Discorso del Pontefice durante l’incontro con il Comitato Direttivo del CELAM
Ecco la traduzione ufficiale del discorso che giovedì 7 settembre 2017 papa Francesco ha rivolto ai membri dell’organismo che raggruppa le 22 Conferenze Episcopali dell’America Latina e dei Caraibi (Comitato Direttivo del CELAM – Consiglio Episcopale Latinoamericano.
L’attuale presidente è il cardinale arcivescovo di Bogotá, Rubén Salazar Gómez.
Cari fratelli,
grazie per questo incontro e per le calorose parole di benvenuto del Presidente della Conferenza dell’Episcopato Latinoamericano. Avrei voluto incontrarvi nella sede del CELAM, ma non ho potuto per le esigenze del programma, molto fitto. Vi ringrazio per la cortesia di essere qui in questo momento.
Ringrazio per lo sforzo che fate per trasformare questa Conferenza Episcopale continentale in una casa di servizio della comunione e della missione della Chiesa in America Latina; in un centro propulsore della coscienza di discepoli e missionari; in un punto di riferimento vitale per la comprensione e l’approfondimento della “cattolicità latinoamericana”, delineata gradualmente da questo organismo di comunione durante decenni di servizio. E l’occasione mi è propizia per incoraggiare i recenti sforzi per poter esprimere tale sollecitudine collegiale mediante il “Fondo di Solidarietà della Chiesa Latinoamericana”.
Quattro anni fa, a Rio de Janeiro, ho avuto l’opportunità di parlarvi dell’eredità pastorale di Aparecida, ultimo evento sinodale della Chiesa Latinoamericana e dei Caraibi. In quella circostanza sottolineavo la permanente necessità di imparare dal suo metodo, basato essenzialmente sulla partecipazione delle Chiese locali e in sintonia con i pellegrini che camminano in cerca del volto umile di Dio che volle manifestarsi nella “Vergine pescata nelle acque”, e che si prolunga nella missione continentale, la quale vuol essere non la somma di iniziative programmatiche che riempiono le agende e disperdono anche energie preziose, bensì lo sforzo per porre la missione di Gesù nel cuore della Chiesa stessa, trasformandola in criterio per misurare l’efficacia delle strutture, i risultati del lavoro, la fecondità dei suoi ministri e la gioia che essi sono capaci di suscitare. Perché senza gioia non si attira nessuno.
Mi soffermai allora sulle tentazioni, ancora presenti, della ideologizzazione del messaggio evangelico, del funzionalismo ecclesiale e del clericalismo, perché c’è sempre in gioco la salvezza che Cristo ci porta. Questa deve arrivare al cuore dell’uomo con la forza di interpellare la sua libertà, invitandolo a un esodo permanente dalla propria autoreferenzialità verso la comunione con Dio e con i fratelli.
Dio, quando parla all’uomo in Gesù, non lo fa con un generico richiamo come a un estraneo, né con una convocazione impersonale alla maniera di un notaio, neanche con una dichiarazione di precetti da eseguire come fa qualsiasi funzionario del sacro. Dio parla con la voce inconfondibile del Padre che si rivolge al figlio, e rispetta il suo mistero perché lo ha formato con le sue stesse mani e lo ha destinato alla pienezza. La nostra più grande sfida come Chiesa è parlare all’uomo come portavoce di questa intimità di Dio, che lo considera un figlio, anche quando rinnega tale paternità, perché per Lui siamo sempre figli ritrovati.
Non si può, pertanto, ridurre il Vangelo a un programma al servizio di uno gnosticismo di moda, a un progetto di ascesa sociale o a una visione della Chiesa come burocrazia che si autopromuove, né tantomeno questa si può ridurre a un’organizzazione diretta, con moderni criteri aziendali, da una casta clericale.
La Chiesa è la comunità dei discepoli di Gesù; la Chiesa è Mistero e Popolo (Lumen gentium, 5; 9), o meglio ancora: in essa si realizza il Mistero attraverso il Popolo di Dio.
Perciò ho insistito sul discepolato missionario come una chiamata divina per questo oggi complesso e carico di tensioni, un “permanente uscire” con Gesù per conoscere come e dove vive il Maestro. E mentre usciamo in sua compagnia conosciamo la volontà del Padre, che sempre ci attende. Solo una Chiesa Sposa, Madre, Serva, che ha rinunciato alla pretesa di controllare quello che non è opera sua ma di Dio, può rimanere con Gesù anche quando il suo nido e il suo rifugio è la croce.
Vicinanza e incontro sono gli strumenti di Dio che, in Cristo, si è avvicinato e ci ha incontrato sempre. Il mistero della Chiesa è realizzarsi come sacramento di questa divina vicinanza e luogo permanente di questo incontro. Da qui la necessità della vicinanza del Vescovo a Dio, perché in Lui si trova la fonte della libertà e della forza del cuore del Pastore, così come della vicinanza al Popolo Santo che gli è stato affidato. In questa vicinanza l’anima dell’apostolo impara a rendere tangibile la passione di Dio per i suoi figli.
Aparecida è un tesoro la cui scoperta è ancora incompleta. Sono sicuro che ognuno di voi scopre quanto si è radicata la sua ricchezza nelle Chiese che portate nel cuore. Come i primi discepoli mandati da Gesù nel suo progetto missionario, anche noi possiamo raccontare con entusiasmo “tutto quanto abbiamo fatto” (cf. Mc 6, 30).
Tuttavia, è necessario stare attenti. Le realtà indispensabili della vita umana e della Chiesa non sono mai un monumento ma un patrimonio vivo. Risulta molto più comodo trasformarle in ricordi di cui si celebrano gli anniversari – 50 anni di Medellín!, 20 di Ecclesia in America!, 10 di Aparecida! – Invece è un’altra cosa: custodire e fare scorrere la ricchezza di tale patrimonio (pater-munus) costituiscono il munus della nostra paternità episcopale verso la Chiesa del nostro Continente.
Sapete bene che la rinnovata consapevolezza che all’inizio di tutto c’è sempre l’incontro con Cristo vivo richiede che i discepoli coltivino la familiarità con Lui; diversamente il volto del Signore si offusca, la missione perde forza, la conversione pastorale retrocede. Pregare e coltivare il rapporto con Lui è, pertanto, l’attività più improrogabile della nostra missione pastorale.
Ai suoi discepoli entusiasti della missione compiuta, Gesù disse: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto» (Mc 6, 31). Noi abbiamo ancora più bisogno di questo “stare soli con il Signore” per ritrovare il cuore della missione della Chiesa in America Latina nelle attuali circostanze. C’è tanta dispersione interiore e anche esteriore! I numerosi eventi, la frammentazione della realtà, l’istantaneità e la velocità del presente, potrebbero farci cadere nella dispersione e nel vuoto. Ritrovare l’unità è un imperativo.
Dove si trova l’unità? Sempre in Gesù. Ciò che rende permanente la missione non è l’entusiasmo che infiamma il cuore generoso del missionario, benché sempre necessario; piuttosto è la compagnia di Gesù mediante il suo Spirito. Se non partiamo con Lui in missione, ben presto perderemo la strada, rischiando di confondere le nostre vane necessità con la sua causa. Se la ragione del nostro andare non è Lui, sarà facile scoraggiarsi in mezzo alla fatica del cammino, o di fronte alla resistenza dei destinatari della missione, o davanti ai mutevoli scenari delle circostanze che segnano la storia, o per la stanchezza dei piedi dovuta all’insidioso logorio provocato dal “nemico”.
Non fa parte della missione cedere allo scoraggiamento, quando forse, passato l’entusiasmo degli inizi, arriva il momento in cui toccare la carne di Cristo diventa molto duro. In una situazione come questa, Gesù non fomenta le nostre paure. E poiché sappiamo bene che da nessun altro possiamo andare perché solo Lui ha «parole di vita eterna» (Gv 6, 68), è necessario di conseguenza approfondire la nostra chiamata.
Che cosa significa concretamente andare con Gesù in missione oggi in America Latina? L’avverbio “concretamente” non è un dettaglio stilistico, ma appartiene al nucleo della domanda. Il Vangelo è sempre concreto, mai un esercizio di sterili speculazioni. Conosciamo bene la ricorrente tentazione di perdersi nel bizantinismo dei “dottori della legge”, di domandarsi fino a che punto si può arrivare senza perdere il controllo del proprio territorio delimitato o del presunto potere che i limiti garantiscono.
Molto si è detto circa “la Chiesa in stato permanente di missione”. Uscire, partire con Gesù è la condizione di questa realtà. Uscire, sì, ma con Gesù. Il Vangelo parla di Gesù che, essendo uscito dal Padre, percorre con i suoi i campi e i villaggi di Galilea. Non si tratta di un percorso inutile del Signore. Mentre cammina, incontra; quando incontra, si avvicina; quando si avvicina, parla; quando parla, tocca col suo potere; quando tocca, cura e salva. Condurre al Padre coloro che incontra è la meta del suo permanente uscire, sul quale dobbiamo riflettere continuamente e fare un esame di coscienza. La Chiesa deve riappropriarsi dei verbi che il Verbo di Dio coniuga nella sua missione divina. Uscire per incontrare, senza passare oltre; chinarsi senza noncuranza; toccare senza paura. Si tratta di mettersi giorno per giorno nel lavoro sul campo, lì dove vive il Popolo di Dio che vi è stato affidato. Non ci è lecito lasciarci paralizzare dall’aria condizionata degli uffici, dalle statistiche e dalle strategie astratte. Bisogna rivolgersi alla persona nella sua situazione concreta; da essa non possiamo distogliere lo sguardo. La missione si realizza sempre in un corpo a corpo.
Una Chiesa capace di essere sacramento di unità
Si vede tanta dispersione intorno a noi! E non mi riferisco solamente a quella della ricca diversità che ha sempre caratterizzato il continente, ma alle dinamiche di disgregazione. Bisogna stare attenti a non farsi prendere da queste trappole. La Chiesa non sta in America Latina come se avesse le valige in mano, pronta a partire dopo averla saccheggiata, come hanno fatto tanti nel corso del tempo. Quanti operano così guardano con senso di superiorità e disprezzo il suo volto meticcio; pretendono di colonizzare la sua anima con le stesse formule, fallite e riciclate, sulla visione dell’uomo e della vita; ripetono uguali ricette uccidendo il paziente mentre arricchiscono i medici che li mandano; ignorano le ragioni profonde che abitano nel cuore del popolo e che lo rendono forte proprio nei suoi sogni, nei suoi miti, malgrado i numerosi disincanti e fallimenti; manipolano politicamente e tradiscono le loro speranze, lasciando dietro di sé terra bruciata e il terreno pronto per l’eterno ritorno dello stesso, anche quando si ripresenti con un vestito nuovo. Uomini e utopie forti hanno promesso soluzioni magiche, risposte istantanee, effetti immediati. La Chiesa, senza pretese umane, rispettosa del multiforme volto del continente, che considera non uno svantaggio ma una perenne ricchezza, deve continuare a prestare l’umile servizio al vero bene dell’uomo latinoamericano. Deve lavorare senza stancarsi per costruire ponti, abbattere muri, integrare la diversità, promuovere la cultura dell’incontro e del dialogo, educare al perdono e alla riconciliazione, al senso di giustizia, al ripudio della violenza e al coraggio della pace. Nessuna costruzione duratura in America Latina può prescindere da questo fondamento invisibile ma essenziale.
La Chiesa conosce come pochi quell’unità sapienziale che precede qualunque realtà in America Latina. Convive quotidianamente con quel patrimonio morale su cui poggia l’edificio esistenziale del continente. Sono sicuro che, mentre sto parlando di questo voi, potreste dare un nome a questa realtà. Con essa dobbiamo continuamente dialogare. Non possiamo perdere il contatto con questo substrato morale, con questo humus vitale che abita nel cuore della nostra gente e in cui si percepisce la mescolanza quasi indistinta, ma al tempo stesso eloquente, del suo volto meticcio: non unicamente indigeno, né ispanico, né lusitano, né afroamericano, ma meticcio, latinoamericano!
Guadalupe e Aparecida sono manifestazioni programmatiche di questa creatività divina. Sappiamo bene che ciò fa parte del fondamento su cui poggia la religiosità popolare del nostro popolo; fa parte della sua singolarità antropologica; è un dono con cui Dio ha voluto farsi conoscere alla nostra gente. Le pagine più luminose della storia della nostra Chiesa sono state scritte proprio quando abbiamo saputo nutrirci di questa ricchezza, parlare a questo cuore nascosto che palpita custodendo, come un piccolo fuocherello acceso sotto apparenti ceneri, il senso di Dio e della sua trascendenza, la sacralità della vita, il rispetto per il creato, i legami di solidarietà, la gioia di vivere, la capacità di essere felici senza condizioni.
Per parlare a questa anima che è profonda, per parlare all’America Latina profonda, alla Chiesa non resta altra strada che imparare continuamente da Gesù. Dice il Vangelo che Egli parlava solo in parabole (cf. Mc 4, 34). Immagini che coinvolgono e rendono partecipi, che trasformano quanti ascoltano la sua Parola in personaggi dei suoi racconti divini. Il santo Popolo fedele di Dio in America Latina non comprende altro linguaggio su di Lui. Siamo invitati ad andare in missione non con freddi concetti che si accontentano del possibile, ma con immagini che continuamente moltiplicano e dispiegano le loro forze nel cuore dell’uomo, trasformandolo in grano seminato nella terra buona, in lievito che aumenta la sua capacità di trarre il pane dalla massa, in seme che nasconde la potenzialità della pianta feconda.
Una Chiesa capace di essere sacramento di speranza
Molti si lamentano di un certo deficit di speranza nell’America Latina di oggi. A noi non è permessa la “ombrosità lamentosa”, perché la speranza che abbiamo viene dall’alto. Inoltre, sappiamo bene che il cuore latinoamericano è stato addestrato alla speranza. Come diceva un cantautore brasiliano: «La speranza è equilibrista; danza sull’instabile corda con il suo ombrello» (João Bosco, L’ubriaco e l’equilibrista). Quando si pensa che sia esaurita, eccola qui nuovamente dove meno ce l’aspettavamo. Il nostro popolo ha imparato che nessuna delusione è in grado di piegarlo. Segue Cristo flagellato e mite, sa aspettare che il cielo si rischiari e sta saldo nella speranza della sua vittoria, perché – in fondo – è consapevole di non appartenere totalmente a questo mondo.
È fuor di dubbio che la Chiesa in queste terre sia in modo particolare un sacramento di speranza, ma è necessario vigilare sulla concretizzazione di questa speranza. Tanto più trascendente quanto più deve trasformare il volto immanente di quelli che la possiedono. Vi prego di vigilare sulla concretizzazione della speranza, e permettetemi di ricordarvi alcuni dei suoi volti già visibili in questa Chiesa latinoamericana.
La speranza in America Latina ha un volto giovane
Si parla spesso dei giovani – si declamano statistiche sul continente del futuro –; alcuni riportano notizie sulla loro presunta decadenza e su quanto siano assopiti, altri approfittano del loro potenziale come consumatori, non pochi propongono loro il ruolo di manovalanza dello spaccio della droga e della violenza. Non lasciatevi catturare da simili caricature sui giovani. Guardateli negli occhi e cercate in loro il coraggio della speranza. Non è vero che sono pronti a ripetere il passato. Aprite loro spazi concreti nelle Chiese particolari a voi affidate, investite tempo e risorse nella loro formazione. Proponete programmi educativi incisivi e obiettivi da realizzare, chiedendo loro, come i genitori chiedono ai figli, di mettere in atto le loro potenzialità ed educando il loro cuore alla gioia della profondità, non della superficialità. Non accontentatevi della retorica o di scelte scritte nei piani pastorali e mai messe in pratica.
Ho pensato a Panamá, l’istmo di questo continente, per la giornata Mondiale della Gioventù del ‘19, che sarà celebrata seguendo l’esempio della Vergine che proclama: «Ecco la serva» e «avvenga per me» (Lc 1, 38). Sono sicuro che in ogni giovane si nasconde un “istmo”, nel cuore di tutti i nostri ragazzi c’è un pezzo di terreno stretto e allungato che si può percorrere per condurli verso un futuro che solo Dio conosce e a Lui appartiene. Tocca a noi presentare loro grandi proposte per suscitare in essi il coraggio di rischiare insieme a Dio e di rendersi, come la Vergine, disponibili.
La speranza in America Latina ha un volto femminile
Non è necessario che mi dilunghi per parlare del ruolo della donna nel nostro continente e nella nostra Chiesa. Dalle sue labbra abbiamo imparato la fede; quasi con il latte del suo seno abbiamo acquisito i tratti della nostra anima meticcia e l’immunità di fronte ad ogni disperazione. Penso alle madri indigene o “morenas”, penso alle donne delle città con il loro triplo turno di lavoro, penso alle nonne catechiste, penso alle consacrate e alle così discrete “artigiane” del bene. Senza le donne la Chiesa del continente perderebbe la forza di rinascere continuamente. Sono le donne che, con meticolosa pazienza, accendono e riaccendono la fiamma della fede. È un serio dovere comprendere, rispettare, valorizzare, promuovere la forza ecclesiale e sociale di quanto le donne realizzano. Hanno accompagnato Gesù missionario; non si sono allontanate dai piedi della croce; in solitudine hanno aspettato che la notte della morte restituisse il Signore della vita; hanno inondato il mondo con l’annuncio della sua presenza risuscitata. Se vogliamo una fase nuova e vitale della fede in questo continente, non la otterremo senza le donne. Per favore, non possono essere ridotte a serve del nostro recalcitrante clericalismo; esse sono, invece, protagoniste nella Chiesa latinoamericana: nel loro uscire con Gesù; nel loro perseverare, anche nelle sofferenze del suo Popolo; nel loro aggrapparsi alla speranza che vince la morte; nel loro gioioso modo di annunciare al mondo che Cristo è vivo, ed è risorto.
La speranza in America Latina passa attraverso il cuore, la mente e le braccia dei laici
Vorrei ribadire quanto recentemente ho detto alla Pontificia Commissione per l’America Latina. È indispensabile superare il clericalismo che rende infantili i Christifideles laici e impoverisce l’identità dei ministri ordinati.
Anche se si è compiuto un notevole sforzo e alcuni passi sono stati fatti, le grandi sfide del continente rimangono sul tavolo e continuano ad attendere l’attuazione serena, responsabile, competente, lungimirante, articolata, consapevole, di un laicato cristiano che, in quanto credente, sia disposto a contribuire: nei processi di un autentico sviluppo umano, nel consolidamento della democrazia politica e sociale, nel superamento strutturale della povertà endemica, nella costruzione di una prosperità inclusiva fondata su riforme durature e capaci di tutelare il bene sociale, nel superare le disuguaglianze e salvaguardare la stabilità, nel delineare modelli di sviluppo economico sostenibili che rispettino la natura e il vero futuro dell’uomo – che non si esaurisce nel consumismo illimitato –, come pure nel rifiuto della violenza e nella difesa della pace.
Di più: in questo senso la speranza deve sempre vedere il mondo con gli occhi dei poveri e a partire dalla situazione dei poveri. Essa è povera come il chicco di grano che muore (cf. Gv 12, 24), ma che ha la forza di spargere i piani di Dio.
La ricchezza autosufficiente spesso priva la mente umana della capacità di vedere, sia la realtà del deserto sia le oasi che vi sono nascoste. Propone risposte da manuale e ripete certezze da talkshow; balbetta la proiezione di se stessa, vuota, senza avvicinarsi minimamente alla realtà. Sono sicuro che in questo difficile e confuso, ma provvisorio momento che viviamo, le soluzioni dei problemi complessi che ci sfidano nascono dalla semplicità cristiana che si nasconde ai potenti e si mostra agli umili: la purezza della fede nel Risorto, il calore della comunione con Lui, la fraternità, la generosità e la solidarietà concreta che pure sgorgano dall’amicizia con Lui.
Tutto questo lo vorrei riassumere in una espressione che vi lascio come sintesi, sintesi e ricordo di questo incontro. Se vogliamo servire, come CELAM, la nostra America Latina, dobbiamo farlo con passione. Oggi c’è bisogno di passione. Mettere il cuore in tutto quello che facciamo. Passione del giovane innamorato e dell’anziano saggio, passione che trasforma le idee in utopie praticabili, passione nel lavoro delle nostre mani, passione che ci trasforma in incessanti pellegrini nelle nostre Chiese come – permettetemi di ricordarlo – san Toribio di Mogrovejo, che non si installò nella sua sede: di 24 anni di episcopato, 18 li passò nei paesini della sua diocesi. Fratelli, per favore, vi chiedo passione, passione evangelizzatrice.
Affido voi, fratelli Vescovi del CELAM, le Chiese locali che rappresentate e l’intero popolo dell’America Latina e dei Caraibi, vi affido alla protezione della Vergine, invocata con i nomi di Guadalupe e Aparecida, con la serena certezza che Dio, che ha parlato a questo continente con il volto meticcio e moreno di sua Madre, non mancherà di far risplendere la sua luce benigna nella vita di tutti. Grazie.
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