«Prendete, mangiate: questo è il mio corpo” – Una catechesi mistagogica sull’Eucaristia

 

Alle 9, nell’Aula Paolo VI, il Predicatore della Casa Pontificia, il Card. Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., ha tenuto cinque Prediche di Quaresima. Il tema delle meditazioni è: «Prendete, mangiate: questo è il mio corpo” – Una catechesi mistagogica sull’Eucaristia.

 

Prima predica (venerdì 11 marzo)

L’Eucaristia nella storia della salvezza e la Liturgia della Parola

 

Tra i tanti mali che la pandemia del Covid ha causato all’umanità, c’è stato almeno un effetto positivo dal punto di vista della fede. Essa ci ha fatto prendere coscienza del bisogno che abbiamo dell’Eucaristia e del vuoto che crea la sua mancanza. Durante il periodo più acuto della pandemia nel 2020 sono stato fortemente impressionato – e con me milioni di altri cattolici – da quello che significava ogni mattina assistere in televisione alla Santa Messa celebrata da papa Francesco a Santa Marta.

Alcune chiese locali e nazionali hanno deciso di dedicare il corrente anno a una speciale catechesi sull’Eucaristia, in vista di un desiderato revival eucaristico nella Chiesa cattolica. Mi sembra una decisione opportuna e un esempio da seguire, magari toccando qualche aspetto non sempre preso in considerazione. Ho pensato perciò di portare un piccolo contributo al progetto, dedicando le riflessioni di questa Quaresima a una rivisitazione del mistero eucaristico.

L’Eucaristia è al centro di ogni tempo liturgico, della Quaresima non meno che degli altri tempi. È ciò che celebriamo ogni giorno, la Pasqua quotidiana. Ogni piccolo progresso nella sua comprensione si traduce in un progresso nella vita spirituale della persona e della comunità ecclesiale. Essa però è anche, purtroppo, la cosa più esposta, per la sua ripetitività, a scadere a routine, a cosa scontata. San Giovanni Paolo II, nella lettera enciclica Ecclesia de Eucharistia, dell’Aprile 2003, dice che i cristiani devono riscoprire e mantenere sempre vivo “lo stupore eucaristico”. Ecco, a questo scopo vorrebbero servire le nostre riflessioni: a ritrovare lo stupore eucaristico.

Parlare dell’Eucaristia in tempo di pandemia e ora, in aggiunta, con gli orrori della guerra davanti agli occhi, non è un astrarci dalla realtà in cui viviamo, ma un invito a guardarla da un punto di vista superiore e meno contingente. L’Eucaristia è la presenza nella storia dell’evento che ha rovesciato per sempre i ruoli tra vincitori e vittime. Sulla croce Cristo ha fatto della vittima il vero vincitore: “Victor quia victima”, lo definisce sant’Agostino: vincitore perché vittima. L’Eucaristia ci offre la vera chiave di lettura della storia. Ci assicura che Gesù è con noi, non solo intenzionalmente, ma realmente in questo nostro mondo che sembra sfuggirci dalle mani da un momento all’altro. Ci ripete: “Abbiate coraggio: Io ho vinto il mondo!” (Gv 16, 33).

 

L’Eucaristia nella storia della salvezza

 

Partiamo da una domanda: Che posto occupa l’Eucaristia nella storia della salvezza? La risposta è: non occupa un posto, ma la occupa tutta! L’Eucaristia è co-estensiva alla storia della salvezza. Essa, però, è presente in tre modi diversi, nei tre diversi tempi, o fasi, della salvezza: è presente nell’Antico Testamento come figura; è presente nel Nuovo Testamento come evento ed è presente nel tempo della Chiesa come sacramento. La figura anticipa e prepara l’evento, il sacramento “prolunga” e attualizza l’evento.

Nell’Antico Testamento, dicevo, l’Eucaristia è presente “in figura”. Una di queste figure era la manna, un’altra il sacrificio di Melchisedek, un’altra ancora il sacrificio di Isacco. Nella sequenza Lauda Sion Salvatorem, composta da san Tommaso d’Aquino per la festa del Corpus Domini, si canta: “Adombrato nelle figure: immolato in Isacco, indicato nell’agnello pasquale, dato ai padri come manna”: In figúris præsignátur, / cum Isaac immolátur: /agnus paschæ deputátur: /datur manna pátribus. In quanto figure dell’Eucaristia, san Tommaso chiama questi riti “i sacramenti dell’antica Legge”[1].

Con la venuta di Cristo e il suo mistero di morte e risurrezione, l’Eucaristia non è più presente come figura, ma come evento, come realtà. Lo chiamiamo “evento” perché è qualcosa di storicamente accaduto, un fatto unico nel tempo e nello spazio, avvenuto una volta sola (semel) e irripetibile: Cristo “una volta sola, alla pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso” (Eb 9, 26).

Infine, nel tempo della Chiesa, l’Eucaristia, dicevo, è presente come sacramento, cioè nel segno del pane e del vino, istituito da Cristo. È importante che comprendiamo bene la differenza tra l’evento e il sacramento: in pratica, la differenza tra la storia e la liturgia. Ci facciamo aiutare da sant’Agostino.

Noi – dice il santo dottore – sappiamo e crediamo con fede certissima che Cristo è morto una sola volta per noi, lui giusto per i peccatori, lui Signore per i servi. Sappiamo perfettamente che ciò è avvenuto una sola volta; e, tuttavia, il sacramento periodicamente lo rinnova, come se si ripetesse più volte quello che la storia proclama essere avvenuto una sola volta. Eppure evento e sacramento non sono tra loro in contrasto, quasi che il sacramento sia fallace e solo l’evento sia vero. Infatti, di ciò che la storia afferma essere accaduto, nella realtà, una sola volta, di questo il sacramento rinnova (renovat) spesso la celebrazione nel cuore dei fedeli. La storia svela ciò che è accaduto una volta e come è accaduto, la liturgia fa sì che il passato non sia dimenticato; non nel senso che lo fa accadere di nuovo (non faciendo), ma nel senso che lo celebra (sed celebrando)[2].

Precisare il nesso che esiste tra il sacrificio unico della croce e la Messa è una cosa assai delicata ed è stato sempre uno dei punti di maggior dissenso tra cattolici e protestanti. Agostino usa, come abbiamo visto, due verbi: rinnovare e celebrare, che sono giustissimi, a patto però di essere intesi l’uno alla luce dell’altro: la Messa rinnova l’evento della croce celebrandolo (non reiterandolo!) e lo celebra rinnovandolo (non soltanto ricordandolo!). La parola, nella quale si realizza oggi il maggior consenso ecumenico, è forse il verbo (usato anche da Paolo VI, nell’enciclica Mysterium fidei) rappresentare, inteso nel senso forte di ri-presentare, cioè rendere nuovamente presente[3]. In questo senso, diciamo che l’Eucaristia “rappresenta” la croce.

 

Secondo la storia, c’è stata, dunque, una sola Eucaristia, quella realizzata da Gesù con la sua vita e la sua morte; secondo la liturgia, invece, cioè grazie al sacramento, ci sono tante Eucaristie quante se ne sono celebrate e se ne celebreranno fino alla fine del mondo. L’evento si è realizzato una sola volta (semel), il sacramento si realizza “ogni volta” (quotiescumque). Grazie al sacramento dell’Eucaristia noi diventiamo, misteriosamente, contemporanei dell’evento; l’evento si fa presente a noi e noi all’evento.

Le nostre riflessioni quaresimali avranno per oggetto l’Eucaristia nel suo stadio presente, cioè come sacramento. Nella Chiesa antica esisteva una catechesi speciale, detta mistagogica, che era riservata al vescovo e veniva impartita dopo, non prima, del battesimo. Il suo scopo era di rivelare ai neofiti il significato dei riti celebrati e le profondità dei misteri della fede: battesimo, cresima o unzione, e in particolare l’Eucaristia. Quello che ci proponiamo di fare è proprio una piccola catechesi mistagogica sull’Eucaristia. Per rimanere il più possibile ancorati alla natura sacramentale e rituale di essa, seguiremo da vicino lo svolgimento della Messa nelle sue tre parti – liturgia della Parola, liturgia Eucaristica, e Comunione –, aggiungendo alla fine una riflessione sul culto eucaristico fuori della Messa.

 

Liturgia della Parola

 

Nei primissimi giorni della Chiesa, la liturgia della Parola era distaccata dalla liturgia eucaristica. I discepoli, riferiscono gli Atti degli Apostoli, “ogni giorno, tutti insieme, frequentavano il tempio”; lì ascoltavano la lettura della Bibbia, recitavano i salmi e le preghiere insieme con gli altri ebrei; facevano quello che si fa nella liturgia della Parola; quindi si riunivano a parte, nelle loro case, per “spezzare il pane”, cioè per celebrare l’Eucaristia (cf. At 2, 46).

Ben presto però questa prassi divenne impossibile sia per l’ostilità nei loro confronti da parte delle autorità ebraiche, sia perché ormai le Scritture avevano acquistato per essi un senso nuovo, tutto orientato a Cristo. Fu così che anche l’ascolto della Scrittura si trasferì dal tempio e dalla sinagoga ai luoghi di culto cristiani, prendendo a poco a poco la fisionomia dell’attuale liturgia della Parola che precede la preghiera eucaristica. Nella descrizione della celebrazione eucaristica fatta da san Giustino nel II secolo, non solo la liturgia della Parola è parte integrante di essa, ma alle letture dell’Antico Testamento si sono affiancate ormai quelle che il santo chiama “le memorie degli apostoli”, cioè i Vangeli e le Lettere, in pratica il Nuovo Testamento[4].

Ascoltate nella liturgia, le letture bibliche acquistano un senso nuovo e più forte di quando sono lette in altri contesti. Non hanno tanto lo scopo di conoscere meglio la Bibbia, come quando la si legge a casa o in una scuola biblica, quanto quello di riconoscere colui che si fa presente nello spezzare il pane, di illuminare ogni volta un aspetto particolare del mistero che si sta per ricevere. Questo appare, in modo quasi programmatico, nell’episodio dei due discepoli di Emmaus. Fu ascoltando la spiegazione delle Scritture che il cuore dei discepoli cominciò a sciogliersi, sicché furono poi capaci di riconoscerlo “allo spezzare del pane” (Lc 24, 1ss.). Quella di Gesù risorto fu la prima “liturgia della parola” nella storia della Chiesa!

 

Seconda caratteristica: nella Messa le parole e gli episodi della Bibbia non sono soltanto narrati, ma rivissuti; la memoria diventa realtà e presenza. Ciò che avvenne “in quel tempo”, avviene “in questo tempo”, “oggi” (hodie), come ama esprimersi la liturgia. Noi non siamo soltanto uditori della parola, ma interlocutori e attori in essa. È a noi, lì presenti, che è rivolta la parola; siamo chiamati a prendere noi il posto dei personaggi evocati.

Alcuni esempi aiuteranno a capire. Una volta si legge, nella prima lettura, l’episodio di Dio che parla a Mosè dal roveto ardente: noi siamo, nella Messa, davanti al vero roveto ardente… Un’altra volta si parla di Isaia che riceve sulle labbra il carbone ardente che lo purifica per la missione: noi stiamo per ricevere sulle labbra il vero carbone ardente, il fuoco che Gesù è venuto a portare sulla terra… Ezechiele è invitato a mangiare il rotolo degli oracoli profetici: noi ci apprestiamo a mangiare colui che è la parola stessa fatta carne e fatta pane.

La cosa diventa ancora più chiara se dall’Antico Testamento passiamo al Nuovo, dalla prima lettura al brano evangelico. La donna che soffriva di emorragia è sicura di essere guarita se riuscirà a toccare il lembo del mantello di Gesù: che dire di noi che stiamo per toccare ben più che il lembo del suo mantello? Una volta ascoltavo nel Vangelo l’episodio di Zaccheo e fui colpito dalla sua “attualità”. Ero io Zaccheo; erano rivolte a me le parole: “Oggi devo venire a casa tua”; era di me che si poteva dire: “È andato ad alloggiare da un peccatore!” ed era a me, dopo averlo ricevuto nella comunione, che Gesù diceva: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa” (cf. Lc 19, 9).

Così di ogni singolo episodio evangelico. Come non identificarsi nella Messa con il paralitico al quale Gesù dice: “I tuoi peccati ti sono rimessi” e “Alzati e cammina” (cf. Mc 2, 5.11); con Simeone che stringe tra le braccia il Bambino Gesù (cf. Lc 2, 27-28); con Tommaso che tocca le sue piaghe (Gv 20, 27-28)? Nella seconda domenica del Tempo Ordinario del corrente ciclo liturgico c’è il brano evangelico in cui Gesù dice all’uomo dalla mano paralizzata: “Tendi la mano! Egli la tese e la sua mano fu guarita” (Mc 3, 5). Noi non abbiamo la mano paralizzata; però abbiamo tutti, chi più chi meno, l’anima paralizzata, il cuore inaridito. È a chi ascolta che Gesù dice in quel momento: “Stendi la tua mano!

Stendi il tuo cuore davanti a me, con la fede e la prontezza di quell’uomo.

La Scrittura proclamata durante la liturgia produce degli effetti che sono al di sopra di ogni spiegazione umana, alla maniera dei sacramenti che producono quello che significano. I testi divinamente ispirati hanno anche un potere di guarigione. Dopo la lettura del brano evangelico nella Messa, la liturgia invitava un tempo il ministro a baciare il libro dicendo: “Le parole del Vangelo cancellino i nostri peccati” (Per evangelica dicta deleantur nostra delicta).

Nel corso della storia della Chiesa eventi epocali sono accaduti come risultato dell’ascolto delle letture bibliche durante la Messa. Un giovane udì un giorno il brano evangelico dove Gesù dice a un giovane ricco: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo. Quindi vieni e seguimi” (cf. Mt 19, 21). Capì che quella parola era rivolta a lui personalmente, perciò andò a casa, vendette tutto quello che aveva e si ritirò nel deserto. Il suo nome era Antonio, l’iniziatore del monachesimo. Molti secoli dopo, un altro giovane, da poco convertito, entrò in una chiesa con un suo compagno. Nel Vangelo del giorno Gesù diceva ai suoi discepoli: “Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due tuniche” (Lc 9, 3). Il giovane si voltò verso il suo compagno e disse: “Hai sentito? Questo è ciò che il Signore vuole che facciamo anche noi”. Cominciò così l’Ordine francescano.

La liturgia della Parola è la migliore risorsa che abbiamo per fare ogni volta, della Messa, una celebrazione nuova e attraente, evitando così il grande pericolo di una ripetizione monotona che specialmente i giovani trovano noiosa. Perché questo si realizzi, dobbiamo investire più tempo e preghiera nella preparazione dell’omelia. I fedeli dovrebbero poter capire che la parola di Dio tocca le situazioni reali della vita ed è l’unica ad avere risposte alle domande più serie dell’esistenza.

Ci sono due modi di preparare una omelia. Uno può sedersi a tavolino e scegliere il tema in base alle proprie esperienze e conoscenze; quindi, una volta preparato il testo, mettersi in ginocchio e chiedere a Dio di infondere lo Spirito nelle proprie parole. È una cosa buona, ma non è un modo profetico. Per essere profetici bisognerebbe seguire la via inversa: prima mettersi in ginocchio e chiedere a Dio qual è la parola che vuole far risuonare per il suo popolo.

Dio infatti ha una sua parola per ogni occasione e non manca di rivelarla al suo ministro che gliela chiede umilmente e con insistenza. All’inizio non si tratterà che di un piccolo moto del cuore, una lucina che si accende nella mente, una parola della Scrittura che attira l’attenzione e che getta luce su una situazione vissuta. Non si tratta, all’apparenza, che di un piccolo seme, ma contiene quello che la gente ha bisogno di ascoltare in quel momento.
Dopo ciò uno può sedersi a tavolino, aprire i propri libri, consultare appunti, raccogliere e ordinare i propri pensieri, consultare i Padri della Chiesa, i maestri, a volte i poeti; ma ora non è più la parola di Dio che è al servizio della tua cultura, ma la tua cultura a servizio della parola di Dio. Solo così la Parola manifesta il suo intrinseco potere.

 

L’opera dello Spirito Santo

 

Ma bisogna aggiungere una cosa: tutta l’attenzione data alla parola di Dio da sola non basta. Su di essa deve scendere “la forza dall’alto”. Nell’Eucaristia, l’azione dello Spirito Santo non è limitata soltanto al momento della consacrazione, all’epiclesi che si recita prima di essa. La sua presenza è ugualmente indispensabile per la liturgia della Parola e, vedremo a suo tempo, anche per la comunione.

Lo Spirito Santo continua, nella Chiesa, l’azione del Risorto che, dopo la Pasqua, ”apriva la mente dei discepoli all’intelligenza delle Scritture” (cf. Lc 24, 45). La Scrittura, dice la Dei Verbum del concilio Vaticano II, “deve essere letta e interpretata con l’aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta”[5]. Nella liturgia della Parola l’azione dello Spirito Santo si esercita mediante l’unzione spirituale presente in chi parla e in chi ascolta.
Lo Spirito del Signore è sopra di me;

per questo mi ha consacrato con l’unzione

e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio” (Lc 4, 18).

Gesù ha indicato così da dove trae la sua forza la parola annunciata. Sarebbe un errore fare affidamento solo sull’unzione sacramentale che abbiamo ricevuto una volta per tutte nell’ordinazione sacerdotale o episcopale. Questa ci abilita a compiere certe azioni sacre, come governare, predicare e amministrare i sacramenti. Ci dà, per così dire, l’autorizzazione a fare certe cose, non necessariamente qualcosa di quella autorità che le folle avvertivano quando parlava Gesù; assicura la successione apostolica, non necessariamente il successo apostolico!

Ma se l’unzione è data dalla presenza dello Spirito ed è dono suo, che possiamo fare noi per averla? Dobbiamo anzitutto partire da una certezza: “Noi abbiamo ricevuto l’unzione dal Santo”, ci assicura san Giovanni (1Gv 2, 20). Cioè, grazie al battesimo e alla cresima – e, per alcuni, l’ordinazione presbiterale o episcopale – noi possediamo già l’unzione. Anzi, secondo la dottrina cattolica, essa ha impresso nella nostra anima un carattere indelebile, come un marchio o un sigillo: “È Dio stesso – scrive l’Apostolo – che ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori” (2Cor 1, 21-22).

Questa unzione però è come un unguento profumato racchiuso in un vaso: rimane inerte e non sprigiona alcun profumo se non si rompe e non si apre il vaso. Così avvenne del vasetto di alabastro rotto dalla donna del vangelo, il cui profumo riempì tutta la casa (Mc 14, 3). Ecco dove si inserisce la parte nostra circa l’unzione. Essa non dipende da noi, ma dipende da noi rimuovere gli ostacoli che ne impediscono l’irradiazione. Non è difficile capire cosa significa per noi rompere il vaso di alabastro. Il vaso è la nostra umanità, il nostro io, talvolta il nostro arido intellettualismo. Romperlo, significa mettersi in stato di resa a Dio e di resistenza al mondo.

Non tutto, per nostra fortuna, è affidato allo sforzo ascetico. Molto può, in questo caso, la fede, la preghiera, l’umile implorazione. Chiedere dunque l’unzione prima di accingerci a una predicazione o un’azione importante a servizio del Regno. Mentre ci prepariamo alla lettura del vangelo e all’omelia, la liturgia ci fa chiedere al Signore di purificare il nostro cuore e le nostra labbra per poter annunciare degnamente il vangelo. Perché non dire qualche volta (o almeno pensare dentro di sé): “Ungi il mio cuore e la mia mente, Dio onnipotente, perché possa proclamare con la dolcezza e la potenza dello Spirito la tua parola”?

L’unzione non è necessaria solo ai predicatori per proclamare efficacemente la parola, lo è anche agli ascoltatori per accoglierla. L’evangelista Giovanni scriveva alla sua comunità: “Voi avete ricevuto l’unzione dal Santo, e tutti avete la conoscenza… L’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che qualcuno vi istruisca” (1Gv 2, 20.27). Non che sia inutile ogni ammaestramento esterno, ma esso, da solo, serve a ben poco. “È il maestro interiore – commenta sant’Agostino – colui che veramente istruisce; è Cristo con la sua ispirazione che insegna. Quando manca la sua unzione, le parole esterne fanno soltanto un inutile strepito”[6].

Speriamo che anche oggi Cristo ci abbia istruito con la sua ispirazione interiore e il mio parlare non sia stato “un inutile strepito”.

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Seconda predica (venerdì 18 marzo)

Prendete, mangiate: questo è il mio corpo.

 

Continuiamo le nostre riflessioni sul mistero eucaristico. L’oggetto della catechesi mistagogica di oggi è la parte centrale della Messa, la Preghiera eucaristica, o Anafora, che ha al suo centro la consacrazione. Facciamo su di essa due tipi di considerazione: una liturgica e rituale, l’altra teologica ed esistenziale.

Dal punto di vista rituale e liturgico, abbiamo oggi una risorsa nuova che non avevano i Padri della Chiesa e neppure i dottori medievali. La risorsa nuova di cui disponiamo è il riavvicinamento tra cristiani ed ebrei. Fin dai primissimi giorni della Chiesa, diversi fattori storici portarono ad accentuare la differenza tra cristianesimo e giudaismo, fino a contrapporli tra di loro, come fa già Ignazio di Antiochia[7]. Distinguersi dagli ebrei – nella data della Pasqua, nei giorni di digiuno, e in tante altre cose – diviene una specie di parola d’ordine. Un’accusa spesso rivolta ai propri avversari e agli eretici è quella di “giudaizzare”.

La tragedia del popolo ebraico e il nuovo clima di dialogo con l’ebraismo, iniziato dal Concilio Vaticano II, hanno reso possibile una migliore conoscenza della matrice ebraica dell’Eucaristia. Come non si capisce la Pasqua cristiana se non la si considera come il compimento di quello che la Pasqua ebraica preannunciava, così non si capisce a fondo l’Eucaristia se non la si vede come il compimento di quello che gli ebrei facevano e dicevano nel corso del loro pasto rituale. Un primo risultato importante di questa svolta è stato che oggi nessuno studioso serio avanza più l’ipotesi che l’Eucaristia cristiana si spieghi alla luce della cena in voga presso alcuni culti misterici dell’ellenismo, come si è tentato di fare per oltre un secolo.

I Padri della Chiesa ritennero le Scritture del popolo ebraico, ma non la loro liturgia, alla quale non avevano più modo di accedere, dopo la separazione della Chiesa dalla Sinagoga. Essi perciò utilizzarono le figure contenute nelle Scritture – l’agnello pasquale, il sacrificio di Isacco, quello di Melchisedek, la manna –, ma non il concreto contesto liturgico in cui il popolo ebraico celebrava tutte queste memorie, e cioè il pasto rituale celebrato, una volta l’anno nella cena pasquale (il Seder) e settimanalmente nel culto sinagogale. Il primo nome con cui l’Eucaristia è designata nel Nuovo Testamento da Paolo è quello di “pasto del Signore” (kuriakon deipnon) (1Cor 11, 20), con evidente riferimento al pasto ebraico da cui si differenzia ormai per la fede in Gesù. L’Eucaristia è il sacramento della continuità tra Antico e Nuovo Testamento, tra ebraismo e cristianesimo.

 

L’Eucaristia e la Berakah ebraica

 

È questa la prospettiva in cui si colloca Benedetto XVI nel capitolo dedicato all’istituzione dell’Eucaristia nel suo secondo volume su Gesù di Nazaret. Seguendo l’opinione ormai prevalente degli studiosi, egli accetta la cronologia giovannea secondo cui l’ultima cena, di cui parla il Quarto Vangelo, non fu una cena pasquale, ma fu un solenne pasto di addio (appunto, l’”ultima cena”!) e ritiene che si possa “tracciare lo sviluppo dell’eucharistia cristiana, cioè del canone, dalla beraka ebraica”[8].

Per varie ragioni culturali e storiche, dalla Scolastica in poi, si è cercato di spiegare l’Eucaristia alla luce della filosofia, in particolare delle nozioni aristoteliche di sostanza e di accidenti. Era anche questo un mettere a servizio della fede le conoscenze nuove del momento e, dunque, un imitare il metodo dei Padri. Ai nostri giorni, dobbiamo fare lo stesso con le nuove conoscenze di ordine, questa volta, storiche e liturgiche più che filosofiche. Esse hanno il vantaggio di essere le categorie con cui pensava e parlava Gesù, che non erano certo i concetti aristotelici di materia e forma, sostanza e accidenti, ma quelle di segno e realtà e di memoriale.

Sulla scorta di alcuni studi recenti, soprattutto quello di Louis Bouyer, vorrei cercare di mostrare la vivida luce che cade sull’Eucaristia cristiana quando collochiamo i racconti evangelici dell’istituzione sullo sfondo di ciò che sappiamo del pasto rituale ebraico. La novità del gesto di Gesù non risulterà diminuita, ma esaltata al massimo.
L’anello di congiunzione tra l’antico e il nuovo rito è dato dalla Didachè, uno scritto dell’era apostolica che possiamo considerare il primo abbozzo di anafora eucaristica. Il rito sinagogale era composto da una serie di preghiere chiamate “berakah” che in greco viene tradotto con “Eucarestia”. All’inizio del pasto, ciascuno a turno prendeva in mano una coppa di vino e, prima di portarla alle labbra, ripeteva una benedizione che la liturgia attuale ci fa ripetere quasi alla lettera al momento dell’offertorio: “Sii benedetto, Signore, nostro Dio, Re dei secoli, che ci hai dato questo frutto della vite”.
Ma il pasto cominciava ufficialmente solo quando il padre di famiglia, o il capo della comunità, aveva spezzato il pane che doveva essere distribuito tra i commensali. E, infatti, Gesù prende il pane, recita la benedizione, lo spezza e lo distribuisce dicendo: “Questo è il mio corpo che è dato per voi.” E qui il rito – che era solo una preparazione- diventa la realtà.

Dopo la benedizione del pane si servivano i piatti consueti. Quando il pranzo sta per finire, i commensali sono pronti per il grande atto rituale che conclude la celebrazione e le dà il significato più profondo. Tutti si lavano le mani, come all’inizio. Finito questo, avendo davanti a sé una coppa di vino mescolato con acqua, colui che presiede invita a fare le tre preghiere di ringraziamento: la prima per Dio creatore, la seconda per la liberazione dall’Egitto, la terza perché continua al presente la sua opera. Conclusa la preghiera, la coppa passava di mano in mano e ciascuno beveva. Questo, il rito antico compiuto tante volte da Gesù in vita.

Luca dice che dopo aver cenato Gesù prese il calice dicendo: “Questo calice è la nuova Alleanza nel mio Sangue che è sparso per voi“. Qualcosa di decisivo avviene nel momento in cui Gesù aggiunge queste parole alla formula delle preghiere di ringraziamento, cioè alla berakah ebraica. Quel rito era un banchetto sacro nel quale si celebrava e si ringraziava un Dio salvatore, che aveva redento il suo popolo per stringere con esso un’alleanza d’amore, conclusa nel sangue di un agnello. Ora, al momento cioè in cui Gesù decide di dare la vita per i suoi come il vero Agnello, egli dichiara conclusa quella vecchia Alleanza che tutti insieme stavano celebrando liturgicamente. In quel momento, con poche e semplici parole, egli stringe con i suoi la nuova ed eterna Alleanza nel suo Sangue.

Aggiungendo le parole “fate questo in memoria di me”, Gesù conferisce una portata duratura al suo dono. Dal passato, lo sguardo si proietta verso il futuro. Tutto quanto egli ha fatto finora nella cena è messo nelle nostre mani. Ripetendo quello che lui ha fatto, si rinnova quell’atto centrale della storia umana che è la sua morte per il mondo. La figura dell’agnello pasquale che sulla croce diventa evento, nella cena ci è dato come sacramento, cioè come memoriale perenne dell’evento.

 

Sacerdote e vittima

 

Questo, dicevo, per quanto riguarda l’aspetto liturgico e rituale. Passiamo ora all’altra considerazione, quella di tipo personale ed esistenziale, in altre parole al ruolo che ricopriamo noi, sacerdoti e fedeli, in tale momento della Messa. Per comprendere il compito del sacerdote nella consacrazione è di importanza vitale conoscere la natura del sacrifico e del sacerdozio di Cristo perché è da essi che deriva il sacerdozio cristiano, sia quello battesimale comune a tutti, sia quello dei ministri ordinati.
Noi non siamo più, in realtà, «sacerdoti secondo l’ordine di Melchisedek»; siamo sacerdoti «secondo l’ordine di Gesù Cristo»; all’altare agiamo «in persona Christi», rappresentiamo cioè il Sommo Sacerdote che è Cristo. Su questo tema, il Simposio sul sacerdozio, tenuto in questa Aula nel mese scorso, ha detto infinitamente di più di quello che posso dire io in questa mia breve riflessione (preparata, tra l’altro, prima di quella data), ma pure è necessario dire qualcosa qui per la comprensione dell’Eucaristia.
La Lettera agli Ebrei spiega in che consiste la novità e l’unicità del sacerdozio di Cristo: «Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna» (Eb 9, 12). Ogni sacerdote offre qualcosa di esterno a se stesso, Cristo offrì se stesso; ogni altro sacerdote offre vittime, Cristo si offrì vittima!

Sant’Agostino ha racchiuso in poche parole la natura di questo nuovo genere di sacerdozio in cui sacerdote e vittima sono la stessa persona: «Ideo sacerdos quia sacrificium», sacerdote perché vittima[9]. Lo studioso francese René Girard ha definito questa novità del sacrificio di Cristo come “il fatto centrale nella storia religiosa dell’umanità”, che ha posto fine per sempre all’intrinseca alleanza tra il sacro e la violenza[10].
In Cristo, è Dio che si fa vittima. Non sono più gli esseri umani che offrono sacrifici a Dio per placarlo e renderselo favorevole; è Dio che sacrifica se stesso per l’umanità, consegnando alla morte per noi il suo Figlio unigenito (cf. Gv 3, 16). Gesù non è venuto con il sangue altrui, ma con il proprio sangue; non ha messo i suoi peccati sulle spalle di altri – animali o creature umane –, ma ha messo i peccati degli altri sulle sue spalle: «Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce» (1Pt 2, 24). Tutto questo significa che nella Messa noi dobbiamo essere nello stesso tempo sacerdoti e vittime.

Alla luce di ciò, riflettiamo sulle parole della consacrazione: «Prendete, mangiate: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi». Voglio dire, a questo proposito, la mia piccola esperienza, come, cioè, sono giunto a scoprire la portata ecclesiale e personale della consacrazione eucaristica. Ecco come io vivevo il momento della consacrazione nella santa Messa i primi anni del mio sacerdozio: chiudevo gli occhi, chinavo il capo, cercavo di estraniarmi da tutto ciò che mi circondava per immedesimarmi in Gesù che, nel Cenacolo, pronunciò per la prima volta quelle parole: «Accipite et manducate: Prendete, mangiate…». La liturgia stessa inculcava questo atteggiamento, facendo pronunciare le parole della consacrazione a voce bassa e in latino, chinati sulle specie.

Poi ci fu la riforma liturgica del Vaticano II. Si cominciò a celebrare la Messa guardando l’assemblea; non più in latino, ma nella lingua del popolo. Questo mi aiutò a capire che quel mio atteggiamento, da solo, non esprimeva tutto il significato della mia partecipazione alla consacrazione. Quel Gesù del Cenacolo non esiste più! Esiste ormai il Cristo risorto: il Cristo, per essere esatti, che era morto, ma ora vive per sempre (cf. Ap 1, 18). Ma questo Gesù è il «Cristo totale», Capo e corpo inscindibilmente uniti. Dunque, se è questo Cristo totale che pronuncia le parole della consacrazione, anch’io le pronuncio con lui. Le pronuncio, sì, «in persona Christi», in nome di Cristo, ma anche «in prima persona», cioè a nome mio.

Dal giorno in cui capii questo, cominciai a non chiudere più gli occhi al momento della consacrazione, ma a guardare – almeno qualche volta – i fratelli che ho davanti, o, se celebro da solo, penso a coloro che devo incontrare nella giornata e ai quali devo dedicare il mio tempo, o penso addirittura a tutta la Chiesa e, rivolto a essi, dico con Gesù: «Prendete, mangiatene tutti: questo è il mio corpo che voglio dare per voi… Prendete, bevete: questo è il mio sangue che voglio versare per voi».
In seguito è venuto sant’Agostino a togliermi ogni dubbio. «In ciò che offre, la Chiesa offre se stessa»: «In ea re quam offert, ipsa [Ecclesia] offertur»[11], scrive in un famoso passo del De civitate Dei. Più vicino a noi, la mistica messicana Concepción Cabrera de Armida, familiarmente chiamata Conchita, morta nel 1937 e beatificata da papa Francesco nel 2019, al suo figlio gesuita, in procinto di essere ordinato sacerdote, scriveva queste parole: “Ricordati, figlio mio, quando terrai in mano l’Ostia Santa, tu non dirai: ‘Ecco il corpo di Gesù, ecco il suo sangue’, ma dirai: ‘Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue’: cioè deve operarsi in te una trasformazione totale, devi perderti in lui, essere un altro Gesù”[12].

Tutto questo non si applica soltanto ai sacerdoti ordinati, ma a tutti i battezzati. Un testo famoso del Concilio così si esprime:

I fedeli, in virtù del regale loro sacerdozio, concorrono all’oblazione dell’Eucaristia…

Partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e culmine di tutta la vita cristiana, offrono a Dio la Vittima divina e se stessi con Essa; così tutti, sia con la oblazione che con la santa comunione, compiono la propria parte nell’azione liturgica, non però ugualmente, ma chi in un modo e chi in un altro[13].

Ci sono due corpi di Cristo sull’altare: c’è il suo corpo reale (il corpo «nato da Maria Vergine», morto, risorto e asceso al cielo) e c’è il suo corpo mistico che è la Chiesa. Ebbene, sull’altare è presente realmente il suo corpo reale ed è presente misticamente il suo corpo mistico, dove «misticamente» significa: in forza della sua inscindibile unione con il Capo. Nessuna confusione tra le due presenze che sono distinte, ma inseparabili.
Poiché ci sono due «offerte» e due «doni» sull’altare – quello che deve diventare il corpo e il sangue di Cristo (il pane e il vino) e quello che deve diventare il corpo mistico di Cristo –, ecco che ci sono anche due «epiclesi» nella Messa, cioè due invocazioni dello Spirito Santo. Nella prima si dice: «Ora ti preghiamo umilmente: manda il tuo Spirito a santificare i doni che ti offriamo, perché diventino il corpo e il sangue di Gesù Cristo»; nella seconda, che si recita dopo la consacrazione, si dice: «Dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito. Lo Spirito Santo faccia di noi un sacrificio perenne a te gradito».

Ecco come l’Eucaristia fa la Chiesa: l’Eucaristia fa la Chiesa, facendo della Chiesa un’Eucaristia! L’Eucaristia non è solo, genericamente, la sorgente o la causa della santità della Chiesa; ne è anche la «forma», cioè il modello. La santità del cristiano deve realizzarsi secondo la «forma» dell’Eucaristia; deve essere una santità eucaristica. Il cristiano non può limitarsi a celebrare l’Eucaristia, deve essere Eucaristia con Gesù.

 

Il corpo e il sangue

 

Ora possiamo tirare le conseguenze pratiche di questa dottrina per la nostra vita quotidiana. Se nella consacrazione siamo anche noi che, rivolti ai fratelli, diciamo: «Prendete, mangiate: questo è il mio corpo. Prendete, bevete: questo è il mio sangue», dobbiamo sapere cosa significano «corpo» e «sangue», per sapere ciò che offriamo.
La parola «corpo» non indica, nella Bibbia, una componente, o una parte, dell’uomo che, unita alle altre componenti che sono l’anima e lo spirito, forma l’uomo completo. Nel linguaggio biblico, e quindi in quello di Gesù e di Paolo, «corpo» indica tutto l’uomo, in quanto vive la sua vita in un corpo, in una condizione corporea e mortale. «Corpo» indica, dunque, tutta la vita. Gesù, istituendo l’Eucaristia, ci ha lasciato in dono tutta la sua vita, dal primo istante dell’incarnazione all’ultimo momento, con tutto ciò che concretamente aveva riempito tale vita: silenzio, sudori, fatiche, preghiera, lotte, umiliazioni. Non la “vita” in astratto, ma il “vissuto”.

Poi Gesù dice: «Questo è il mio sangue». Cosa aggiunge con la parola «sangue», se ci ha già donato tutta la sua vita nel suo corpo? Aggiunge la morte! Dopo averci donato la vita, ci dona anche la parte più preziosa di essa, la sua morte. Il termine «sangue» nella Bibbia non indica, infatti, una parte del corpo, cioè una parte di una parte dell’uomo; indica un evento: la morte. Se il sangue è la sede della vita (così si pensava allora), il suo «versamento» è il segno plastico della morte. L’Eucaristia è il mistero del corpo e del sangue del Signore, cioè della vita e della morte del Signore!

Ora, venendo a noi, cosa offriamo noi, offrendo il nostro corpo e il nostro sangue, insieme con Gesù, nella Messa? Offriamo anche noi quello che offrì Gesù: la vita e la morte. Con la parola «corpo», doniamo tutto ciò che costituisce concretamente la vita che conduciamo in questo mondo, il nostro vissuto: tempo, salute, energie, capacità, affetto, magari soltanto un sorriso. Con la parola «sangue», esprimiamo anche noi l’offerta della nostra morte. Non necessariamente la morte definitiva, il martirio per Cristo o per i fratelli. È morte tutto ciò che in noi, fin d’ora, prepara e anticipa la morte: umiliazioni, insuccessi, malattie che immobilizzano, limitazioni dovute all’età, alla salute: tutto ciò, in una parola, che ci «mortifica».

Tutto ciò esige, però, che noi, appena usciti dalla Messa, ci diamo da fare per realizzare ciò che abbiamo detto; che realmente ci sforziamo, con tutti i nostri limiti, di offrire ai fratelli il nostro «corpo», cioè il tempo, le energie, l’attenzione; in una parola, la nostra vita. Bisogna, dunque, che, dopo aver detto ai fratelli: «Prendete, mangiate», noi ci lasciamo realmente «mangiare» e ci lasciamo mangiare soprattutto da chi non lo fa con tutta la delicatezza e il garbo che ci aspetteremmo. Sant’Ignazio di Antiochia, andando a Roma per morirvi martire, scriveva: «Io sono frumento di Cristo: che io sia macinato dai denti delle fiere, per diventare pane puro per il Signore»[14]. Ognuno di noi, se si guarda bene intorno, ha di questi denti acuminati di fiere che lo macinano: sono critiche, contrasti, opposizioni nascoste o palesi, divergenze di vedute con chi ci sta intorno, diversità di carattere.

Proviamo a immaginare cosa avverrebbe se celebrassimo con questa partecipazione personale la Messa, se dicessimo veramente tutti, al momento della consacrazione, chi ad alta voce e chi silenziosamente, secondo il ministero di ognuno: «Prendete, mangiate». Un sacerdote, un parroco e, a maggior ragione, un vescovo, celebra così la sua Messa, poi va: prega, predica, confessa, riceve gente, visita malati, ascolta… Anche la sua giornata è Eucaristia. Un grande maestro di spirito francese, Pierre Olivaint (1816-1871), diceva: «Al mattino, nella Messa, io sono sacerdote e Gesù è vittima; lungo la giornata, Gesù è sacerdote e io vittima». Così un sacerdote imita il «buon Pastore», perché realmente dà la vita per le sue pecorelle.

 

La nostra firma sul dono

 

Vorrei riassumere, con l’aiuto di un esempio umano, cosa avviene nella celebrazione eucaristica. Pensiamo a una numerosa famiglia in cui c’è un figlio, il primogenito, che ammira e ama oltre misura il proprio padre. Per il suo compleanno vuole fargli un regalo prezioso. Prima però di presentarglielo chiede, in segreto, a tutti i suoi fratelli e sorelle di apporre la loro firma sul dono. Questo arriva dunque nelle mani del padre come segno dell’amore di tutti i suoi figli, indistintamente, anche se, in realtà, uno solo ha pagato il prezzo di esso.

È ciò che avviene nel sacrificio eucaristico. Gesù ammira ed ama sconfinatamente il Padre celeste. A lui vuol fare ogni giorno, fino alla fine del mondo, il dono più prezioso che si possa pensare, quello della sua stessa vita. Nella Messa, egli invita tutti i suoi fratelli e sorelle ad apporre la loro firma sul dono, di modo che esso giunge a Dio Padre come il dono indistinto di tutti i suoi figli, anche se uno solo ha pagato il prezzo di tale dono. E che prezzo!

La nostra firma sono le poche gocce d’acqua che vengono mescolate al vino nel calice. Esse non sono che acqua, ma mescolate nel calice diventano un’unica bevanda. La firma di tutti è l’Amen solenne che l’assemblea pronuncia, o canta, al termine della dossologia: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te Dio Padre onnipotente nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli…AMEN!
Sappiamo però che chi ha firmato un impegno ha poi il dovere di onorare la propria firma. Questo vuol dire che, uscendo dalla Messa, dobbiamo fare anche noi della nostra vita un dono d’amore al Padre e per i fratelli. Noi – ripeto – non siamo chiamati solo a celebrare l’Eucaristia, ma anche ad farci eucaristia. Che Dio ci aiuti a realizzarlo questo!

Terza predica (25 marzo)

La comunione al Corpo e al sangue di Cristo

Nella nostra catechesi mistagogica sull’Eucaristia – dopo la Liturgia della Parola e la Consacrazione – siamo giunti al terzo momento, quello della comunione.

Questo è il momento della Messa che più chiaramente esprime l’unità e l’uguaglianza fondamentale di tutti i membri del popolo di Dio, al di sotto di ogni distinzione di rango e di ministero. Fino a quel momento, è visibile la distinzione dei ministeri: nella liturgia della Parola, la distinzione tra Chiesa docente e Chiesa discente; nella consacrazione, la distinzione tra sacerdozio ministeriale e sacerdozio universale. Nella comunione nessuna distinzione. La comunione che riceve il semplice battezzato è identica a quella che riceve il sacerdote o il vescovo. La comunione eucaristica è la proclamazione sacramentale che, nella Chiesa, la koinonia viene prima ed è più importante della gerarchia.
Riflettiamo sulla comunione eucaristica partendo da un testo di san Paolo:

“Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1Cor 10, 16-17).

La parola “corpo” ricorre due volte nei due versetti, ma con un significato diverso. Nel primo caso (“il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?”), corpo indica il corpo reale di Cristo, nato da Maria, morto e risorto; nel secondo caso (“siamo un corpo solo”), corpo indica il corpo mistico, la Chiesa.

Non si poteva dire in maniera più chiara e più sintetica che la comunione eucaristica è sempre comunione con Dio e comunione con i fratelli; che c’è in essa una dimensione, per così dire, verticale e una dimensione orizzontale. Partiamo dalla prima.

 

L’Eucaristia comunione con Cristo

 

Cerchiamo di approfondire quale genere di comunione si stabilisce tra noi e Cristo nell’Eucaristia. In Giovanni 6, 57, Gesù dice: “Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me”. La preposizione “per” (in greco, dià) ha qui valore causale e finale; indica insieme un movimento di provenienza e un movimento di destinazione. Significa che chi mangia il corpo di Cristo vive “da” lui, cioè a causa di lui, in forza della vita che proviene da lui, e vive “in vista di” lui, cioè per la sua gloria, il suo amore, il suo Regno. Come Gesù vive del Padre e per il Padre, così, comunicandoci al santo mistero del suo corpo e del suo sangue, noi viviamo di Gesù e per Gesù.

È infatti il principio vitale più forte che assimila a sé quello meno forte, non viceversa. È il vegetale che assimila il minerale, non viceversa; è l’animale che assimila e il vegetale e il minerale, non viceversa. Così ora, sul piano spirituale, è il divino che assimila a sé l’umano, non viceversa. Sicché mentre in tutti gli altri casi è colui che mangia che assimila ciò che mangia, qui è colui che è mangiato che assimila a sé chi lo mangia. A colui che si accosta a riceverlo, Gesù ripete ciò che un giorno sentì dirsi sant’Agostino: “Non sarai tu che assimilerai me a te, ma sarò io che assimilerò te a me”[15].

Un filosofo ateo ha detto: “L’uomo è ciò che mangia” (F. Feuerbach), intendendo dire che nell’uomo non esiste una differenza qualitativa tra materia e spirito, ma che tutto si riduce alla componente organica e materiale. Un ateo, senza saperlo, ha dato la migliore formulazione di un mistero cristiano. Grazie all’Eucaristia, il cristiano è veramente ciò che mangia! Scriveva già, tanto tempo prima di lui, san Leone Magno: “La nostra partecipazione al corpo e al sangue di Cristo non tende ad altro che a farci diventare quello che mangiamo”[16].

Nell’Eucaristia non c’è dunque solo comunione tra Cristo e noi, ma anche assimilazione; la comunione non è solo unione di due corpi, di due menti, di due volontà, ma è assimilazione all’unico corpo, l’unica mente e volontà di Cristo. “Chi si unisce al Signore forma con lui un solo Spirito” (1Cor 6, 17).

Quella dell’alimentazione – del mangiare e del bere – non è la sola analogia che abbiamo della comunione eucaristica, anche se insostituibile. C’è qualcosa che essa non può esprimere, come non lo può l’analogia della comunione tra la vite e il tralcio. Queste sono comunioni tra cose, non tra persone. Comunicano, ma non sanno di comunicare. Vorrei insistere su un’altra analogia che ci può aiutare a capire la natura della comunione eucaristica in quanto comunione tra persone che sanno e vogliono essere in comunione.

La Lettera agli Efesini dice che il matrimonio umano è un simbolo dell’unione tra Cristo e la Chiesa: “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!” (Ef 5, 31-33). L’Eucaristia – per usare un’immagine audace ma vera – è la consumazione del matrimonio tra Cristo e la Chiesa e una vita cristiana senza l’Eucaristia è un matrimonio rato, ma non consumato. Al momento della comunione, il celebrante esclama: “Beati gli invitati alla cena dell’Agnello!” (Beati qui ad coenam Agni vocati sunt) e l’Apocalisse – da cui la frase è tratta – dice ancora più esplicitamente: “Beati gli invitati alla cena di nozze dell’Agnello” (Ap 19, 9).

Ora – sempre secondo san Paolo – la conseguenza immediata del matrimonio è che il corpo (cioè tutta la persona) del marito diventa della moglie e, viceversa, il corpo della moglie diventa del marito (cf. 1Cor 7, 4). Questo significa che la carne incorruttibile e datrice di vita del Verbo incarnato diventa “mia”, ma anche la mia carne, la mia umanità, diventa di Cristo, è fatta propria da lui. Nell’Eucaristia noi riceviamo il corpo e il sangue di Cristo, ma anche Cristo “riceve” il nostro corpo e il nostro sangue! Gesù, scrive sant’Ilario di Poitiers, “assume la carne di colui che assume la sua”[17]. Cristo dice a noi: “Prendi, questo è il mio corpo”, ma anche noi possiamo dire a lui: “Prendi, questo è il mio corpo”.
Cerchiamo ora di capire le conseguenze di tutto ciò. Nella sua vita terrena Gesù non ha fatto tutte le esperienze umane possibili e immaginabili. Tanto per cominciare, è stato un uomo, non una donna: non ha vissuto la condizione di metà dell’umanità; non era sposato, non ha sperimentato cosa significa essere unito per la vita a un’altra creatura, avere figli, o, peggio, perdere dei figli; è morto giovane, non ha conosciuto la vecchiaia…
Ma ora, grazie all’Eucaristia, lui fa tutte queste esperienze. Vive nella donna la condizione femminile, nel malato la malattia, nell’anziano l’anzianità, nel rifugiato la sua precarietà, nel bombardato il suo terrore… Non c’è nulla della mia vita che non appartenga a Cristo. Nessuno dovrebbe dire: “Ah, Gesù non sa cosa vuol dire essere sposato, essere donna, aver perso un figlio, essere malato, essere anziano, essere una persona di colore!”
Ciò che Cristo non ha potuto vivere “secondo la carne”, lo vive e “sperimenta” ora da risorto “secondo lo Spirito”, grazie alla comunione sponsale della Messa. Aveva compreso il motivo profondo di ciò santa Elisabetta della Trinità quando scriveva alla propria madre: “La sposa appartiene allo sposo. Il mio (Sposo) mi ha presa. Vuole che sia per lui un’umanità aggiunta”[18].

Quale inesauribile motivo di stupore e di consolazione al pensiero che la nostra umanità diventa l’umanità di Cristo! Ma anche quale responsabilità da tutto ciò! Se i miei occhi sono diventati gli occhi di Cristo, la mia bocca quella di Cristo, quale motivo per non permettere al mio sguardo di indugiare su immagini lascive, alla mia lingua di non parlare contro il fratello, al mio corpo di non servire come strumento di peccato. “Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di una prostituta?”, scriveva con orrore san Paolo ai Corinzi (1Cor 6, 15).

E tuttavia, non è ancora tutto; manca la parte più bella. Il corpo della sposa appartiene allo sposo; ma anche il corpo dello sposo appartiene alla sposa. Dal dare si deve passare subito, nella comunione, al ricevere. Ricevere nientemeno che la santità di Cristo! Dove mai si attuerà, concretamente, nella vita del credente, quel “meraviglioso scambio” (admirabile commercium) di cui parla la liturgia, se non si attua al momento della comunione?
Lì abbiamo la possibilità di dare a Gesù i nostri stracci sporchi e ricevere da lui il “manto della giustizia” (Is 61, 10). È scritto infatti che egli “per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione” (cf. 1Cor 1, 30). Ciò che egli è diventato “per noi” ci è destinato, ci appartiene. “Poiché – scrive il Cabasilas – noi apparteniamo a Cristo più che a noi stessi, avendoci egli ricomprati a caro prezzo (1Cor 6, 20), inversamente quello che è di Cristo ci appartiene più che se fosse nostro”[19]. Bisogna soltanto ricordare una cosa: noi apparteniamo a Cristo per diritto, egli appartiene a noi per grazia!

È una scoperta capace di mettere le ali alla nostra vita spirituale. Questo è il colpo d’audacia della fede e dovremmo pregare Dio di non permettere che moriamo prima di averlo realizzato.

 

L’Eucaristia, comunione con la Trinità

 

Riflettere sull’Eucaristia è come vedersi spalancare davanti, a mano a mano che si avanza, orizzonti sempre più vasti che si aprono uno sull’altro, a perdita di vista.

L’orizzonte cristologico della comunione che abbiamo contemplato fin qui si apre infatti su un orizzonte trinitario. In altre parole, attraverso la comunione con Cristo noi entriamo in comunione con tutta la Trinità. Nella sua “preghiera sacerdotale”, Gesù dice al Padre: “Che siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me” (Gv 17, 23). Quelle parole: “Io in loro e tu in me”, significano che Gesù è in noi e che in Gesù c’è il Padre. Non si può, perciò, ricevere il Figlio, senza ricevere, con lui, anche il Padre. La parola di Cristo: “Chi vede me vede il Padre” (Gv 14, 9) significa anche “chi riceve me riceve il Padre”.

Il motivo ultimo di ciò è che Padre, Figlio e Spirito Santo sono un’unica e inseparabile natura divina, sono “una cosa sola”. Scrive, a questo proposito, sant’Ilario di Poitiers: “Noi siamo uniti a Cristo che è inseparabile dal Padre. Egli, pur rimanendo nel Padre, resta unito a noi; così anche noi arriviamo all’unità con il Padre. Infatti, Cristo è nel Padre connaturalmente, in quanto da lui generato; ma, in certo modo, anche noi attraverso Cristo, siamo connaturalmente nel Padre. Egli vive in virtù del Padre e noi viviamo in virtù della sua umanità”[20].

Ciò che si dice del Padre vale anche dello Spirito Santo. Nell’Eucaristia si ha una replica sacramentale di ciò che è avvenuto storicamente nella vita terrena di Cristo. Al momento della sua nascita terrena, è lo Spirito Santo che dona al mondo il Cristo (Maria, infatti, concepì per opera dello Spirito Santo!); al momento della morte, è Cristo che dona al mondo lo Spirito Santo: morendo, egli “emise lo Spirito”. Similmente, nell’Eucaristia, al momento della consacrazione è lo Spirito Santo che ci dona Gesù, poiché è per la sua azione che il pane si trasforma nel corpo di Cristo; al momento della comunione è Cristo che, venendo in noi, ci dona lo Spirito Santo.

Sant’Ireneo (che finalmente possiamo salutare come Dottore della Chiesa!) dice che lo Spirito Santo è “la nostra stessa comunione con Cristo”[21]. Nella comunione Gesù viene a noi come colui che dona lo Spirito. Non come colui che un giorno, tanto tempo fa, diede lo Spirito, ma come colui che ora, consumato il suo sacrificio sull’altare, di nuovo, “emette lo Spirito” (cf. Gv 19, 30).

Tutto questo che ho detto sulla Trinità e l’Eucaristia è riassunto visivamente nell’icona ortodossa di Rublev dei tre Angeli intorno all’altare. Tutta la Trinità ci dona l’Eucaristia e si dona a noi nell’Eucaristia. L’Eucaristia non è solo la nostra Pasqua quotidiana; è anche la nostra Pentecoste quotidiana!

 

La comunione degli uni con gli altri

 

Da queste altezze vertiginose, torniamo adesso sulla terra e passiamo alla seconda dimensione della comunione eucaristica: la comunione con il corpo di Cristo che è la Chiesa. Richiamiamo alla mente la parola dell’Apostolo: “Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane”.

Sviluppando un pensiero già abbozzato nella Didachè, sant’Agostino vede una analogia nel modo in cui si formano i due corpi di Cristo: quello eucaristico e quello ecclesiale. Nel caso dell’Eucaristia, abbiamo il grano dapprima disperso sui colli, che trebbiato, macinato, impastato in acqua e cotto al fuoco diventa il pane che arriva sull’altare; nel caso della Chiesa, abbiamo la moltitudine delle persone che riunite dalla predicazione evangelica, macinate dai digiuni e dalla penitenza, impastate in acqua nel battesimo e cotte al fuoco dello Spirito, formano il corpo che è la Chiesa[22].

Immediatamente ci viene incontro, a questo proposito, la parola di Cristo: “Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono” (Mt 5, 23-24). Se tu vai a ricevere la comunione, ma hai offeso un fratello e non ti sei riconciliato, nutri rancore, tu somigli – diceva ancora sant’Agostino al popolo – a una persona che vede arrivare un amico che non vede da anni. Corre a incontrarlo, si alza sulla punta dei piedi per baciarlo sulla fronte… Ma nel fare questo non si accorge che gli sta calpestando i piedi con scarpe chiodate[23]. I fratelli e le sorelle sono piedi di Gesù che ancora cammina sulla terra.

 

Comunione con i poveri

 

Questo vale in modo speciale nei riguardi dei poveri, degli afflitti, degli emarginati. Colui che ha detto del pane: “Questo è il mio corpo”, lo ha detto anche del povero. Lo ha detto quando, parlando di ciò che si è fatto per l’affamato, l’assetato, il prigioniero e il nudo, ha dichiarato solennemente: “Lo avete fatto a me!”. Questo è come dire: “Io ero l’affamato, io ero l’assetato, io ero lo straniero, il malato, il prigioniero” (cf. Mt 25,35ss.). Ho ricordato altre volte il momento in cui questa verità quasi esplose dentro di me. Ero in missione in un paese molto povero. Attraversando le vie della capitale vedevo dappertutto bambini coperti da pochi stracci sporchi, che correvano dietro i camion delle immondizie per cercare qualcosa da mangiare. A un certo momento era come se Gesù diceva a me: “Guarda bene: quello è il mio corpo!”. C’era da averne il fiato mozzo.

La sorella del grande filosofo Blaise Pascal riferisce questo fatto relativo al fratello. Nella sua ultima malattia, non riusciva a trattenere nulla di quello che mangiava e per questo non gli permettevano di ricevere il viatico che insistentemente chiedeva. Allora disse: “Se non potete darmi l’Eucaristia, fate almeno entrare un povero nella mia stanza. Se non posso comunicare con il Capo, voglio almeno comunicare con il suo corpo”[24].

L’unico impedimento a ricevere la comunione che san Paolo nomina esplicitamente è il fatto che, nell’assemblea, “uno è affamato e un altro ubriaco”: “Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti, quando siete a tavola, comincia a prendere il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco” (1Cor 11, 20-21). Dire “questo non è un mangiare la cena del Signore” è come dire: la vostra non è più una vera Eucaristia! È un’affermazione forte, anche da un punto di vista teologico, alla quale non prestiamo forse abbastanza attenzione.

Al giorno d’oggi, la situazione in cui uno ha fame e un altro scoppia di cibo non è più un problema locale, ma mondiale. Non ci può essere niente in comune tra la cena del Signore e il pranzo del ricco epulone, dove il padrone banchetta lautamente, ignorando il povero che sta fuori della porta (cf. Lc 16, 19ss.). La preoccupazione di condividere ciò che si ha con chi è nel bisogno, vicini e lontani, deve essere parte integrante della nostra vita eucaristica.

Non c’è nessuno che, volendo, non possa, durante la settimana, compiere uno di quei gesti di cui Gesù dice: “Lo avete fatto a me”. Condividere non significa semplicemente “dare qualcosa”: pane, vestito, ospitalità; significa anche visitare qualcuno: un prigioniero, un malato, un anziano solo. Non è dare solo del proprio denaro, ma anche del proprio tempo. Il povero e il sofferente hanno bisogno di solidarietà e di amore, non meno che di pane e vestito, soprattutto in questo tempo di isolamento imposto dalla pandemia.
Gesù ha detto: “I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me” (Mt 26, 11). Questo è vero anche nel senso che non sempre possiamo ricevere il corpo di Cristo nell’Eucaristia e anche quando lo riceviamo, ciò non dura che pochi minuti, mentre possiamo sempre riceverlo nei poveri. Qui non ci sono limiti, si richiede solo che lo vogliamo. I poveri li abbiamo sempre a portata di mano. Ogni volta che incontriamo qualcuno che soffre, specie se si tratta di certe forme estreme di sofferenza, se stiamo attenti, udremo, con gli orecchi della fede, la parola di Cristo: “Questo è il mio corpo!”.
Concludo con una piccola storia che ho letto da qualche parte. Un uomo vede una bambina denutrita, scalza e tremante di freddo e grida a Dio quasi con rabbia: “O Dio perché non fai qualcosa per quella bambina?”. Dio gli risponde: “Certo che ho fatto qualcosa per quella bambina: ho fatto te!

Che Dio ci aiuti a ricordarcelo al momento giusto.

Quarta predica (1° aprile)

La presenza reale di Gesù nell’Eucaristia

 

Dopo le nostre catechesi mistagogiche sulle tre parti della Messa – la liturgia della parola, la consacrazione e la comunione – meditiamo oggi sull’Eucaristia come presenza reale di Cristo nella Chiesa.

Come affrontare un mistero così alto e così inaccessibile? Ci vengono subito alla mente le infinite teorie e discussioni esistenti intorno a esso, le divergenze tra cattolici e protestanti, tra latini e ortodossi, che riempivano i libri sui quali abbiamo studiato teologia noi che abbiamo una certa età, e siamo tentati di pensare che è impossibile dire ancora qualcosa di questo mistero che possa edificare la nostra fede e riscaldare il nostro cuore, senza scivolare inevitabilmente nella polemica interconfessionale.

Ma è proprio questa l’opera meravigliosa che lo Spirito Santo sta compiendo ai nostri giorni tra tutti i cristiani. Egli ci spinge a riconoscere quanta parte avevano, nelle nostre dispute eucaristiche, la presunzione umana di poter racchiudere il mistero in una teoria o, addirittura, in una parola, come pure la volontà di prevalere sull’avversario. Ci spinge a pentirci di aver ridotto il supremo pegno d’amore e di unità lasciatoci da nostro Signore ad oggetto privilegiato dei nostri alterchi.

La via per incamminarci su questa strada dell’ecumenismo eucaristico è la via del riconoscimento reciproco, la via cristiana dell’agápe, cioè della condivisione. Non si tratta di passar sopra alle divergenze reali, o di venir meno in qualcosa all’autentica dottrina cattolica. Si tratta piuttosto di mettere insieme gli aspetti positivi e i valori autentici che ci sono in ognuna delle tre grandi tradizioni cristiane, in modo da costituire una “massa” di verità comune che cominci ad attirarci verso l’unità.

È incredibile come alcune posizioni cattoliche, ortodosse e protestanti, intorno alla presenza reale, risultino divergenti tra di loro e distruttive, qualora vengano contrapposte e viste in alternativa tra di loro, mentre appaiono, invece, meravigliosamente convergenti, se tenute insieme in equilibrio. È la sintesi che dobbiamo cominciare a fare; dobbiamo passare, come al setaccio, le grandi tradizioni cristiane, per ritenere di ognuna, come ci esorta l’Apostolo, “ciò che è buono” (cf. 1Ts 5, 21).

La tradizione latina: una presenza reale, ma nascosta

 

Andiamo, dunque, a visitare, con questo spirito, le tre principali tradizioni eucaristiche – latina, ortodossa e protestante – per edificarci delle ricchezze di ognuna e riunire tutte nel tesoro comune della Chiesa. L’idea che, alla fine, avremo del mistero della presenza reale risulterà più ricca e più viva.

Nella visione della teologia e della liturgia latina, il centro indiscusso dell’azione eucaristica, dal quale scaturisce la presenza reale di Cristo, è il momento della consacrazione. In esso, Gesù agisce e parla in prima persona. Sant’Ambrogio, per esempio, scrive:

Questo pane è pane prima delle parole sacramentali; ma, intervenendo la consacrazione, il pane diventa carne di Cristo… Da quali parole è operata la consacrazione e di chi sono tali parole? Del Signore Gesù! Tutte le cose che si dicono prima di quel momento sono dette dal sacerdote che loda Dio, prega per il popolo, per i re e per gli altri; ma quando si arriva al momento di realizzare il venerabile sacramento, il sacerdote non usa più parole sue, ma di Cristo. È dunque la parola che opera (conficit) il sacramento… Vedi quanto è efficace (operatorius) il parlare di Cristo? Prima della consacrazione non c’era il corpo di Cristo, ma dopo la consacrazione, io ti dico che c’è ormai il corpo di Cristo. Egli ha detto ed è stato fatto, ha comandato ed è stato creato (cf. Sal 33, 9)[25].

Possiamo parlare, nella visione latina, di un realismo cristologico. “Cristologico”, perché tutta l’attenzione è rivolta qui a Cristo, visto sia nella sua esistenza storica e incarnata che in quella di Risorto; Cristo è sia l’oggetto che il soggetto dell’Eucaristia, cioè colui che è realizzato nell’Eucaristia e colui che realizza l’Eucaristia. “Realismo”, perché questo Gesù non è visto presente sull’altare semplicemente in un segno o in un simbolo, ma in verità e con la sua realtà. Tale realismo cristologico è visibile, per fare un esempio, nel canto Ave verum: “Salve, vero corpo, nato da Maria Vergine, che realmente hai sofferto e fosti immolato sulla croce per l’uomo, il cui fianco squarciato ha effuso sangue ed acqua…”.

Il concilio di Trento, in seguito, ha precisato meglio questo modo di concepire la presenza reale, usando tre avverbi: vere, realiter, substantialiter. Gesù è presente veramente, non solo in immagine, o in figura; è presente realmente, non solo soggettivamente, per la fede dei credenti; è presente sostanzialmente, cioè secondo la sua realtà profonda che è invisibile ai sensi, e non secondo le apparenze che restano quelle del pane e del vino.

Ci poteva essere, è vero, il pericolo di cadere in un “crudo” realismo, o in un realismo esagerato. Ma il rimedio a tale pericolo è nella tradizione stessa. Sant’Agostino ha chiarito, una volta per sempre, che la presenza di Gesù nell’Eucaristia avviene “in sacramento”. Non è, in altre parole, una presenza fisica, ma sacramentale, mediata da segni che sono, appunto, il pane e il vino. In questo caso, però, il segno non esclude la realtà, ma la rende presente, nell’unico modo con cui il Cristo risorto che “vive nello Spirito” (1Pt 3, 18) può rendersi presente a noi, finché viviamo ancora nel corpo.

San Tommaso d’Aquino – l’altro grande artefice della spiritualità eucaristica occidentale, insieme con sant’Ambrogio e sant’Agostino – dice la medesima cosa, parlando di una presenza di Cristo “secondo la sostanza” sotto le specie del pane e del vino[26]. Dire infatti che Gesù si fa presente nell’Eucaristia con la sua sostanza, significa dire che si fa presente con la sua realtà vera e profonda, che può essere attinta solo mediante la fede.

Nell’inno Adoro te devote che riflette da vicino il pensiero dell’Aquinate e che è servito più che tanti libri a plasmare la pietà eucaristica latina, si dice: “Vista, tatto e gusto, tutto qui vien meno. La sicurezza viene solo dal credere ciò che si ascolta”. Visus tactus gustus in te fallitur – sed auditui solo tuto creditur.

Gesù è presente, dunque, nell’Eucaristia in un modo unico che non ha riscontro altrove. Nessun aggettivo, da solo, è sufficiente a descrivere tale presenza; neppure l’aggettivo “reale”. Reale viene da res (cosa) e significa: a modo di cosa o di oggetto; ma Gesù non è presente nell’Eucaristia come una “cosa” o un oggetto, ma come una persona. Se proprio si vuol dare un nome a questa presenza, meglio sarebbe chiamarla semplicemente presenza “eucaristica”, perché si realizza soltanto nell’Eucaristia.

 

L’azione dello Spirito Santo: la tradizione ortodossa

 

La teologia latina presenta tante ricchezze, ma non esaurisce – né potrebbe farlo – il mistero. È mancato ad essa, almeno in passato, il dovuto rilievo allo Spirito Santo, che pure è essenziale per capire l’Eucaristia. Ecco, allora, che ci volgiamo verso l’Oriente, per interrogare la tradizione ortodossa, con animo, però, ben diverso da un tempo: non più inquieti per la differenza, ma felici per il completamento che essa arreca alla nostra visione latina.
Nella tradizione ortodossa, infatti, è messa in piena luce l’azione dello Spirito Santo nella celebrazione eucaristica. Questo confronto ha già portato i suoi frutti, dopo il concilio Vaticano II. Fino ad allora, nel canone romano della Messa, l’unica menzione dello Spirito Santo era quella, per inciso, della dossologia finale: “Per Cristo, con Cristo, in Cristo… nell’unità dello Spirito Santo…”. Ora, invece, tutti i canoni nuovi recano una doppia invocazione dello Spirito Santo: una sui doni, prima della consacrazione, e una sulla Chiesa, dopo la consacrazione.

Le liturgie orientali hanno attribuito sempre la realizzazione della presenza reale di Cristo sull’altare a un’operazione speciale dello Spirito Santo. Nell’anafora detta di san Giacomo, in uso nella Chiesa antiochena, lo Spirito Santo è invocato con queste parole:

“Manda su noi e su questi santi doni presentati, il tuo santissimo Spirito, Signore e datore di vita, che siede con te, Dio e Padre, e con il tuo unico Figlio. Egli regna consostanziale e coeterno; ha parlato nella legge e nei profeti e nel Nuovo Testamento; è disceso, sotto forma di colomba, sul nostro Signore Gesù Cristo nel fiume Giordano e si è riposato su di lui; è disceso sui santi apostoli, il giorno di Pentecoste, sotto forma di lingue di fuoco. Manda questo tuo Spirito tre volte santo, Signore, su noi e su questi santi doni presentati, affinché, per la sua venuta, santa, buona e gloriosa, santifichi questo pane e ne faccia il santo corpo di Cristo (Amen), santifichi questo calice e ne faccia il sangue prezioso di Cristo (Amen)”.

C’è, qui, ben più che la semplice aggiunta dell’invocazione dello Spirito Santo. C’è uno sguardo ampio e penetrante in tutta la storia della salvezza che aiuta a scoprire una dimensione nuova del mistero eucaristico. Partendo dalle parole del simbolo niceno costantinopolitano che definiscono lo Spirito Santo “Signore” e “Datore di vita”, “che ha parlato per mezzo dei profeti”, si amplia la prospettiva fino a tracciare una vera e propria “storia” dell’azione dello Spirito Santo.

L’Eucaristia porta a compimento questa serie di interventi prodigiosi. Lo Spirito Santo che a Pasqua irruppe nel sepolcro e, “toccando” il corpo inanimato di Gesù, lo fece rivivere, nell’Eucaristia ripete questo prodigio. Egli viene sul pane e sul vino che sono elementi morti e dà loro la vita, ne fa il corpo e il sangue viventi del Redentore. Veramente – come disse Gesù stesso, parlando dell’Eucaristia – “è lo Spirito che dà la vita” (Gv 6, 63). Un grande rappresentante della tradizione eucaristica orientale, Teodoro di Mopsuestia, scrive:
“In virtù dell’azione liturgica, il nostro Signore è come risuscitato dai morti e spande la sua grazia su noi tutti, per la venuta dello Spirito Santo… Quando il pontefice dichiara che questo pane e questo vino sono il corpo e il sangue di Cristo, afferma che lo sono diventati per il contatto dello Spirito Santo. Avviene come del corpo naturale di Cristo, quando ricevette lo Spirito Santo e la sua unzione. In quel momento, al sopraggiungere dello Spirito Santo, noi crediamo che il pane e il vino ricevono una specie di unzione di grazia. E da allora li crediamo essere il corpo e il sangue di Cristo, immortali, incorruttibili, impassibili e immutabili per natura, come il corpo stesso di Cristo nella risurrezione”[27].

È importante, però, tener conto di una cosa – e qui si vede come anche la tradizione latina ha qualcosa da offrire ai fratelli ortodossi. Lo Spirito Santo non agisce separatamente da Gesù, ma dentro la parola di Gesù. Di lui Gesù disse: “Non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito… Egli mi glorificherà perché prenderà del mio e ve l’annunzierà” (Gv 16, 13-14). Ecco perché non bisogna separare le parole di Gesù (“Questo è il mio corpo”) dalle parole dell’epiclesi (“Lo Spirito Santo faccia di questo pane il corpo di Cristo”).

L’appello all’unità, per i cattolici e i fratelli ortodossi, sale dalle profondità stesse del mistero eucaristico. Anche se, per necessità di cose, il ricordo dell’istituzione e l’invocazione dello Spirito avvengono in momenti distinti (l’uomo non può esprimere il mistero in un solo istante), la loro azione, però, è congiunta. L’efficacia viene certamente dallo Spirito (non dal sacerdote, né dalla Chiesa), ma tale efficacia si esercita dentro la parola di Cristo e attraverso di essa.

L’efficacia che rende presente Gesù sull’altare non viene – ho detto – dalla Chiesa, ma – aggiungo – non avviene senza la Chiesa. Essa è lo strumento vivente, attraverso il quale e insieme con il quale opera lo Spirito Santo. Avviene, per la venuta di Gesù sull’Altare, come per la venuta finale in gloria: “Lo Spirito e la Sposa” (la Chiesa!) “dicono” a Gesù: “Vieni!” (cf. Ap 22, 17). Ed egli viene.

 

L’importanza della fede: la spiritualità protestante

 

La tradizione latina ha messo in luce “chi” è presente nell’Eucaristia, Cristo; la tradizione ortodossa ha messo in luce “da chi” è operata la sua presenza, dallo Spirito Santo; la teologia protestante mette in luce “su chi” opera tale presenza. In altre parole, a quali condizioni, il sacramento opera, di fatto, in chi lo riceve, quello che significa. Queste condizioni sono diverse, ma si riassumono in una parola: la fede.

Non fermiamoci subito alle conseguenze negative, tratte, in certi periodi, dal principio protestante secondo cui i sacramenti non sono che “segni della fede”. Oltrepassiamo i malintesi e la polemica e allora troviamo che questo energico richiamo alla fede è salutare proprio per salvare il sacramento e non farlo scadere a una delle “buone opere”, o a qualcosa che agisce meccanicamente e magicamente, quasi all’insaputa dell’uomo. Si tratta, in fondo, di scoprire il profondo significato di quell’esclamazione che la liturgia fa risuonare al termine della consacrazione e che, una volta, ce lo ricordiamo, era addirittura inserita al centro della formula di consacrazione, quasi a sottolineare che la fede è parte essenziale del mistero: Mysterium fidei, mistero della fede!

La fede non “fa”, ma solo “riceve” il sacramento. Solo la parola di Cristo ripetuta dalla Chiesa e resa efficace dallo Spirito Santo “fa” il sacramento. Ma che gioverebbe un sacramento “fatto”, ma non “ricevuto”? A proposito dell’Incarnazione, uomini come Origene, sant’Agostino, san Bernardo, hanno espresso, questo pensiero: “Che giova a me che Cristo sia nato una volta da Maria a Betlemme, se non nasce anche, per fede, nel mio cuore?” La stessa cosa si deve dire anche dell’Eucaristia; che giova a me che Cristo sia realmente presente sull’altare, se egli non è presente per me? Già al tempo in cui Gesù era presente fisicamente sulla terra, occorreva la fede; altrimenti – come ripete tante volte egli stesso nel Vangelo – la sua presenza non serviva a niente, se non a condanna: “Guai a te Gorazim, guai a te Cafarnao!”.

La fede è necessaria perché la presenza di Gesù nell’Eucaristia sia, non soltanto “reale”, ma anche “personale”, cioè da persona a persona. Altro è infatti “esserci” e altro “essere presente”. La presenza suppone uno che è presente e uno al quale è presente; suppone comunicazione reciproca, lo scambio tra due soggetti liberi, che si accorgono l’uno dell’altro. È molto di più, quindi, che non il semplice essere in un certo luogo.

Una tale dimensione soggettiva ed esistenziale della presenza eucaristica non annulla la presenza oggettiva che precede la fede dell’uomo, ma anzi la suppone e la valorizza.

Lutero, che ha tanto esaltato il ruolo della fede, è anche uno di quelli che hanno sostenuto con più vigore la dottrina della presenza reale di Cristo nel sacramento dell’altare. Nel corso di un dibattito con altri riformatori su questo tema, egli affermò con grande vigore:
“Non posso intendere le parole Questo è il mio corpo” diversamente da come suonano. Tocca quindi agli altri dimostrare che là dove la parola dice: Questo è il mio corpo” il corpo di Cristo non c’è. Non voglio ascoltare spiegazioni basate sulla ragione. Di fronte a parole tanto chiare, non ammetto domande; respingo il raziocinio e la sana ragione umana. Dimostrazioni materiali, argomentazioni geometriche: tutto respingo completamente. Dio sta al di sopra di qualsiasi matematica e bisogna adorare con stupore la Parola di Dio”[28].

Il rapido sguardo che abbiamo gettato sulla ricchezza delle varie tradizioni cristiane è stato sufficiente a farci intravedere quale dono immenso si dischiude alla Chiesa, quando le varie confessioni cristiane decidono di mettere in comune i loro beni spirituali, come facevano i primi cristiani, dei quali è detto che “tenevano ogni cosa in comune” (At 2, 44). È questa l’agápe più grande, a dimensione di tutta la Chiesa, che il Signore ci mette in cuore di desiderare di vedere, per la gioia del comune Padre e il rinvigorimento della sua Chiesa.

 

Sentimento di presenza

Siamo giunti alla fine del nostro breve pellegrinaggio eucaristico attraverso le varie confessioni cristiane. Abbiamo raccolto anche noi alcune ceste di frammenti avanzati dalla grande moltiplicazione dei pani avvenuta nella Chiesa. Ma non possiamo terminare qui la nostra meditazione sul mistero della presenza reale. Sarebbe come un aver raccolto i frammenti e non mangiarli. La fede nella presenza reale è una grande cosa, ma non ci basta; almeno la fede intesa in un certo modo. Non basta avere un’idea teologicamente perfetta e ecumenicamente aperta, della presenza reale di Gesù nell’Eucaristia. Quanti, tra i teologi, sanno tutto su tale mistero; ma non conoscono la presenza reale. Perché “conosce”, in senso biblico, una cosa, solo chi fa l’esperienza di quella cosa. Conosce veramente il fuoco solo chi, almeno una volta, è stato raggiunto da una fiamma e ha dovuto tirarsi velocemente indietro per non scottarsi.

San Gregorio Nisseno ci ha lasciato un’espressione stupenda per indicare questo più alto livello di fede; parla di “un certo sentimento di presenza” (aisthesis tes parusias)[29]. Esso si ha quando uno è colto dalla presenza di Dio, ha una certa percezione (non solo un’idea) che egli è presente. Non si tratta di una percezione naturale; è frutto di una grazia che opera come una rottura di livello, un salto di qualità. C’è un’analogia molto forte con ciò che avveniva quando, dopo la risurrezione, Gesù si faceva riconoscere da qualcuno. Era una cosa improvvisa che, di colpo, cambiava completamente lo stato d’animo di una persona.
Un giorno, dopo la risurrezione, gli apostoli sono sul lago a pescare; sulla riva compare un uomo. Si instaura un dialogo a distanza: “Non avete nulla da mangiare?”; rispondono: “No!” Ma ecco che scocca una scintilla nel cuore di Giovanni ed egli lancia un grido: “È il Signore!” e allora tutto cambia e corrono verso la riva (cf. Gv 21, 4ss). La stessa cosa avviene con i discepoli di Emmaus; Gesù camminava con loro, “ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo”; finalmente, all’atto di spezzare il pane, ecco che “si aprirono i loro occhi e lo riconobbero” (Lc 24, 13ss). Ecco, una cosa simile avviene il giorno in cui un cristiano, dopo aver ricevuto tante e tante volte Gesù nell’Eucaristia, finalmente, per un dono di grazia, lo “riconosce”.

Dalla fede e dal “sentimento” della presenza reale, deve sbocciare spontaneamente la riverenza e, anzi, la tenerezza verso Gesù sacramentato. È questo un sentimento così delicato e personale che solo a parlarne si rischia di sciuparlo. San Francesco d’Assisi ebbe il cuore ricolmo di tali sentimenti verso Gesù nell’Eucaristia. Egli si intenerisce davanti a Gesù sacramentato, come a Greccio si inteneriva davanti al Bambino di Betlemme; lo vede così abbandonato nelle nostre mani, così inerme, così umile. Nella sua Lettera a tutto l’Ordine egli scrive delle parole di fuoco che vogliamo ascoltare come rivolte a noi in questo momento, a conclusione della nostra meditazione sulla presenza reale di Gesù nell’Eucaristia:

“Badate alla vostra dignità, fratelli sacerdoti, e siate santi perché egli è santo… Grande miseria sarebbe, e miseranda meschinità se, avendo lui così presente, vi curaste di
qualunque altra cosa che esista nel mondo intero. Tutta l’umanità trepidi, l’universo intero tremi e il cielo esulti, quando sull’altare, nella mano del sacerdote, si rende presente Cristo, il Figlio del Dio vivo. O ammirabile altezza e degnazione stupenda!
O umiltà sublime! O sublimità umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, così si umili da nascondersi, per la nostra salvezza, sotto poca apparenza di pane!
Guardate, fratelli, l’umiltà di Dio, ed aprite davanti a lui i vostri cuori; umiliatevi anche voi, perché siate da lui esaltati. Nulla, dunque, di voi trattenete per voi, affinché
totalmente vi accolga colui che totalmente a voi si offre”.

 

Quinta predica (8 aprile)

Io vi ho dato l’esempio

 

Questa ultima meditazione sull’Eucaristia parte da una domanda: Perché Giovanni, nel racconto dell’ultima cena, non parla dell’istituzione dell’Eucaristia, ma parla invece, al suo posto, della lavanda dei piedi? Proprio lui che aveva dedicato un capitolo intero del suo Vangelo a preparare i discepoli a mangiare la sua carne e bere il suo sangue?

Il motivo è che in tutto ciò che riguarda la Pasqua e l’Eucaristia, Giovanni mostra di voler accentuare più l’evento che il sacramento, cioè più il significato che il segno. Per lui, la nuova Pasqua non comincia tanto nel Cenacolo, quando si istituisce il rito che la deve commemorare (si sa che l’ultima cena di Giovanni non è una cena “pasquale); comincia piuttosto sulla croce quando si compie il fatto che deve essere commemorato. È lì che avviene il passaggio dalla Pasqua antica a quella nuova. Per questo egli sottolinea che a Gesù sulla croce “non fu spezzato alcun osso”: perché così era prescritto per l’agnello pasquale nell’Esodo (Gv 19, 36; Es 12, 46).

 

Il significato della lavanda dei piedi

 

È importante comprendere bene il significato che ha per Giovanni il gesto della lavanda dei piedi. La recente costituzione apostolica Praedicate Evangelium ne fa menzione nel Preambolo, come l’icona stessa del servizio che deve caratterizzare tutto il lavoro della Curia Romana riformata. Essa ci aiuta a capire come si può fare, della vita, una Eucaristia e così “imitare nella vita ciò che si celebra sull’altare”. Siamo davanti a uno di quegli episodi (un altro è quello della trafittura del costato), in cui l’evangelista lascia intendere chiaramente che c’è sotto un mistero che va al di là del fatto contingente che potrebbe, in se stesso, sembrare trascurabile.

“Io – dice Gesù – vi ho dato l’esempio”. Di che cosa ci ha dato l’esempio? Di come si devono lavare materialmente i piedi ai fratelli, ogni volta che ci si mette a tavola?

Certamente non di questo soltanto! La risposta è nel Vangelo: “Chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10, 44-45).

Nel Vangelo di Luca, proprio nel contesto dell’ultima cena, è riportata una parola di Gesù che sembra pronunciata a conclusione della lavanda dei piedi: “Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22, 27). Secondo l’evangelista, Gesù disse queste parole perché tra i discepoli era sorta una discussione su chi di loro poteva essere considerato il più grande (cf. Lc 22, 24). Forse fu proprio questa circostanza che ispirò a Gesù il gesto della lavanda dei piedi, come una specie di parabola in azione. Mentre i discepoli sono tutti intenti a discutere animatamente tra loro, egli si alza silenziosamente da tavola, cerca un catino d’acqua e un asciugatoio, poi torna indietro e si inginocchia davanti a Pietro per lavargli i piedi, gettandolo, comprensibilmente, nella più grande confusione: “Signore tu lavi i piedi a me?” (Gv 13, 6).

Nella lavanda dei piedi, Gesù ha voluto come riassumere tutto il senso della sua vita, perché rimanesse bene impresso nella memoria dei discepoli e un giorno, quando avrebbero potuto capire, capissero: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo” (Gv 13, 7). Quel gesto, posto a conclusione dei Vangeli, ci dice che tutta la vita di Gesù, dall’inizio alla fine, fu una lavanda dei piedi, cioè un servire gli uomini. Essa, come dice qualche esegeta, fu una pro-esistenza, cioè un’esistenza vissuta a favore degli altri.

Gesù ci ha dato l’esempio di una vita spesa per gli altri, una vita fatta “pane spezzato per il mondo”. Con le parole: “Fate anche voi come ho fatto io”, Gesù istituisce dunque la diakonía, cioè il servizio, elevandolo a legge fondamentale, o, meglio, a stile di vita e a modello di tutti i rapporti nella Chiesa. Come se dicesse, anche a proposito della lavanda dei piedi, ciò che disse nell’istituire l’Eucaristia: “Fate questo in memoria di me!”.

A questo punto però devo fare una piccola digressione prima di proseguire il discorso. Un antico Padre, il beato Isacco di Ninive, dava questo consiglio a chi è costretto, dal dovere, a parlare di cose spirituali, alle quali non è ancora giunto con la vita: “Parlane – diceva – come uno che appartiene alla classe dei discepoli e non con autorità, dopo aver umiliato la tua anima ed esserti fatto più piccolo di ogni tuo ascoltatore”[30]. Ecco, Venerabili padri, fratelli e sorelle, lo spirito con cui oso parlare di servizio a voi che lo vivete giorno per giorno.
Ricordo l’osservazione scherzosa che una volta fece a noi membri della Commissione Teologica Internazionale l’allora prefetto della Congregazione della fede, il Cardinal Franjo Šeper: “Voi teologi – disse sorridendo – non avete finito di scrivere qualcosa che subito vi mettete sopra il vostro nome e cognome. Noi della Curia dobbiamo fare tutto anonimamente”. È una qualità del servizio evangelico che è motivo per me di ammirazione e gratitudine per i tanti servitori della Chiesa che lavorano nella Curia romana, nelle Curie vescovili e nelle Nunziature.

 

Lo spirito del servizio

 

Torniamo al tema. Dobbiamo approfondire cosa significa “servizio”, per poterlo realizzare nella nostra vita e non fermarci alle parole. Il servizio non è, in se stesso, una virtù. In nessun catalogo delle virtù o dei frutti dello Spirito, come le chiama il Nuovo Testamento, si incontra la parola diakonía, servizio. Si parla, anzi, perfino di un servizio al peccato (cf. Rm 6, 16) o agli idoli (cf. 1Cor 6, 9) che non è certamente un servizio buono. Per sé, il servizio è una cosa neutra: indica una condizione di vita, o un modo di rapportarsi agli altri nel proprio lavoro, un essere alle dipendenze di altri. Può essere, addirittura, una cosa negativa, se fatta per costrizione (come nella schiavitù), o solo per interesse.

Tutti oggi parlano di servizio; tutti dicono di essere a servizio: il commerciante serve i clienti; di chiunque esercita una mansione nella società, si dice che presta servizio, o che è di servizio. Ma è evidente che il servizio di cui parla il Vangelo è tutt’altra cosa, anche se non esclude di per sé, né squalifica necessariamente il servizio come è inteso dal mondo. La differenza è tutta nelle motivazioni e nell’atteggiamento interiore con cui il servizio è fatto.

Rileggiamo il racconto della lavanda dei piedi, per vedere con che spirito la compie Gesù e da che cosa è mosso: “Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13, 1). Il servizio non è una virtù, ma scaturisce dalle virtù e, in primo luogo, dalla carità; è, anzi, l’espressione più grande del comandamento nuovo. Il servizio è un modo di manifestarsi dell’agápe, cioè di quell’amore che “non cerca il proprio interesse” (cf. 1Cor 13, 5), ma quello degli altri, che non è fatto solo di ricerca, ma anche di donazione. È, insomma, una partecipazione e un’imitazione dell’agire di Dio che, essendo “il Bene, tutto il Bene, il Sommo Bene”, non può amare e beneficare che gratuitamente, senza alcun proprio interesse.

Per questo, il servizio evangelico, all’opposto di quello del mondo, non è proprio dell’inferiore, del bisognoso, di chi non ha; ma è proprio, piuttosto, di chi possiede, di chi è posto in alto, di chi ha. “A colui cui fu dato molto, molto sarà chiesto”, in fatto di servizio (cf. Lc 12, 48). Per questo, Gesù dice che, nella sua Chiesa, è soprattutto “chi governa” che deve essere “come colui che serve” (Lc 22, 26), chi è “il primo” deve essere “il servo di tutti” (Mc 10, 44). La lavanda dei piedi – diceva il mio professore di esegesi a Friburgo, Ceslas Spicq – è “il sacramento dell’autorità cristiana”.

Accanto alla gratuità, il servizio esprime un’altra grande caratteristica dell’agápe divina: l’umiltà. Le parole di Gesù: “Dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri”, significano: dovete rendervi a vicenda i servizi di un’umile carità. Carità e umiltà, insieme, formano il servizio evangelico. Gesù ha detto una volta: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11, 29). Ma, a pensarci bene, che cosa ha fatto Gesù per definirsi “umile”? Forse che ha sentito bassamente di sé, o ha parlato in modo dimesso della sua persona? Al contrario, nell’episodio stesso della lavanda dei piedi, egli dice di essere “Maestro e Signore” (cf. Gv 13, 13).

Che cosa dunque ha fatto per definirsi “umile”? Si è abbassato, è disceso per servire! Dal momento dell’incarnazione, non ha fatto altro che discendere, discendere, fino a quel punto estremo, quando lo vediamo in ginocchio, in atto di lavare i piedi agli apostoli. Che fremito dovette correre fra gli angeli, al vedere in tale abbassamento il Figlio di Dio, sul quale essi non osano neppure fissare lo sguardo (cf. 1Pt 1, 12). Il Creatore è in ginocchio di fronte alla creatura! “Arrossisci, superba cenere: Dio si abbassa e tu ti innalzi!”, diceva a se stesso san Bernardo[31]. Così intesa – cioè come un abbassarsi per servire – l’umiltà è davvero la via regia per somigliare a Dio e per imitare l’Eucaristia nella nostra vita.

 

Discernimento degli spiriti

 

Il frutto di questa meditazione dovrebbe essere una revisione coraggiosa della nostra vita: abitudini, mansioni, orari di lavoro, distribuzione e impiego del tempo, per vedere se essa è realmente un servizio e se, in questo servizio, c’è amore e umiltà. Il punto fondamentale è sapere se noi serviamo i fratelli, o invece ci serviamo dei fratelli. Si serve dei fratelli e li strumentalizza colui che, magari, si fa in quattro per gli altri, come si suol dire, ma in tutto ciò che fa non è disinteressato, cerca, in qualche modo, l’approvazione, il plauso oppure la soddisfazione di sentirsi, nel suo intimo, a posto e benefattore. Il Vangelo presenta, su questo punto, esigenze di una radicalità estrema: “Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra” (Mt 6, 3). Tutto ciò che è fatto, coscientemente e a ragion veduta, “per essere visti dagli uomini”, è perso. “Christus non sibi placuit”: Cristo non cercò di compiacere se stesso! (Rm 15, 3): questa è la regola del servizio.
Per fare il “discernimento degli spiriti”, cioè delle intenzioni che ci muovono nel nostro servizio, è utile vedere quali sono i servizi che facciamo volentieri e quelli che cerchiamo di scansare in tutti modi. Vedere, inoltre, se il nostro cuore è pronto ad abbandonare – qualora ci venga richiesto – un servizio nobile, che dà lustro, per uno umile che nessuno apprezzerà. I servizi più sicuri sono quelli che facciamo senza che nessuno – neppure chi lo riceve – se ne accorga, ma solo il Padre che vede nel segreto. Gesù ha elevato a simbolo del servizio uno dei gesti più umili che si conoscessero al suo tempo e che era affidato, di solito, agli schiavi: il lavare i piedi. San Paolo esorta: “Non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili” (Rm 12, 16).

Allo spirito di servizio si oppone la brama di dominio, l’abitudine a imporre agli altri la propria volontà e il proprio modo di vedere o di fare le cose. Insomma, l’autoritarismo. Spesso chi è tiranneggiato da queste disposizioni non si rende minimamente conto delle sofferenze che provoca e si stupisce, anzi, nel vedere che gli altri non mostrano di apprezzare tutto il suo “interessamento” e i suoi sforzi e si sente persino vittima. Gesù ha detto ai suoi apostoli di essere come “agnelli in mezzo a lupi”, ma costoro sono, al contrario, lupi in mezzo ad agnelli. Una grande parte delle sofferenze che talvolta affliggono una famiglia o una comunità è dovuta all’esistenza in esse di qualche spirito autoritario e dispotico che calpesta gli altri e che, con il pretesto di “servire” gli altri, in realtà “asserve” gli altri.

È possibilissimo che questo “qualcuno” siamo proprio noi! Se ci viene un piccolo dubbio in questo senso, sarebbe buona cosa che interrogassimo sinceramente chi ci vive accanto e dessimo loro la possibilità di esprimersi senza timore. Se risulta che anche noi rendiamo la vita difficile, con il nostro carattere, a qualcuno, dobbiamo accettare con umiltà la realtà e ripensare il nostro servizio.

Allo spirito di servizio si oppone anche, per altro verso, l’attaccamento esagerato alle proprie abitudini e comodità. Insomma lo spirito di mollezza. Non può servire seriamente gli altri chi è sempre intento ad accontentare se stesso, chi fa un idolo del proprio riposo, del proprio tempo libero, del proprio orario. La regola del servizio resta sempre la stessa: Cristo non cercò di compiacere se stesso.

Il servizio, abbiamo visto, è la virtù propria di chi presiede, è la cosa che Gesù ha lasciato ai pastori della Chiesa, come la sua eredità più cara. Tutti i carismi sono in funzione del servizio; ma in modo tutto particolare lo è il carisma di “pastori e maestri” (cf. Ef 4, 11), cioè il carisma dell’autorità. La Chiesa è “carismatica” per servire ed è anche “gerarchica” per servire!

 

Il servizio dello Spirito

 

Se per tutti i cristiani servire significa “non vivere più per se stessi” (cf. 2Cor 5, 15), per i pastori significa: “non pascere se stessi”: “Guai ai pastori d’Israele che pascono se stessi! I pastori non devono forse pascere il gregge?” (Ez 34, 2). Per il mondo, niente è più naturale e giusto di questo, che, cioè, chi è signore (dominus) “domini”, faccia da padrone. Tra i discepoli di Gesù, però, “non così”, ma chi è signore deve servire. “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede – scrive san Paolo –; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2Cor 1, 24). La stessa cosa raccomanda ai pastori l’apostolo Pietro: “Non spadroneggiate sulle persone a voi affidate, ma fatevi modelli del gregge” (cf 1 Pt 5, 3).

Non è facile, nel ministero pastorale, evitare la mentalità del padrone della fede; essa si è inserita molto presto nella concezione dell’autorità. In uno dei più antichi documenti sul ministero episcopale (la Didascalia Siriaca) troviamo già una concezione che presenta il vescovo come il monarca, nella cui Chiesa nulla può essere intrapreso, né dagli uomini né da Dio, senza passare attraverso di lui.

Per i pastori, e in quanto pastori, è spesso su questo punto che si decide il problema della conversione. Come risuonano forti e accorate quelle parole di Gesù dopo la lavanda dei piedi: “Io il Signore e il Maestro…!”. Gesù “non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio” (Fil 2, 6), cioè non ebbe paura di compromettere la sua dignità divina, di favorire la mancanza di rispetto da parte degli uomini, spogliandosi dei suoi privilegi e mostrandosi all’esterno un uomo in mezzo agli altri uomini (“simile agli uomini”).

Gesù ha vissuto semplicemente. La semplicità è stata sempre l’inizio e il segno di un vero ritorno al Vangelo. Bisogna imitare l’agire di Dio. Non c’è nulla – scriveva Tertulliano – che caratterizza meglio l’agire di Dio, quanto il contrasto tra la semplicità dei mezzi e dei modi esterni con cui opera e la grandiosità degli effetti spirituali che ottiene[32]. Il mondo ha bisogno di grossi apparati per agire e per impressionare; Dio no.

C’è stata un’epoca in cui la dignità dei vescovi si esprimeva in insegne, titoli, castelli, eserciti. Erano, come si dice, vescovi-principi, ma assai più principi che vescovi. La Chiesa vive oggi, su questo punto, un’epoca che, al confronto, ci appare d’oro. Ho conosciuto molti anni fa un vescovo che trovava naturale trascorrere ogni settimana qualche ora in una casa di riposo, per aiutare gli anziani a vestirsi e a mangiare. Aveva preso alla lettera la lavanda dei piedi. Io stesso devo dire di aver ricevuto da alcuni prelati i migliori esempi di semplicità della mia vita.

Occorre però conservare, anche su questo punto, una grande libertà evangelica. La semplicità esige che non ci mettiamo al di sopra degli altri, ma neppure, sempre e ostinatamente, al di sotto, per mantenere, in un modo o nell’altro, le distanze, ma che accettiamo, nelle cose ordinarie della vita, di essere come gli altri. Ci sono persone – nota acutamente il Manzoni – che, di umiltà, ne hanno quanta ne bisogna per mettersi al di sotto della buona gente, ma non per star loro in pari[33].

A volte, il servizio migliore non consiste nel servire, ma nel lasciarsi servire, come Gesù che, all’occasione, sapeva anche stare a tavola e farsi lavare i piedi (cf. Lc 7, 38) e che, di buon grado, accettava i servizi che gli rendevano, durante i suoi viaggi, alcune donne generose e affezionate (cf. Lc 8, 2-3).

C’è un’altra cosa che bisogna dire a proposito del servizio dei pastori, ed è questa: il servizio dei fratelli, per quanto importante e santo, non è la prima cosa e non è l’essenziale; prima c’è il servizio di Dio. Gesù è anzitutto il “Servo di Jahvè” e poi anche il servo degli uomini. Agli stessi genitori ricorda questo, dicendo: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2, 49). Egli non esitava a deludere le folle, venute per ascoltarlo e per farsi guarire, lasciandole improvvisamente, per ritirarsi in luoghi solitari a pregare (cf. Lc 5, 16).

Anche il servizio evangelico è insidiato oggi dal pericolo della secolarizzazione. Si dà troppo facilmente per scontato che ogni servizio reso all’uomo è servizio di Dio. San Paolo parla di un servizio dello Spirito (diakonía Pneumatos) (2Cor 3, 8), al quale servizio sono destinati i ministri del Nuovo Testamento. Lo spirito di servizio si deve esprimere, nei pastori, attraverso il servizio dello Spirito!

Chi, come il sacerdote, è, per vocazione, chiamato a tale servizio “spirituale”, non serve i fratelli se rende loro cento o mille altri servizi, ma trascura quell’unico che si ha diritto di aspettarsi da lui e che lui solo può dare. È scritto che il sacerdote “viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio” (Eb 5, 1). Quando sorse per la prima volta questo problema nella Chiesa, Pietro lo risolse dicendo: “Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense… Noi ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della Parola” (At 6, 2-4).

Ci sono dei pastori che sono, di fatto, ritornati al servizio delle mense. Si occupano di ogni sorta di problemi materiali, economici, amministrativi, talvolta perfino agricoli, che esistono nella loro comunità (anche quando si potrebbero benissimo lasciarli fare da altri), e trascurano il loro vero, insostituibile servizio. Il servizio della Parola esige ore di lettura, studio, preghiera.

Subito dopo aver spiegato agli apostoli il significato della lavanda dei piedi, Gesù disse loro: “Sapendo queste cose sarete beati se le metterete in pratica” (Gv 13, 17). Anche noi saremo beati, se non ci accontenteremo di sapere queste cose – e cioè che l’Eucaristia ci spinge al servizio e alla condivisione –, ma le metteremo in pratica, possibilmente a cominciare da oggi stesso. L’Eucaristia non è solo un mistero da consacrare, da ricevere e da adorare; è anche un mistero da imitare.

Dobbiamo però, prima di concludere, richiamare una verità che abbiamo sottolineato in tutte le nostre riflessioni sull’Eucaristia, e cioè l’azione dello Spirito Santo! Guardiamoci dal ridurre il dono al dovere! Noi non abbiamo ricevuto soltanto il comando di lavarci i piedi e di servirci: abbiamo ricevuto la grazia di poterlo fare. Il servizio è un carisma e come tutti i carismi esso è “una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune” (1Cor 12, 7); “Ciascuno viva secondo il dono (charisma!) ricevuto, mettendolo a servizio degli altri”, dice l’apostolo Pietro nella sua Prima Lettera (1Pt 4,10). Il dono precede il dovere e ne rende possibile il compimento. È questa “la buona notizia” – il Vangelo – di cui l’Eucaristia è la consolante memoria quotidiana.

Santo Padre, venerabili padri, fratelli e sorelle, grazie del benevolo ascolto e i miei più vivi auguri per una buona Settimana Santa e una felice Pasqua!

[1]Tommaso d’Aquino, S.Th., III, q.60, a. 2,2.

[2]Agostino, Sermo 112 (PL 38, 643).

[3]Paolo VI, Mysterium fidei (AAS 57, 1965, p. 753 ss).

[4]Giustino, I Apologia, 67, 3-4.

[5]Dei Verbum, 12.

[6]Agostino, Commento alla Prima lettera di Giovanni, 3, 13.

[7]/1. Ignazio d’Antiochia, Lettera ai Magnesii, 10,3.

[8]/2.J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, vol .II, LEV, Roma 2011, p.132-163; cf. L. Bouyer, Eucharistie. Théologie et spiritualità de la prière eucharistique. Desclée, Tournai 1966 (trad. ital. Eucaristia. Teologia e spiritualità della Preghiera eucaristica, LDC, Torino 1983.

[9]/3. Agostino, Confessioni, X, 43.

[10]/4.R. Girard, Des choses cachées depuis la fondation du monde, Grasset, Paris 1978.

[11]/5.Agostino, De civitate Dei, X, 6.

[12]/6.In Diario spirituale di una madre di famiglia, a cura di M.-M. Philipon, Roma, Città Nuova, 1985, p. 117.

[13]/7.Lumen gentium, 10-11.

[14]/8. Ignazio d’Antiochia, Ai Romani, 4, 1.

[15]/1. Cf Agostino, Confessioni, VII, 10.

[16]/2.Leone Magno, Sermone 12 sulla Passione, 7 (CCL 138A, p. 388).

[17]/3.Ilario di Poitiers, De Trinitate, 8, 16 (PL 10, 248): “Eius tantum in se adsumptam habens carnem, qui suam sumpserit”.

[18]/4.Elisabetta della Trinità, Lettera 261, alla mamma (in Scritti, Roma 1967, p. 457).

[19]/5.N. Cabasilas, Vita in Cristo, IV, 6 (PG 150, 613).

[20]/6.Ilario, De Trinitate, VIII, 13-16 (PL 10, 246 ss).

[21]/7.Ireneo, Adversus haereses, III, 24, 1.

[22]/8.Agostino, Sermo Denis 6 (PL 46, 834 s.).

[23]/9.Cf. S. Agostino, Commento alla Prima Lettera di Giovanni, 10,8.

[24]/10.Vita di Pascal, in B. Pascal, Oeuvres complètes, Parigi 1954, pp. 3 ss.

[25]/1. AMBROGIO, De sacramentis, IV, 14-16 (PL 16, 439 ss).

[26]/2. Cf TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae III, q. 75, a. 4.

[27]/3. TEODORO DI MOPSUESTIA, Omelie catechetiche, XVI, 11 s (Studi e Testi 145, pp. 551 s).

[28]/4. Cf. Atti del colloquio di Marburgo del 1529 (Opere di Lutero, ed. di Weimar, 30, 3, p. 110 ss).

[29]/5. GREGORIO NISSENO, Sul Cantico, XI, 5, 2 (PG 44, 1001) .

[30]/1. S. Isacco di Ninive, Discorsi ascetici, 4, Città Nuova, Roma 1984, p. 89.

[31]/2. Bernardo di Chiaravalle, Lodi della Vergine, I, 8.

[32]/3. Cf. Tertulliano, De baptismo, 1 (CCL I, p. 277).

[33]/4. Cf. A. Manzoni, I Promessi Sposi, cap. 38.