappresentanti pontifici sparsi per il mondo – e a tutti i vostri cari un santo Natale e un felice Anno Nuovo. Desidero ringraziarvi cordialmente per il vostro impegno quotidiano al servizio della Santa Sede, della Chiesa Cattolica, delle Chiese particolari e del Successore di Pietro.

Essendo noi persone, e non numeri o soltanto denominazioni, ricordo in maniera particolare coloro che, durante questo anno, hanno terminato il loro servizio per raggiunti limiti di età o per aver assunto altri ruoli oppure perché sono stati chiamati alla Casa del Padre. Anche a tutti loro e ai loro famigliari vanno il mio pensiero e la mia gratitudine.

Desidero insieme a voi elevare al Signore un vivo e sentito ringraziamento per l’anno che ci sta lasciando, per gli eventi vissuti e per tutto il bene che Egli ha voluto generosamente compiere attraverso il servizio della Santa Sede, chiedendogli umilmente perdono per le mancanze commesse “in pensieri, parole, opere e omissioni”.

E partendo proprio da questa richiesta di perdono, vorrei che questo nostro incontro e le riflessioni che condividerò con voi diventassero, per tutti noi, un sostegno e uno stimolo a un vero esame di coscienza per preparare il nostro cuore al Santo Natale.

Pensando a questo nostro incontro mi è venuta in mente l’immagine della Chiesa come il Corpo mistico di Gesù Cristo. È un’espressione che, come ebbe a spiegare il Papa Pio XII, «scaturisce e quasi germoglia da ciò che viene frequentemente esposto nella Sacra Scrittura e nei Santi Padri»[1]. Al riguardo san Paolo scrisse: «Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo» (1 Cor12,12)[2].

In questo senso il Concilio Vaticano II ci ricorda che «nella struttura del corpo mistico di Cristo vige una diversità di membri e di uffici. Uno è lo Spirito, il quale per l’utilità della Chiesa distribuisce la varietà dei suoi doni con magnificenza proporzionata alla sua ricchezza e alle necessità dei ministeri (cfr1 Cor12,1-11)»[3]. Perciò «Cristo e la Chiesa formano il “Cristo totale” – Christus totus –. La Chiesa è una con Cristo»[4].

E’ bello pensare alla Curia Romana come a un piccolo modello della Chiesa, cioè come a un “corpo” che cerca seriamente e quotidianamente di essere più vivo, più sano, più armonioso e più unito in sé stesso e con Cristo.

In realtà, la Curia Romana è un corpo complesso, composto da tanti Dicasteri, Consigli, Uffici, Tribunali, Commissioni e da numerosi elementi che non hanno tutti il medesimo compito, ma sono coordinati per un funzionamento efficace, edificante, disciplinato ed esemplare, nonostante le diversità culturali, linguistiche e nazionali dei suoi membri[5].

Comunque, essendo la Curia un corpo dinamico, essa non può vivere senza nutrirsi e senza curarsi. Difatti, la Curia – come la Chiesa – non può vivere senza avere un rapporto vitale, personale, autentico e saldo con Cristo[6]. Un membro della Curia che non si alimenta quotidianamente con quel Cibo diventerà un burocrate (un formalista, un funzionalista, un mero impiegato): un tralcio che si secca e pian piano muore e viene gettato via. La preghiera quotidiana, la partecipazione assidua ai Sacramenti, in modo particolare all’Eucaristia e alla Riconciliazione, il contatto quotidiano con la Parola di Dio e la spiritualità tradotta in carità vissuta sono l’alimento vitale per ciascuno di noi. Che sia chiaro a tutti noi che senza di Lui non possiamo fare nulla (cfr Gv 15, 5).

Di conseguenza, il rapporto vivo con Dio alimenta e rafforza anche la comunione con gli altri, cioè tanto più siamo intimamente congiunti a Dio tanto più siamo uniti tra di noi, perché lo Spirito di Dio unisce e lo spirito del maligno divide.

La Curia è chiamata a migliorarsi, a migliorarsi sempre e a crescere in comunione, santità e sapienza per realizzare pienamente la sua missione[7]. Eppure essa, come ogni corpo umano, è esposta anche alle malattie, al malfunzionamento, all’infermitàE qui vorrei menzionare alcune di queste probabili malattie, “malattie curiali”. Sono malattie più abituali nella nostra vita di Curia. Sono malattie e tentazioni che indeboliscono il nostro servizio al Signore. Credo che ci aiuterà il “catalogo” delle malattie – sull’esempio dei Padri del deserto, che facevano questi cataloghi – di cui parliamo oggi: ci aiuterà a prepararci al Sacramento della Riconciliazione, che sarà un bel passo di tutti noi per prepararci al Natale.

1. La malattia del sentirsi “immortale”, “immune” o addirittura “indispensabile”, trascurando i necessari e abituali controlli. Una Curia che non si autocritica, che non si aggiorna, che non cerca di migliorarsi è un corpo infermo. Un’ordinaria visita ai cimiteri ci potrebbe aiutare a vedere i nomi di tante persone, delle quale alcuni forse pensavano di essere immortali, immuni e indispensabili! È la malattia del ricco stolto del Vangelo che pensava di vivere eternamente (cfrLc 12, 13-21), e anche di coloro che si trasformano in padroni e si sentono superiori a tutti e non al servizio di tutti. Essa deriva spesso dalla patologia del potere, dal “complesso degli Eletti”, dal narcisismo che guarda appassionatamente la propria immagine e non vede l’immagine di Dio impressa sul volto degli altri, specialmente dei più deboli e bisognosi[8]. L’antidoto a questa epidemia è la grazia di sentirci peccatori e di dire con tutto il cuore: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17, 10).

2. La malattia del “martalismo” (che viene da Marta), dell’eccessiva operosità: ossia di coloro che si immergono nel lavoro, trascurando, inevitabilmente, “la parte migliore”: il sedersi ai piedi di Gesù (cfrLc 10, 38-42). Per questo Gesù ha chiamato i suoi discepoli a “riposarsi un po’” (cfr Mc 6, 31), perché trascurare il necessario riposo porta allo stress e all’agitazione. Il tempo del riposo, per chi ha portato a termine la propria missione, è necessario, doveroso e va vissuto seriamente: nel trascorrere un po’ di tempo con i famigliari e nel rispettare le ferie come momenti di ricarica spirituale e fisica; occorre imparare ciò che insegna il Qoèlet: che “c’è un tempo per ogni cosa” (cfr 3, 1).

3. C’è anche la malattia dell’“impietrimento” mentale e spirituale: ossia di coloro che posseggono un cuore di pietra e la “testa dura” (cfr At 7, 51); di coloro che, strada facendo, perdono la serenità interiore, la vivacità e l’audacia e si nascondono sotto le carte diventando “macchine di pratiche” e non “uomini di Dio” (cfr Eb 3, 12). È pericoloso perdere la sensibilità umana necessaria per piangere con coloro che piangono e gioire con coloro che gioiscono! È la malattia di coloro che perdono “i sentimenti di Gesù” (cfr Fil 2, 5) perché il loro cuore, con il passare del tempo, si indurisce e diventa incapace di amare incondizionatamente il Padre e il prossimo (cfr Mt 22, 34-40). Essere cristiano, infatti, significa “avere gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2, 5), sentimenti di umiltà e di donazione, di distacco e di generosità[9].

4. La malattia dell’eccessiva pianificazione e del funzionalismo: quando l’apostolo pianifica tutto minuziosamente e crede che facendo una perfetta pianificazione le cose effettivamente progrediscano, diventando così un contabile o un commercialista. Preparare tutto bene è necessario, ma senza mai cadere nella tentazione di voler rinchiudere e pilotare la libertà dello Spirito Santo, che rimane sempre più grande, più generosa di ogni umana pianificazione (cfr Gv 3, 8). Si cade in questa malattia perché «è sempre più facile e comodo adagiarsi nelle proprie posizioni statiche e immutate. In realtà, la Chiesa si mostra fedele allo Spirito Santo nella misura in cui non ha la pretesa di regolarlo e di addomesticarlo – addomesticare lo Spirito Santo! – … Egli è freschezza, fantasia, novità»[10].

5. La malattia del cattivo coordinamento: quando le membra perdono la comunione tra di loro e il corpo smarrisce la sua armoniosa funzionalità e la sua temperanza, diventando un’orchestra che produce chiasso, perché le sue membra non collaborano e non vivono lo spirito di comunione e di squadra. Quando il piede dice al braccio: “non ho bisogno di te”, o la mano alla testa: “comando io”, causando così disagio e scandalo.

6. C’è anche la malattia dell’“alzheimer spirituale”: ossia la dimenticanza della propria storia di salvezza, della storia personale con il Signore, del «primo amore» (Ap 2, 4). Si tratta di un declino progressivo delle facoltà spirituali che in un più o meno lungo intervallo di tempo causa gravihandicapalla persona facendola diventare incapace di svolgere alcuna attività autonoma, vivendo uno stato di assoluta dipendenza dalle sue vedute spesso immaginarie. Lo vediamo in coloro che hanno perso la memoria del loro incontro con il Signore; in coloro che non hanno il senso “deuteronomico” della vita; in coloro che dipendono completamente dal loro presente, dalle loro passioni, capricci e manie; in coloro che costruiscono intorno a sé muri e abitudini diventando, sempre di più, schiavi degli idoli che hanno scolpito con le loro stesse mani.

7. La malattia della rivalità e della vanagloria[11]: quando l’apparenza, i colori delle vesti e le insegne di onorificenza diventano l’obiettivo primario della vita, dimenticando le parole di san Paolo: «Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil 2, 3-4). È la malattia che ci porta ad essere uomini e donne falsi e a vivere un falso misticismo e un falso “quietismo”. Lo stesso San Paolo li definisce «nemici della Croce di Cristo» perché «si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra» (Fil 3, 18.19).

8. La malattia della schizofrenia esistenziale. E’ la malattia di coloro che vivono una doppia vita, frutto dell’ipocrisia tipica del mediocre e del progressivo vuoto spirituale che lauree o titoli accademici non possono colmare. Una malattia che colpisce spesso coloro che, abbandonando il sevizio pastorale, si limitano alle faccende burocratiche, perdendo così il contatto con la realtà, con le persone concrete. Creano così un loro mondo parallelo, dove mettono da parte tutto ciò che insegnano severamente agli altri e iniziano a vivere una vita nascosta e sovente dissoluta. La conversione è alquanto urgente e indispensabile per questa gravissima malattia (cfr Lc 15, 11-32).

9. La malattia delle chiacchiere, delle mormorazioni e dei pettegolezzi. Di questa malattia ho già parlato tante volte, ma mai abbastanza. E’ una malattia grave, che inizia semplicemente, magari solo per fare due chiacchiere, e si impadronisce della persona facendola diventare “seminatrice di zizzania” (come satana), e in tanti casi “omicida a sangue freddo” della fama dei propri colleghi e confratelli. È la malattia delle persone vigliacche, che non avendo il coraggio di parlare direttamente parlano dietro le spalle. San Paolo ci ammonisce: «Fate tutto senza mormorare e senza esitare, per essere irreprensibili e puri» (Fil 2, 14-15). Fratelli, guardiamoci dal terrorismo delle chiacchiere!

10. La malattia di divinizzare i capi. E’ la malattia di coloro che corteggiano i Superiori, sperando di ottenere la loro benevolenza. Sono vittime del carrierismo e dell’opportunismo, onorano le persone e non Dio (cfr Mt 23, 8-12). Sono persone che vivono il servizio pensando unicamente a ciò che devono ottenere e non a quello che devono dare. Persone meschine, infelici e ispirate solo dal proprio fatale egoismo (cfr Gal 5, 16-25). Questa malattia potrebbe colpire anche i Superiori quando corteggiano alcuni loro collaboratori per ottenere la loro sottomissione, lealtà e dipendenza psicologica, ma il risultato finale è una vera complicità.

11. La malattia dell’indifferenza verso gli altri. Quando ognuno pensa solo a sé stesso e perde la sincerità e il calore dei rapporti umani. Quando il più esperto non mette la sua conoscenza al servizio dei colleghi meno esperti. Quando si viene a conoscenza di qualcosa e la si tiene per sé invece di condividerla positivamente con gli altri. Quando, per gelosia o per scaltrezza, si prova gioia nel vedere l’altro cadere invece di rialzarlo e incoraggiarlo.

12. La malattia della faccia funerea, ossia delle persone burbere e arcigne, le quali ritengono che per essere seri occorra dipingere il volto di malinconia, di severità e trattare gli altri – soprattutto quelli ritenuti inferiori – con rigidità, durezza e arroganza. In realtà, la severità teatrale e il pessimismo sterile[12] sono spesso sintomi di paura e di insicurezza di sé. L’apostolo deve sforzarsi di essere una persona cortese, serena, entusiasta e allegra che trasmette gioia ovunque si trova. Un cuore pieno di Dio è un cuore felice che irradia e contagia con la gioia tutti coloro che sono intorno a sé: lo si vede subito! Non perdiamo dunque quello spirito gioioso, pieno di humor, e persino autoironico, che ci rende persone amabili, anche nelle situazioni difficili[13]. Quanto bene ci fa una buona dose di sano umorismo! Ci farà molto bene recitare spesso la preghiera di san Thomas More[14]: io la prego tutti i giorni, mi fa bene.

13. La malattia dell’accumulare: quando l’apostolo cerca di colmare un vuoto esistenziale nel suo cuore accumulando beni materiali, non per necessità, ma solo per sentirsi al sicuro. In realtà, nulla di materiale potremo portare con noi, perché “il sudario non ha tasche” e tutti i nostri tesori terreni – anche se sono regali – non potranno mai riempire quel vuoto, anzi lo renderanno sempre più esigente e più profondo. A queste persone il Signore ripete: «Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo … Sii dunque zelante e convertiti» (Ap 3, 17.19). L’accumulo appesantisce solamente e rallenta il cammino inesorabilmente! E penso a un aneddoto: un tempo, i gesuiti spagnoli descrivevano la Compagnia di Gesù come la “cavalleria leggera della Chiesa”. Ricordo il trasloco di un giovane gesuita che, mentre caricava su di un camion i suoi tanti averi: bagagli, libri, oggetti e regali, si sentì dire, con un saggio sorriso, da un vecchio gesuita che lo stava ad osservare: “Questa sarebbe la ‘cavalleria leggera della Chiesa’?”. I nostri traslochi sono un segno di questa malattia.

14. La malattia dei circoli chiusi, dove l’appartenenza al gruppetto diventa più forte di quella al Corpo e, in alcune situazioni, a Cristo stesso. Anche questa malattia inizia sempre da buone intenzioni ma con il passare del tempo schiavizza i membri diventando un cancro che minaccia l’armonia del Corpo e causa tanto male – scandali – specialmente ai nostri fratelli più piccoli. L’autodistruzione o il fuoco amico” dei commilitoni è il pericolo più subdolo[15]. È il male che colpisce dal di dentro[16]; e, come dice Cristo, «ogni regno diviso in se stesso va in rovina» (Lc 11, 17).

15. E l’ultima: la malattia del profitto mondano, degli esibizionismi[17], quando l’apostolo trasforma il suo servizio in potere, e il suo potere in merce per ottenere profitti mondani o più poteri. è la malattia delle persone che cercano insaziabilmente di moltiplicare poteri e per tale scopo sono capaci di calunniare, di diffamare e di screditare gli altri, perfino sui giornali e sulle riviste. Naturalmente per esibirsi e dimostrarsi più capaci degli altri. Anche questa malattia fa molto male al Corpo, perché porta le persone a giustificare l’uso di qualsiasi mezzo pur di raggiungere tale scopo, spesso in nome della giustizia e della trasparenza! E qui mi viene in mente il ricordo di un sacerdote che chiamava i giornalisti per raccontare loro – e inventare – delle cose private e riservate dei suoi confratelli e parrocchiani. Per lui contava solo vedersi sulle prime pagine, perché così si sentiva potente e avvincente, causando tanto male agli altri e alla Chiesa. Poverino!

Fratelli, tali malattie e tali tentazioni sono naturalmente un pericolo per ogni cristiano e per ogni curia, comunità, congregazione, parrocchia, movimento ecclesiale, e possono colpire sia a livello individuale sia comunitario.

Occorre chiarire che è solo lo Spirito Santo – l’anima del Corpo Mistico di Cristo, come afferma il Credo Niceno-Costantinopolitano: «Credo… nello Spirito Santo, Signore e vivificatore» – a guarire ogni infermità. È lo Spirito Santo che sostiene ogni sincero sforzo di purificazione e ogni buona volontà di conversione. È Lui a farci capire che ogni membro partecipa alla santificazione del corpo e al suo indebolimento. È Lui il promotore dell’armonia[18]: «Ipse harmonia est», dice san Basilio. Sant’Agostino ci dice: «Finché una parte aderisce al corpo, la sua guarigione non è disperata; ciò che invece fu reciso, non può né curarsi né guarirsi»[19].

La guarigione è anche frutto della consapevolezza della malattia e della decisione personale e comunitaria di curarsi sopportando pazientemente e con perseveranza la cura[20].

Dunque, siamo chiamati – in questo tempo di Natale e per tutto il tempo del nostro servizio e della nostra esistenza – a vivere «secondo la verità nella carità, [cercando] di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità» (Ef 4, 15-16).

Cari fratelli!

Una volta ho letto che i sacerdoti sono come gli aerei: fanno notizia solo quando cadono, ma ce ne sono tanti che volano. Molti criticano e pochi pregano per loro. È una frase molto simpatica ma anche molto vera, perché delinea l’importanza e la delicatezza del nostro servizio sacerdotale e quanto male potrebbe causare un solo sacerdote che “cade” a tutto il corpo della Chiesa.

Dunque, per non cadere in questi giorni in cui ci prepariamo alla Confessione, chiediamo alla Vergine Maria, Madre di Dio e Madre della Chiesa, di sanare le ferite del peccato che ognuno di noi porta nel suo cuore e di sostenere la Chiesa e la Curia affinché siano sane e risanatrici, sante e santificatrici, a gloria del suo Figlio e per la salvezza nostra e del mondo intero. Chiediamo a Lei di farci amare la Chiesa come l’ha amata Cristo, suo Figlio e nostro Signore, e di avere il coraggio di riconoscerci peccatori e bisognosi della sua Misericordia e di non aver paura di abbandonare la nostra mano tra le sue mani materne.

Tanti auguri di un santo Natale a tutti voi, alle vostre famiglie e ai vostri collaboratori. E, per favore, non dimenticate di pregare per me! Grazie di cuore!

 


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[1]Egli afferma che la Chiesa, essendo mysticum Corpus Christi, «richiede anche una moltitudine di membri, i quali siano talmente tra loro connessi da aiutarsi a vicenda. E come nel nostro mortale organismo, quando un membro soffre, gli altri risentono del suo dolore e vengono in suo aiuto, così nella Chiesa i singoli membri non vivono ciascuno per sé, ma porgono anche aiuto agli altri, offrendosi scambievolmente collaborazione, sia per mutuo conforto sia per un sempre maggiore sviluppo di tutto il Corpo … un Corpo costituito non da una qualsiasi congerie di membra, ma deve essere fornito di organi, ossia di membra che non abbiano tutte il medesimo compito, ma siano debitamente coordinate; così la Chiesa, per questo specialmente deve chiamarsi corpo, perché risulta da una retta disposizione e coerente unione di membra fra loro diverse» (Enc. Mystici Corporis, Parte Prima:AAS35 [1943], 200).

[2]Cfr Rm 12,5: «Così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e, ciascuno per la sua parte, siamo membra gli uni degli altri».

[3]Cost. dogm. Lumen gentium, 7.

[4]Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 795. Da ricordare che «il paragone della Chiesa con il corpo illumina l’intimo legame tra la Chiesa e Cristo. Essa non è soltanto radunata attorno a Lui; è unificata in Lui, nel suo Corpo. Tre aspetti della Chiesa-Corpo di Cristo vanno sottolineati in modo particolare: l’unità di tutte le membra tra di loro in forza della loro unione a Cristo; Cristo Capo del corpo; la Chiesa, Sposa di Cristo» (ibid. n. 789).

[6]Gesù più volte ha fatto conoscere l’unione che i fedeli debbono avere con Lui: «Come il tralcio non può portare frutto da sé stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimarrete in me. Io sono la vite, voi i tralci» (Gv 15, 4-5).

[9]Benedetto XVI, Catechesi nell’Udienza generale, 1 giugno 2005.

[10]Omelia nella S. Messa, Istanbul, Cattedrale dello Spirito Santo, 29 novembre 2014.

[11]Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 95-96.

[12]Cfr ibid, 84-86.

[13]Cfr ibid, 2.

[14]«Signore, donami una buona digestione e anche qualcosa da digerire. Donami la salute del corpo e il buon umore necessario per mantenerla. Donami, Signore, un’anima semplice che sappia far tesoro di tutto ciò che è buono e non si spaventi alla vista del male, ma piuttosto trovi sempre il modo di rimetter le cose a posto. Dammi un’anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri, i lamenti, e non permettere che mi crucci eccessivamente per quella cosa troppo ingombrante che si chiama “io”. Dammi, Signore, il senso del buon umore. Concedimi la grazia di comprendere uno scherzo per scoprire nella vita un po’ di gioia e farne parte anche agli altri. Amen».

[15]Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 88.

[16]Il beato Paolo VI, riferendosi alla situazione della Chiesa, affermò di avere la sensazione che «da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio» (Omelia nella Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, 29 giugno 1972); cfr. Esort. ap.Evangelii Gaudium, 98-101.

[17]Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 93-97 («No alla mondanità spirituale»).

[18]«Lo Spirito Santo è l’anima della Chiesa. Egli dà la vita, suscita i differenti carismi che arricchiscono il Popolo di Dio e, soprattutto, crea l’unità tra i credenti: di molti fa un corpo solo, il Corpo di Cristo … Lo Spirito Santo fa l’unità della Chiesa: unità nella fede, unità nella carità, unità nella coesione interiore» (Omelia nella Santa Messa, Istanbul, Cattedrale dello Spirito Santo, 29 novembre 2014).

[19]Serm., CXXXVII, 1: PL, XXXVIII, 754.

[20]Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 25-33 («Pastorale in conversione»).

 

PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI NATALIZI DELLA CURIA ROMANA

DISCORSO DI PAPA FRANCESCO

(Sala Clementina – Sabato, 21 dicembre 2013)

Signori Cardinali,

cari fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,

cari fratelli e sorelle,

ringrazio di cuore per le sue parole il Cardinale Decano. Grazie!

Il Signore ci ha concesso di percorrere ancora una volta il cammino dell’Avvento, e rapidamente siamo giunti agli ultimi giorni che precedono il Natale, giorni carichi di un clima spirituale unico, fatto di sentimenti, di ricordi, di segni liturgici e non, come il presepe… In questo clima si colloca anche il tradizionale incontro con voi, Superiori e Officiali della Curia Romana, che collaborate quotidianamente nel servizio alla Chiesa. Vi saluto tutti cordialmente. E permettetemi di salutare in modo particolare Mons. Pietro Parolin, che da poco ha iniziato il suo servizio di Segretario di Stato, e ha bisogno delle nostre preghiere!

Mentre i nostri cuori sono tutti pervasi di riconoscenza verso Dio, che tanto ci ha amato da donare per noi il Figlio Unigenito, è bello dare spazio anche alla gratitudine tra noi. E io sento il bisogno, in questo mio primo Natale da Vescovo di Roma, di dire un grande “grazie” a voi, sia a tutti come comunità di lavoro, sia a ciascuno personalmente. Vi ringrazio per il vostro servizio di ogni giorno: per la cura, la diligenza, la creatività; per l’impegno, non sempre agevole, di collaborare nell’ufficio, di ascoltarsi, di confrontarsi, di valorizzare le diverse personalità e qualità nel rispetto reciproco.

In modo particolare desidero esprimere la mia gratitudine a coloro che in questo periodo terminano il loro servizio e vanno in pensione. Sappiamo bene che come sacerdoti e vescovi non si va mai in pensione, ma dall’ufficio sì, ed è giusto, anche per dedicarsi un po’ di più alla preghiera e alla cura delle anime, incominciando dalla propria! Dunque un “grazie” speciale, dal cuore, per voi, cari fratelli che lasciate la Curia, specialmente per voi che avete lavorato qui per tanti anni e con tanta dedizione, nel nascondimento. Questo è veramente degno di ammirazione. Io ammiro tanto questi Monsignori che seguono il modello dei vecchi curiali, persone esemplari… Ma anche oggi ne abbiamo! Persone che lavorano con competenza, con precisione, abnegazione, portando avanti con cura il loro dovere quotidiano. Vorrei qui nominare qualcuno di questi nostri fratelli, per esprimere loro la mia ammirazione e la mia riconoscenza, ma sappiamo che in una lista i primi che si notano sono quelli che mancano, e, facendolo, corro il rischio di dimenticare qualcuno e di commettere così un’ingiustizia e una mancanza di carità. Però voglio dire a questi fratelli che costituiscono una testimonianza molto importante nel cammino della Chiesa.

E sono un modello, e da questo modello e da questa testimonianza ricavo le caratteristiche dell’officiale di Curia, e tanto più del Superiore, che vorrei sottolineare: la professionalità e il servizio.

La professionalità, che significa competenza, studio, aggiornamento… Questo è un requisito fondamentale per lavorare nella Curia. Naturalmente la professionalità si forma, e in parte anche si acquisisce; ma penso che, proprio perché si formi, e perché venga acquisita, bisogna che ci sia dall’inizio una buona base.

E la seconda caratteristica è il servizio, servizio al Papa e ai Vescovi, alla Chiesa universale e alle Chiese particolari. Nella Curia Romana si apprende, “si respira” in modo speciale questa duplice dimensione della Chiesa, questa compenetrazione tra universale e particolare; e penso che sia una delle esperienze più belle di chi vive e lavora a Roma: “sentire” la Chiesa in questo modo. Quando non c’è professionalità, lentamente si scivola verso l’area della mediocrità. Le pratiche diventano rapporti di “cliché” e comunicazioni senza lievito di vita, incapaci di generare orizzonti di grandezza. D’altra parte, quando l’atteggiamento non è di servizio alle Chiese particolari e ai loro Vescovi, allora cresce la struttura della Curia come una pesante dogana burocratica, ispettrice e inquisitrice, che non permette l’azione dello Spirito Santo e la crescita del popolo di Dio.

A queste due qualità, professionalità e servizio, vorrei aggiungerne una terza, che è la santità della vita. Sappiamo bene che questa è la più importante nella gerarchia dei valori. In effetti, è alla base anche della qualità del lavoro, del servizio. E vorrei direi qui che nella Curia Romana ci sono stati e ci sono santi. L’ho detto pubblicamente più di una volta, per ringraziare il Signore. Santità significa vita immersa nello Spirito, apertura del cuore a Dio, preghiera costante, umiltà profonda, carità fraterna nei rapporti con i colleghi. Significa anche apostolato, servizio pastorale discreto, fedele, portato avanti con zelo a contatto diretto con il Popolo di Dio. Questo è indispensabile per un sacerdote. Santità nella Curia significa anche obiezione di coscienza. Sì, obiezione di coscienza alle chiacchiere. Noi giustamente insistiamo molto sul valore dell’obiezione di coscienza, ma forse dobbiamo esercitarla anche per difenderci da una legge non scritta dei nostri ambienti che purtroppo è quella delle chiacchiere. Allora facciamo tutti obiezione di coscienza; e badate che non voglio fare solo un discorso morale! Perché le chiacchiere danneggiano la qualità delle persone, danneggiano la qualità del lavoro e dell’ambiente.

Cari Fratelli, sentiamoci tutti uniti in questo ultimo tratto di strada verso Betlemme. Ci può far bene meditare sul ruolo di san Giuseppe, così silenzioso e così necessario accanto alla Madonna. Pensiamo a lui, alla sua premura per la sua Sposa e per il Bambino. Questo ci dice tanto sul nostro servizio alla Chiesa! Allora viviamo questo Natale spiritualmente vicini a san Giuseppe. Ci farà bene a tutti questo!

Vi ringrazio tanto per il vostro lavoro, e soprattutto per le vostre preghiere. Davvero mi sento “portato” dalle preghiere, e vi chiedo di continuare a sostenermi così. Anch’io vi ricordo al Signore e vi benedico, augurando un Natale di luce e di pace a ciascuno di voi e ai vostri cari. Buon Natale!