8 MARZO 2024
Continuiamo la nostra riflessione sui grandi “Io Sono” di Cristo nel Vangelo di Giovanni. Questa volta Gesù non si presenta a noi con simboli di realtà fisiche inanimate – il pane, la luce –, ma con un personaggio umano, il pastore: “Io – dice- sono il buon pastore!”. Ascoltiamo la parte del discorso in cui è contenuta l’auto-proclamazione di Cristo:
«Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore» (Gv 10, 11-15).
L’immagine di Cristo “buon Pastore” ha un posto privilegiato nell’arte e nelle iscrizioni paleocristiane. Il Buon Pastore è presentato, secondo il modulo classico, nello splendore della giovinezza. Porta sulle spalle la pecora che tiene ben salda per le zampe. L’immagine giovannea del buon pastore è ormai fusa per sempre con quella sinottica del pastore che va in cerca della pecorella smarrita (Lc 15, 4-7).
Il contesto del brano sul buon pastore è lo stesso dei due capitoli precedenti e cioè la discussione con “i giudei” che ha luogo a Gerusalemme, in occasione della festa delle Capanne. Ma in Giovanni si sa che il contesto conta relativamente, perché, diversamente dai Sinottici, egli non è preoccupato di darci un resoconto storico e coerente della vita di Gesù (che sembra dare per conosciuto), ma un insieme di “segni” e di insegnamenti del Maestro. Questi tuttavia non appaiono mai fuori del tempo e dello spazio, come avviene nei libri di teologia, ma anch’essi situati in luoghi e tempi precisi (a volte più precisi degli stessi Sinottici) che conferiscono ad essi un valore “storico” nel senso più profondo del termine.
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Diciamocelo pure: l’immagine del buon pastore, e quelle connesse di pecora e di gregge, non sono davvero di moda oggigiorno. Non teme, Gesù, chiamandoci sue pecore, di urtare la nostra sensibilità e di offendere la nostra dignità di uomini liberi? L’uomo d’oggi rifiuta sdegnosamente il ruolo di pecora e l’idea di gregge. Non si accorge però di come, nella realtà, egli viva la situazione che condanna nella teoria. Uno dei fenomeni più evidenti della nostra società è la massificazione. Stampa, televisione, internet, si chiamano “mezzi di comunicazione di massa”, mass-media, non solo perché informano le masse, ma anche perché le formano, massificano.
Senza accorgersene, ci si lascia guidare supinamente da ogni sorta di manipolazione e di persuasione occulta. Altri creano modelli di benessere e di comportamento, ideali e obbiettivi di progresso, e la gente li adotta; si va dietro, timorosi di perdere il passo, condizionati e plagiati dalla pubblicità. Mangiamo quello che ci dicono, vestiamo come impone la moda, parliamo come sentiamo parlare. Noi ci divertiamo quando si vede scorrere un filmato a passo accelerato, con le persone che si muovono a scatti, rapidamente, come marionette; ma è l’immagine che avremmo di noi stessi se ci guardassimo con occhio meno superficiale.
Per capire in che senso Gesù si proclama il buon pastore e chiama noi le sue pecore, bisogna rifarsi alla storia biblica. Israele fu, all’inizio, un popolo di pastori nomadi. I Beduini del deserto ci danno oggi un’idea di quella che fu un tempo la vita delle tribù d’Israele. In questa società, il rapporto tra pastore e gregge non è solo di tipo economico, basato sull’interesse. Si sviluppa un rapporto quasi personale tra il pastore e il gregge. Giornate e giornate passate insieme in luoghi solitari, senza anima viva intorno. Il pastore finisce per conoscere tutto di ogni pecora; la pecora riconosce la voce del pastore che spesso parla a voce alta alle pecore, come fossero persone. Questo spiega come mai, per esprimere il suo rapporto con l’umanità, Dio si è servito di questa immagine, oggi divenuta ambigua. “Tu, pastore d’Israele”, ascolta, tu che guidi Giuseppe come un gregge”, prega il salmista (Sal 80, 2).
ùCon il passaggio dalla situazione di tribù nomadi a quella di popolo sedentario, il titolo di pastore viene dato, per estensione, anche a quelli che fanno le veci di Dio in terra: i re, i sacerdoti, i capi in genere. Ma in questo caso il simbolo si scinde: non evoca più solo immagini di protezione, di sicurezza, ma anche quelle di sfruttamento e di oppressione. Accanto all’immagine del buon pastore, fa la sua comparsa quella del cattivo pastore. Nel profeta Ezechiele troviamo una terribile requisitoria contro i cattivi pastori che pascolano solo se stessi; si nutrono di latte, si vestono di lana, ma non si curano minimamente delle pecore che trattano anzi “con crudeltà e violenza” (cf. Ez 34, 1ss.). A questa requisitoria contro i cattivi pastori, segue una promessa: Dio stesso un giorno si prenderà cura amorevole del suo gregge:
«Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata» (Ez 34, 16).
Gesù, nel Vangelo, riprende questo schema del buono e del cattivo pastore, ma con una novità. “Io – dice – sono il buon pastore!”. La promessa di Dio è diventata realtà, superando ogni attesa.
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A questo punto, dobbiamo richiamare alla mente l’intento che ci siamo proposti con queste meditazioni: un intento personale più che “pastorale”, far penetrare il Vangelo nella nostra vita, per poterlo poi annunciare al mondo con più credibilità.
Il discorso di Gesù ha due attori: il pastore e il gregge, cioè, al singolare ogni singola pecorella. Con quale dei due ci identificheremo? Sant’Agostino, nel giorno anniversario della sua ordinazione episcopale, diceva al popolo: “Per voi io sono vescovo, con voi sono un cristiano!”: “vobis sum episcopus, vobiscum sum christianus”[1]. E in altra occasione: “Nei vostri confronti siamo come pastori, ma rispetto al sommo Pastore siamo delle pecore come voi”[2]. Dimentichiamo, dunque, il nostro ruolo – voi di pastori e io di predicatore – e sentiamoci per una volta soltanto e unicamente pecorelle del gregge. Ricordiamo la domanda che sta a cuore a Gesù nel dialogo di Cesarea: “Per voi chi sono io?”. Come dicesse: “Dimenticate per un momento chi sono per la gente e concentratevi su voi stessi”.
Il grande psicologo Carlo Gustavo Jung definisce lo psichiatra: “A wounded healer”: un guaritore malato. Il senso della sua teoria è che bisogna conoscere le proprie ferite psicologiche per curare quelle degli altri e che conoscere le ferite degli altri aiuta a curare le proprie. L’intuizione dello psicanalista vale anche per le ferite spirituali. Il pastore della Chiesa è anche lui un “wounded healer”, un malato che deve aiutare gli altri a guarire.
Cerchiamo di vedere qual è la principale malattia di cui dobbiamo curarci, per curare altri.
Qual è la cosa che, da un capo all’altro della Bibbia, viene inculcata alle pecore nei confronti di Dio-Pastore? È di non avere paura! Le parole si affollano nella memoria, a questo punto, cominciando da quelle di Gesù: “Non temere, piccolo gregge” (Lc 12, 32), “Perché avete paura, gente di poca fede”, disse agli apostoli, dopo aver sedato la tempesta” (Mt 8, 26). Ricordiamo anche alcune parole familiari dei salmi, non come semplici citazioni bibliche, ma facendoli nostri ora mentre li ascoltiamo:
“Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla…
Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me” (Sal 23, 1.4).
“Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò timore?
Il Signore è difesa della mia vita,
di chi avrò terrore?” (Sal 27,1).
Parliamo dunque di questo “male oscuro” della paura che ha tanto potere di rubare agli uomini e alle donne la gioia di vivere. La paura è la nostra condizione esistenziale; essa ci accompagna dall’infanzia alla morte. Il bambino ha paura di tante cose; li chiamiamo terrori infantili; l’adolescente ha paura dell’altro sesso e si avviluppa a volte in complessi di timidezza e di inferiorità; Gesù ha dato un nome alle principali nostre paure di adulti: paura del domani – “che mangeremo?”- (Mt 6, 31), paura del mondo e dei potenti, – “coloro che uccidono il corpo” (Mt 10, 28). Su ognuna di queste paure ha pronunciato il suo: Nolite timere! Questa non è una parola vuota e impotente; è una parola efficace, quasi sacramentale. Come tutte le parole di Gesù, opera ciò che significa; non è come il semplice: “Fatti coraggio! “ che ci diciamo, l’un l’altro, noi esseri umani.
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Ma che cos’è la paura? Lasciamo da parte l’angoscia esistenziale di cui disquisiscono i filosofi da un secolo e mezzo a questa parte. Parliamo delle paure comuni e familiari. Possiamo dire che la paura è la reazione a una minaccia al nostro essere, la risposta a un pericolo vero o presunto: dal pericolo più grande di tutti che è quello della morte, ai pericoli particolari che minacciano o la tranquillità, o la incolumità fisica, o il nostro mondo affettivo. La paura è una manifestazione del nostro istinto fondamentale di conservazione. A seconda che si tratti di pericoli oggettivi e reali, o immaginari, si parla di paure giustificate e ingiustificate, o addirittura di nevrosi: claustrofobia, agorafobia, paura di malattie immaginarie, e via dicendo.
La psicologia e la psicanalisi cercano di curare paure e nevrosi analizzandole e portandole dall’inconscio al conscio. Il Vangelo non distoglie da questi mezzi umani, anzi li incoraggia, ma aggiunge qualcosa che nessuna scienza può dare. San Paolo scrive: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?… Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati” (Rm 8, 35.37). La liberazione non è, qui, in una idea o in una tecnica, ma in una persona! Il “ solvente “ di ogni paura è Cristo che ha detto ai suoi discepoli: “Non abbiate paura, io ho vinto il mondo” (Gv 16, 33).
Dall’ambito personale, l’Apostolo allarga poi lo sguardo sul grande scenario dello spazio e del tempo, dalle piccole paure individuali passa a quelle grandi e universali . Scrive:
“Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8, 38-39).
“Né morte, né vita!”. Cristo ha vinto la cosa che ci fa più paura al mondo, la morte. Di lui, la Lettera agli Ebrei, dice che è morto “per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per timore della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2, 14-15).
“Né altezza, né profondità”, che è come dire: né l’infinitamente grande che è l’universo con le proporzioni che vanno sempre più dilatandosi, né l’infinitamente piccolo – l’atomo – di cui abbiamo scoperto, a nostro rischio, la terribile potenza. Oggi siamo più che mai esposti a questo genere di paure cosmiche. L’uomo moderno avverte acutamente la sua vulnerabilità in un mondo violento e impazzito. Che ne sarà dell’avvenire del nostro pianeta se, nonostante i gridi di allarme del Papa e delle persone più responsabili della società, continuiamo, a briglie sciolte, a consumare e inquinare?
Al termine delle sue riflessioni filosofiche sul pericolo della tecnica per l’uomo moderno, Martin Heidegger, quasi gettando la spugna, esclamava: “Solo un dio ci può salvare!”[3]. “Un dio” (lettera minuscola!) è il solito modo mitico per parlare di qualcosa che sta sopra di noi. Noi togliamo l’articolo indeterminativo e diciamo “solo Dio” (e sappiamo quale Dio!) ci può salvare!”.
Non è uno scaricare su Dio le nostre responsabilità, ma credere, che, alla fine, “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” [e che Dio ama!] (cf. Rm 8, 28). Quando si ha a che fare con Dio, la misura è l’eternità. Si può essere delusi nel tempo, ma non per l’eternità. Noi cristiani abbiamo un motivo ben più forte del salmista per ripetere, davanti agli sconvolgimenti fisici e morali del mondo:
“Dio è per noi rifugio e forza,
aiuto sempre vicino nelle angosce.
Perciò non temiamo se trema la terra,
se crollano i monti nel fondo del mare” (Sal 46).
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Ma non abbiamo preso ancora in considerazione la cosa più consolante che il Vangelo ha da dirci sulle nostre paure e angosce! Dopo avere, in mille modi, esortato i suoi discepoli a non temere, egli ha fatto qualcosa d’altro. Mai si era sentito dire, nella Bibbia, che il pastore buono dà la vita per le sue pecorelle. Che le conosce, le guida, le cura, le difende: questo sì; ma non che dà la vita per esse. Gesù ha promesso di farlo e lo ha fatto!
Egli ha preso su di sé le nostre paure. Dice l’autore della Lettera agli Ebrei: “Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte” (Eb 5, 7). L’autore allude a quello che avvenne in Gesù nella notte del Getsemani. L’Evangelista Marco dice che nell’Orto degli ulivi Gesù “cominciò a sentire paura e angoscia e disse ai discepoli: La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate” (Mc 14, 33-34). Gesù si sente solo, tagliato fuori dal consorzio umano; chiede agli apostoli di stargli vicino, di rimanere con lui. La stessa Lettera agli Ebrei mette in luce il messaggio consolante racchiuso per noi in questa misteriosa pagina del Vangelo:
«Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.
Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno» (Eb 4, 15-16).
Prendendole su di sé, Gesù ha redento anche le nostre paure e angosce. “Dalle sue piaghe siamo stati guariti”, dice di lui la Scrittura (Is 53, 5-6; 1Pt 2, 24). Gesù è il vero “wounded healer”, di cui parlava lo psicologo, il piagato che guarisce le piaghe. Ha fatto delle paure e delle angosce occasioni di crescita in umanità e in comprensione degli altri.
Ma neppure questo esaurisce ciò che il Vangelo ha da dirci circa le nostre paure. Se tutto finisse qui, la nostra consolazione sarebbe ancora incompleta. Avremmo davanti agli occhi un eroico e commovente esempio da seguire, ma non una mano che ci sostiene. Ma ecco il secondo grande annuncio del Vangelo: il guaritore trafitto è risorto da morte e ha detto: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20). Non ci ha dato solo l’esempio di come vincere l’angoscia; ci ha dato il mezzo per vincerla: la sua presenza e la sua grazia. A Paolo che si rattristava a causa della sua “spina nella carne”, il Risorto risponde: “Ti basta la mia grazia!” (2Cor 12, 9).
I martiri ne hanno fatto – e ne fanno tuttora!- l’esperienza tangibile. Negli Atti dei martiri cartaginesi, uccisi sotto l’imperatore Settimio Severo nei primi anni del III secolo, (tra i più attendibili, storicamente, tra tutti gli Atti dei martiri!), si legge che una di essi, di nome Felicita, era incinta all’ottavo mese e nei dolori del parto gemeva, nel carcere, per il dolore. Uno dei custodi le disse: “Se ti lamenti adesso, che farai quando sarai gettata alle fiere nell’arena?” E lei in risposta: “Adesso sono io a soffrire, allora un altro soffrirà per me!”[4].
Abbiamo un esempio più vicino a noi. In carcere e alla vigilia di essere impiccato, in seguito al fallito colpo di stato contro Hitler, il Pastore Dietrich Bonhoeffer, scrisse questi versi che vengono spesso usati come inno liturgico:
«Da forze amiche a meraviglia avvolti
attendiamo con calma l’avvenire.
Dio è con noi di sera e di mattino,
sarà con noi in ogni giorno nuovo»[5].
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Ci siamo imposti di non parlare, in queste meditazioni, di quello che dobbiamo fare per gli altri, ma solo di quello che Gesù è e fa per noi: di identificarci con le pecorelle, non con il pastore. Ma una piccola eccezione dobbiamo farla in questa occasione. Nonostante tutte le esortazioni del Vangelo, non sempre è in nostro potere liberarci dalla paura e dall’angoscia. In compenso, è in nostro potere liberare qualcun altro (o aiutarlo a liberarsi) da esse.
Pascal ha scritto nel suo Memoriale: “Gesù è in agonia fino alla fine del mondo e non bisogna lasciarlo solo in tutto questo tempo”[6]. Egli continua ad essere in agonia perché, nella dimensione dell’eternità in cui è entrato, non esiste più un passato, ma tutto è misteriosamente presente, anche la sua notte nel Getsemani. Ma è in agonia anche in un altro modo meno misterioso. Lo è nel suo corpo mistico: in coloro che sono oppressi dall’angoscia e dalla paura a causa della solitudine, delle malattie, della persecuzione, dell’esilio, della guerra. Siamo noi ora gli occhi, la bocca e le mani di Cristo. Cerchiamo con essi di recare conforto a qualcuno di loro e ci sentiremo dire nel cuore: “L’avete fatto a me!” (Mt 25, 40). Dobbiamo essere anche noi – pastori o semplici credenti – altrettanti wounded healers, poveri malati che guariscono gli altri.
Termino con un aneddoto che molti, penso, conoscono, ma che ci aiuta a incidere in noi l’immagine di Gesù che ci porta sulle spalle nei momenti difficili della nostra vita. Parla di un uomo che in sogno rivede tutta la sua vita. Ecco un breve riassunto della storia:
«Cammino sulla sabbia in riva al mare, lasciando dietro di me, non uno ma due paia di orme. Capisco che il secondo paio sono le orme di Gesù che cammina al mio fianco e sono felice. Ma ecco che, a un certo punto, quel secondo paio scompare e sulla sabbia si vedono soltanto le orme di due piedi. Questo, capisco, avviene proprio in corrispondenza ai momenti più bui e difficili della mia vita. Me ne lamento e dico: “Signore, mi hai lasciato solo proprio quando avevo più bisogno di te!” “Figliolo – mi risponde Gesù – quel solo paio di orme erano le mie. Tu eri sulle mie spalle!”».
[1] Agostino, Sermo 340, 1 (PL 38,1483).
[2] Agostino, Espos. sui Salmi, 126, 3.
[3] Martin Heidegger, Antwort. Martin Heidegger im Gespräch, Gesamtausgabe, vol. 16, Frankfurt 1975.
[4] Passio Sanctarum Perpetuae et Felicitatis, XV (Ed. C.J. von Beek, Bonn 1938).
[5] Von guten Mächten wunderbar geborgen /erwarten wir getrost, was kommen mag.
Gott ist mit uns am Abend und am Morgen / und ganz gewiss an jedem neuen Tag.
[6] B. Pascal, Pensieri, 553, ed. Br.