VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO IN PORTOGALLO
IN OCCASIONE DELLA XXXVII GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ

37a GMG LISBONA (2-6 AGOSTO 2023)

Mercoledì, 2 agosto 2023

INCONTRO CON LE AUTORITÀ, CON LA SOCIETÀ CIVILE

E CON IL CORPO DIPLOMATICO

Centro Culturale di Belém (Lisbona)

Signor Presidente della Repubblica,
Signor Presidente dell’Assemblea della Repubblica,
Signor Primo Ministro,
Membri del Governo e del Corpo diplomatico,
Autorità, Rappresentanti della società civile e del mondo della cultura,
Signore e Signori!

Vi saluto cordialmente e ringrazio il Signor Presidente per l’accoglienza e per le cortesi parole che mi ha rivolto – è molto accogliente il Presidente, grazie! Sono felice di essere a Lisbona, città dell’incontro che abbraccia vari popoli e culture e che diventa in questi giorni ancora più universale; diventa, in un certo senso, la capitale del mondo, la capitale del futuro, perché i giovani sono futuro. Ciò ben si adatta al suo carattere multietnico e multiculturale – penso al quartiere Mouraria, dove vivono in armonia persone provenienti da più di sessanta Paesi – e rivela il tratto cosmopolita del Portogallo, che affonda le radici nel desiderio di aprirsi al mondo e di esplorarlo, navigando verso orizzonti nuovi e più vasti.

Non lontano da qui, a Cabo da Roca, è scolpita la frase di un grande poeta di questa città: «Aqui… onde a terra se acaba e o mar começa» (L. Vaz de Camões, Os Lusíadas, VIII). Per secoli si credeva che lì vi fosse il confine del mondo, e in un certo senso è vero: ci troviamo ai confini del mondo perché questo Paese confina con l’oceano, che delimita i continenti. Lisbona ne porta l’abbraccio e il profumo. Mi piace associarmi a quanto amano cantare i portoghesi: «Lisboa tem cheiro de flores e de mar» (A. Rodrigues, Cheira bem, cheira a Lisboa, 1972). Un mare che è molto più di un elemento paesaggistico, è una chiamata impressa nell’animo di ogni portoghese: «mar sonoro, mar sem fundo, mar sem fin» l’ha chiamato una poetessa locale (S. de Mello Breyner Andresen, Mar sonoro). Davanti all’oceano, i portoghesi riflettono sugli immensi spazi dell’anima e sul senso della vita nel mondo. E anch’io, lasciandomi trasportare dall’immagine dell’oceano, vorrei condividere alcuni pensieri.

Secondo la mitologia classica, Oceano è figlio del cielo (Urano): la sua vastità porta i mortali a guardare in alto e a elevarsi verso l’infinito. Ma, al contempo, Oceano è figlio della terra (Gea) che abbraccia, invitando così ad avvolgere di tenerezza l’intero mondo abitato. L’oceano, infatti, non collega solo popoli e Paesi, ma terre e continenti; perciò Lisbona, città dell’oceano, richiama all’importanza dell’insieme, a pensare i confini come zone di contatto, non come frontiere che separano. Sappiamo che oggi le grandi questioni sono globali, eppure spesso sperimentiamo l’inefficacia nel rispondervi proprio perché davanti a problemi comuni il mondo è diviso, o per lo meno non abbastanza coeso, incapace di affrontare unito ciò che mette in crisi tutti. Sembra che le ingiustizie planetarie, le guerre, le crisi climatiche e migratorie corrano più veloci della capacità, e spesso della volontà, di fronteggiare insieme tali sfide.

Lisbona può suggerire un cambio di passo. Qui nel 2007 è stato firmato l’omonimo Trattato di riforma dell’Unione Europea. Esso afferma che «l’Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli» (Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione Europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea, art. 1,4/2.1); ma va oltre, asserendo che «nelle relazioni con il resto del mondo […] contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all’eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani» (art. 1,4/2.5). Non sono solo parole, ma pietre miliari per il cammino della comunità europea, scolpite nella memoria di questa città. Ecco lo spirito dell’insieme, animato dal sogno europeo di un multilateralismo più ampio del solo contesto occidentale.

Secondo un’etimologia discussa, il nome Europa deriverebbe proprio da una parola che indica la direzione di occidente. È certo invece che Lisbona è la capitale più a ovest dell’Europa continentale. Essa richiama dunque la necessità di aprire vie di incontro più vaste, come il Portogallo già fa, soprattutto con Paesi di altri continenti accomunati dalla stessa lingua. Auspico che la Giornata Mondiale della Gioventù sia, per il “vecchio continente” – possiamo dire l’“anziano” continente -, un impulso di apertura universale, cioè un impulso di apertura che lo renda più giovane. Perché di Europa, di vera Europa, il mondo ha bisogno: ha bisogno del suo ruolo di pontiere e di paciere nella sua parte orientale, nel Mediterraneo, in Africa e in Medio Oriente. Così l’Europa potrà apportare, all’interno dello scenario internazionale, la sua specifica originalità, delineatasi nel secolo scorso quando, dal crogiuolo dei conflitti mondiali, fece scoccare la scintilla della riconciliazione, inverando il sogno di costruire il domani con il nemico di ieri, di avviare percorsi di dialogo, percorsi di inclusione, sviluppando una diplomazia di pace che spenga i conflitti e allenti le tensioni, capace di cogliere i segnali di distensione più flebili e di leggere tra le righe più storte.

Nell’oceano della storia, stiamo navigando in un frangente tempestoso e si avverte la mancanza di rotte coraggiose di pace. Guardando con accorato affetto all’Europa, nello spirito di dialogo che la caratterizza, verrebbe da chiederle: verso dove navighi, se non offri percorsi di pace, vie creative per porre fine alla guerra in Ucraina e ai tanti conflitti che insanguinano il mondo? E ancora, allargando il campo: quale rotta segui, Occidente? La tua tecnologia, che ha segnato il progresso e globalizzato il mondo, da sola non basta; tanto meno bastano le armi più sofisticate, che non rappresentano investimenti per il futuro, ma impoverimenti del vero capitale umano, quello dell’educazione, della sanità, dello stato sociale. Preoccupa quando si legge che in tanti luoghi si investono continuamente fondi sulle armi anziché sul futuro dei figli. E questo è vero. Mi diceva l’economo, alcuni giorni fa, che il migliore reddito di investimenti è nella fabbricazione di armi. Si investe più sulle armi che sul futuro dei figli. Io sogno un’Europa, cuore d’Occidente, che metta a frutto il suo ingegno per spegnere focolai di guerra e accendere luci di speranza; un’Europa che sappia ritrovare il suo animo giovane, sognando la grandezza dell’insieme e andando oltre i bisogni dell’immediato; un’Europa che includa popoli e persone con la loro propria cultura, senza rincorrere teorie e colonizzazioni ideologiche. E questo ci aiuterà a pensare ai sogni dei padri fondatori dell’Unione europea: questi sognavano alla grande!

L’oceano, immensa distesa d’acqua, richiama le origini della vita. Nel mondo evoluto di oggi è divenuto paradossalmente prioritario difendere la vita umana, messa a rischio da derive utilitariste, che la usano e la scartano: la cultura dello scarto della vita. Penso a tanti bambini non nati e anziani abbandonati a sé stessi, alla fatica di accogliere, proteggere, promuovere e integrare chi viene da lontano e bussa alle porte, alla solitudine di molte famiglie in difficoltà nel mettere al mondo e crescere dei figli. Verrebbe anche qui da dire: verso dove navigate, Europa e Occidente, con lo scarto dei vecchi, i muri col filo spinato, le stragi in mare e le culle vuote? Verso dove navigate? Dove andate se, di fronte al male di vivere, offrite rimedi sbrigativi e sbagliati, come il facile accesso alla morte, soluzione di comodo che appare dolce, ma in realtà è più amara delle acque del mare? E penso a tante leggi sofisticate sull’eutanasia.

Lisbona, abbracciata dall’oceano, ci dà però motivo di sperare, è città della speranza. Un oceano di giovani si sta riversando in quest’accogliente città; e io vorrei ringraziare per il grande lavoro e il generoso impegno profusi dal Portogallo per ospitare un evento così complesso da gestire, ma fecondo di speranza. Come si dice da queste parti: «Accanto ai giovani, uno non invecchia». Giovani provenienti da tutto il mondo, che coltivano i desideri dell’unità, della pace e della fraternità, giovani che sognano ci provocano a realizzare i loro sogni di bene. Non sono nelle strade a gridare rabbia, ma a condividere la speranza del Vangelo, la speranza della vita. E se da molte parti oggi si respira un clima di protesta e insoddisfazione, terreno fertile per populismi e complottismi, la Giornata Mondiale della Gioventù è occasione per costruire insieme. Rinverdisce il desiderio di creare novità, di prendere il largo e navigare insieme verso il futuro. Vengono in mente alcune parole ardite di Pessoa: «Navigare è necessario, vivere non è necessario […]; quello che serve è creare» (Navegar é preciso). Diamoci dunque da fare con creatività per costruire insieme! Immagino tre cantieri di speranza in cui possiamo lavorare tutti uniti: l’ambiente, il futuro, la fraternità.

L’ambiente. Il Portogallo condivide con l’Europa tanti sforzi esemplari per la protezione del creato. Ma il problema globale rimane estremamente serio: gli oceani si surriscaldano e i loro fondali portano a galla la bruttezza con cui abbiamo inquinato la casa comune. Stiamo trasformando le grandi riserve di vita in discariche di plastica. L’oceano ci ricorda che la vita dell’uomo è chiamata ad armonizzarsi con un ambiente più grande di noi, che va custodito, va custodito con premura, pensando alle giovani generazioni. Come possiamo dire di credere nei giovani, se non diamo loro uno spazio sano per costruire il futuro?

Il futuro è il secondo cantiere. E il futuro sono i giovani. Ma tanti fattori li scoraggiano, come la mancanza di lavoro, i ritmi frenetici in cui sono immersi, l’aumento del costo della vita, la fatica a trovare un’abitazione e, ancora più preoccupante, la paura di formare famiglie e mettere al mondo dei figli. In Europa e, più in generale, in Occidente, si assiste a una fase discendente della curva demografica: il progresso sembra una questione riguardante gli sviluppi della tecnica e gli agi dei singoli, mentre il futuro chiede di contrastare la denatalità e il tramonto della voglia di vivere. La buona politica può fare molto in questo, può essere generatrice di speranza. Essa, infatti, non è chiamata a detenere il potere, ma a dare alla gente il potere di sperare. È chiamata, oggi più che mai, a correggere gli squilibri economici di un mercato che produce ricchezze, ma non le distribuisce, impoverendo di risorse e certezze gli animi. È chiamata a riscoprirsi generatrice di vita e di cura, a investire con lungimiranza sull’avvenire, sulle famiglie e sui figli, a promuovere alleanze intergenerazionali, dove non si cancelli con un colpo di spugna il passato, ma si favoriscano i  legami tra giovani e anziani. Questo dobbiamo riprenderlo: il dialogo tra giovani e anziani. A questo richiama il sentimento della saudade portoghese, la quale esprime una nostalgia, un desiderio di bene assente, che rinasce solo a contatto con le proprie radici. I giovani devono trovare le proprie radici negli anziani. In tal senso è importante l’educazione, che non può solo impartire nozioni tecniche per progredire economicamente, ma è destinata a immettere in una storia, a consegnare una tradizione, a valorizzare il bisogno religioso dell’uomo e a favorire l’amicizia sociale.

L’ultimo cantiere di speranza è quello della fraternità, che noi cristiani impariamo dal Signore Gesù Cristo. In tante parti del Portogallo il senso del vicinato e la solidarietà sono molto vivi. Però, nel contesto generale di una globalizzazione che ci avvicina, ma non ci dà la prossimità fraterna, tutti siamo chiamati a coltivare il senso della comunità, a partire dalla ricerca di chi ci abita accanto. Perché, come notò Saramago, «ciò che dà il vero senso all’incontro è la ricerca, e bisogna fare molta strada per raggiungere ciò che è vicino» (Todos os nomes, 1997). Com’è bello riscoprirci fratelli e sorelle, lavorare per il bene comune lasciando alle spalle contrasti e diversità di vedute! Anche qui ci sono d’esempio i giovani che, con il loro grido di pace e la loro voglia di vita, ci portano ad abbattere i rigidi steccati di appartenenza eretti in nome di opinioni e credo diversi. Ho saputo di tanti giovani che qui coltivano il desiderio di farsi prossimi; penso all’iniziativa Missão País, che porta migliaia di ragazzi a vivere nello spirito del Vangelo esperienze di solidarietà missionaria nelle zone periferiche, specialmente nei villaggi all’interno del Paese, andando a trovare molti anziani soli, e questo è un’ “unzione” per la gioventù. Vorrei ringraziare e incoraggiare, accanto ai tanti che nella società portoghese si occupano degli altri, la Chiesa locale, che fa tanto bene, lontana dalla luce dei riflettori.

Fratelli e sorelle, sentiamoci tutti insieme chiamati, fraternamente, a dare speranza al mondo in cui viviamo e a questo magnifico Paese. Deus abençoe Portugal!

VESPRI CON I VESCOVI, I SACERDOTI, I DIACONI,
I CONSACRATI, LE CONSACRATE, I SEMINARISTI E GLI OPERATORI PASTORALI

Mosteiro dos Jerónimos” (Lisbona)

Cari fratelli Vescovi,
cari sacerdoti e diaconi, consacrate, consacrati e seminaristi,
cari operatori pastorali, fratelli e sorelle, buonasera!

Sono felice di essere tra voi per vivere insieme a tanti giovani la Giornata Mondiale della Gioventù, ma anche per condividere il vostro cammino ecclesiale, le vostre fatiche e le vostre speranze. Ringrazio Monsignor José Ornelas Carvalho per le parole che mi ha rivolto; desidero pregare con voi perché, come ha detto, possiamo diventare, insieme ai giovani, audaci nell’abbracciare “il sogno di Dio e nel trovare vie per una partecipazione gioiosa, generosa e trasformatrice, per la Chiesa e per l’umanità”. E questo non è uno scherzo, è un programma.

Mi sono immerso nella bellezza del vostro Paese, terra di passaggio tra il passato e il futuro, luogo di antiche tradizioni e di grandi cambiamenti, impreziosito da valli rigogliose e da spiagge dorate affacciate sulla sconfinata bellezza dell’oceano, che costeggia il Portogallo. Ciò mi riporta al contesto della prima chiamata dei discepoli, che Gesù chiamò sulle rive del Mare di Galilea. Vorrei soffermarmi su questa chiamata, che evidenzia quanto abbiamo appena ascoltato nella Lettura breve dei Vespri: il Signore ci ha salvati e ci ha chiamati non in base alle nostre opere, ma secondo la sua grazia (cfr 2Tm 1,9). Questo è accaduto nella vita dei primi discepoli quando Gesù, passando, «vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti» (Lc 5,2). Gesù allora salì sulla barca di Simone e, dopo aver parlato alle folle, cambiò la vita di quei pescatori invitandoli a prendere il largo e a gettare le reti. Notiamo subito un contrasto: da una parte, i pescatori scendono dalla barca per lavare le reti, cioè per pulirle, conservarle bene e tornare a casa; dall’altra parte, Gesù sale sulla barca e invita a gettare di nuovo le reti per la pesca. Risaltano le differenze: i discepoli scendono, Gesù sale; loro vogliono conservare le reti, Lui vuole che si gettino nuovamente in mare per la pesca.

Anzitutto, ci sono i pescatori che scendono dalla barca per lavare le reti. Questa è la scena che si presenta agli occhi di Gesù e Lui si ferma proprio lì. Aveva da poco iniziato la sua predicazione nella sinagoga di Nazaret, ma i suoi compaesani lo avevano cacciato fuori dalla città e avevano persino cercato di ucciderlo (cfr Lc 4,28-30). Allora Egli esce dal luogo sacro e inizia a predicare la Parola tra la gente, sulle strade dove le donne e gli uomini del suo tempo faticano ogni giorno. A Cristo interessa portare la vicinanza di Dio proprio nei luoghi e nelle situazioni in cui le persone vivono, lottano, sperano, talvolta stringendo tra le mani fallimenti e insuccessi, proprio come quei pescatori che nella notte non avevano preso nulla. Gesù guarda con tenerezza Simone e i suoi compagni che, stanchi e amareggiati, lavano le loro reti, compiendo un gesto ripetitivo, automatico, ma anche affaticato e rassegnato: non restava che tornare a casa a mani vuote.

A volte, nel nostro cammino ecclesiale, si può provare una stanchezza simile. Stanchezza. Qualcuno diceva: “Temo la stanchezza dei buoni”. Una stanchezza quando ci sembra di stringere tra le mani solo delle reti vuote. È un sentimento piuttosto diffuso nei Paesi di antica tradizione cristiana, attraversati da molti cambiamenti sociali e culturali e sempre più segnati dal secolarismo, dall’indifferenza nei confronti di Dio, da un crescente distacco dalla pratica della fede – e qui c’è il pericolo che entri la mondanità –. E ciò è spesso accentuato dalla delusione o dalla rabbia che alcuni nutrono nei confronti della Chiesa, talvolta per la nostra cattiva testimonianza e per gli scandali che ne hanno deturpato il volto, e che chiamano a una purificazione umile e costante, a partire dal grido di dolore delle vittime, sempre da accogliere e da ascoltare. Ma, quando ci si sente scoraggiati – e ciascuno di voi pensi in quale momento ha provato scoraggiamento –, il rischio è quello di scendere dalla barca, restando impigliati nelle reti della rassegnazione e del pessimismo. Invece, abbiamo fiducia che Gesù continua a tendere la mano, a sostenere la sua amata Sposa. Portiamo al Signore le nostre fatiche e le nostre lacrime, per poi affrontare le situazioni pastorali e spirituali confrontandoci con apertura di cuore e sperimentando insieme qualche nuova via da seguire. Quando ci scoraggiamo, più o meno consapevolmente, ci mettiamo “in pensione”, in pensione dallo zelo apostolico, lo andiamo perdendo e ci trasformiamo in funzionari del sacro. È molto triste quando una persona che ha consacrato la sua vita a Dio si trasforma in funzionario, in mero amministratore delle cose. È molto triste.

Infatti, appena gli apostoli scendono a lavare gli strumenti utilizzati, Gesù sale sulla barca e poi invita a gettare di nuovo le reti. Nel momento dello scoraggiamento, del “pensionamento”, lasciamo che Gesù salga di nuovo sulla barca, con la speranza dei primi tempi, quella speranza che dev’essere ravvivata, riconquistata, ri-editata. Lui viene a cercarci nelle nostre solitudini e nelle nostre crisi per aiutarci a ricominciare. La spiritualità del ricominciare. Non abbiate paura. Così è la vita: cadere e ricominciare, stancarsi e ricevere di nuovo la gioia. Ricevere la mano da Gesù. Anche oggi passa sulle rive dell’esistenza per risvegliare la speranza e dire anche a noi, come a Simone e gli altri: «Prendi il largo e gettate le reti per la pesca» (Lc 5,4). E quando si perde la speranza, ci vengono mille giustificazioni per non gettare le reti; ma soprattutto quella rassegnazione amara, che è come un verme che guasta l’anima. Fratelli e sorelle, quello che viviamo è certamente un tempo difficile, lo sappiamo, ma il Signore oggi chiede a questa Chiesa: “Vuoi scendere dalla barca e sprofondare nella delusione, oppure farmi salire e permettere che sia ancora una volta la novità della mia Parola a prendere in mano il timone? Tu, sacerdote, consacrato, consacrata, vescovo, vuoi solo conservare il passato che hai alle spalle oppure gettare nuovamente con entusiasmo le reti per la pesca?”. Ecco cosa ci domanda il Signore: di risvegliare l’inquietudine per il Vangelo.

Quando ci si abitua e ci si annoia e la missione si trasforma in una specie di “impiego”, è il momento di dare spazio alla seconda chiamata di Gesù, che ci chiama di nuovo, sempre. Ci chiama per farci camminare, ci chiama per rifarci di nuovo. Non abbiate paura di questa seconda chiamata di Gesù. Non è un’illusione, è Lui che viene a bussare alla porta. E possiamo dire che questa è l’inquietudine “buona”, quando ci lasciamo attrarre dalla seconda chiamata di Gesù, quell’inquietudine buona che l’immensità dell’oceano consegna a voi portoghesi: spingersi oltre la riva non per conquistare il mondo – né per pescare baccalà –, ma per allietarlo con la consolazione e la gioia del Vangelo. In quest’ottica si possono leggere le parole di un vostro grande missionario, Padre António Vieira, chiamato “Paiaçu”, padre grande: egli diceva che Dio vi ha dato una piccola terra per nascere ma, facendovi affacciare sull’oceano, vi ha dato il mondo intero per morire: «Per nascere, poca terra; per morire, tutta la terra: per nascere, Portogallo; per morire, il mondo» (A. Vieira, Omelie, Vol. III, Tomo VII, Porto 1959, p. 69). Gettare di nuovo le reti e abbracciare il mondo con la speranza del Vangelo: a questo siamo chiamati! Non è tempo di fermarsi, non è tempo di arrendersi, non è tempo di ormeggiare la barca a riva o di guardarsi indietro; non dobbiamo fuggire questo tempo perché ci spaventa e rifugiarci in forme e stili del passato. No, questo è il tempo di grazia che il Signore ci dà per avventurarci nel mare dell’evangelizzazione e della missione.

Per farlo, però, abbiamo anche bisogno di compiere delle scelte. Vorrei indicarvi tre scelte, ispirate al Vangelo.

Anzitutto, prendere il largo. La magnanimità. Non siate pusillanimi! Prendere il largo. Per gettare nuovamente le reti in mare, bisogna lasciare la riva delle delusioni e dell’immobilismo, prendere le distanze da quella tristezza dolciastra e da quel cinismo ironico che a volte ci assalgono dinanzi alle difficoltà. Tristezza dolciastra, cinismo ironico. Esaminiamo la coscienza su questo. Recuperare la speranza, ma una seconda edizione della speranza, la speranza matura, la speranza che viene dopo il fallimento o la stanchezza, Non è facile recuperare la speranza adulta. Bisogna farlo per passare dal disfattismo alla fede, come Simone che, pur avendo faticato a vuoto tutta la notte, dice: «Sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5,5). Ma, per fidarsi ogni giorno del Signore e della sua Parola, non bastano le parole, occorre tanta preghiera. E qui vorrei farvi una domanda, ma ciascuno risponda dentro di sé: come prego io? Come un pappagallo, bla, bla, bla, o facendo la siesta davanti al Tabernacolo perché non so come parlare con il Signore? Prego? Come prego? Solo in adorazione, solo davanti al Signore si ritrovano il gusto e la passione per l’evangelizzazione. È interessante: la preghiera di adorazione l’abbiamo perduta; e tutti, sacerdoti, vescovi, consacrate, consacrati devono recuperarla: rimanere in silenzio davanti al Signore. Madre Teresa, coinvolta in tante cose della vita, mai ha tralasciato l’adorazione, nemmeno nei momenti in cui la sua fede vacillava e si domandava se era tutto vero o no. Momenti di oscurità, che ha passato anche Teresina di Gesù Bambino. Allora, nella preghiera, si supera la tentazione di portare avanti una “pastorale della nostalgia e dei lamenti”. In un convento c’era una monaca – questo è accaduto realmente – che si lamentava di tutto, e non so che nome avesse, ma le monache le cambiarono il nome e la chiamavano “Suor lamentela”. Quante volte le nostre impotenze, le nostre delusioni le trasformiamo in lamentele! E abbandonando queste lamentele si riprende un’altra volta la forza per prendere il largo, senza ideologie, senza mondanità. La mondanità spirituale che entra in noi e dalla quale si genera il clericalismo. Clericalismo non solo dei preti: i laici clericalizzati sono peggio dei preti. Quel clericalismo che ci rovina. E, come diceva un gran maestro spirituale, questa mondanità spirituale – che provoca il clericalismo – è uno dei mali più gravi che possono capitare alla Chiesa. Superare queste difficoltà senza ideologie, senza mondanità, animati da un unico desiderio: che il Vangelo raggiunga tutti. Avete tanti esempi su questa strada e, visto che siamo immersi tra i giovani, mi piace ricordare un giovane di Lisbona, San João de Brito – era un ragazzo di qui –, che secoli fa, fra tante difficoltà, partì per l’India e cominciò a parlare e vestirsi allo stesso modo di chi incontrava pur di annunciare Gesù. Anche noi siamo chiamati a immergere le nostre reti nel tempo che viviamo, a dialogare con tutti, a rendere comprensibile il Vangelo, anche se per farlo possiamo rischiare qualche tempesta. Come i giovani che da tutto il mondo vengono qui a sfidare le onde giganti, anche noi andiamo al largo senza paura; non temiamo di affrontare il mare aperto, perché in mezzo alla tempesta e ai venti contrari ci viene incontro Gesù, che dice: “Coraggio, sono io, non abbiate paura!” (Mt 14,27)». Quante volte abbiamo fatto questa esperienza? Ognuno risponda dentro di sé. E se non l’abbiamo fatta, è perché qualcosa è andato storto durante la tempesta.

Una seconda scelta: portare avanti insieme la pastorale, tutti insieme. Nel testo Gesù affida a Pietro il compito di prendere il largo, ma poi parla al plurale, dicendo «gettate le reti» (Lc 5,4): Pietro guida la barca, ma sulla barca ci sono tutti e tutti sono chiamati a calare le reti. Tutti. E quando prendono una grande quantità di pesci, non pensano di farcela da soli, non gestiscono il dono come possesso e proprietà privata ma, dice il Vangelo, «fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli» (Lc 5,7). Così riempirono di pesci due barche. Uno significa solitudine, chiusura, pretesa di autosufficienza, due significa relazione. La Chiesa è sinodale, è comunione, aiuto reciproco, cammino comune. A questo tende il Sinodo in corso, che avrà il suo primo momento assembleare nel prossimo ottobre. Sulla barca della Chiesa ci dev’essere spazio per tutti: tutti i battezzati sono chiamati a salirvi e a gettare le reti, impegnandosi in prima persona nell’annuncio del Vangelo. E non dimenticate questa parola: tutti, tutti, tutti. Mi tocca molto il cuore, quando devo dire come aprire prospettive apostoliche, quel passo del Vangelo in cui la gente non va alla festa di nozze del figlio ed è tutto preparato. E che cosa dice il padrone, il padrone della festa cosa dice? “Andate ai crocicchi e portate qui tutti, tutti, tutti: sani, malati, piccoli e grandi, buoni e peccatori. Tutti”. La Chiesa non sia una dogana, per selezionare chi entra e chi no. Tutti, ciascuno con la sua vita sulle spalle, coi suoi peccati, così com’è, davanti a Dio, così com’è davanti alla vita… Tutti, tutti. Non mettiamo dogane nella Chiesa. Tutti. È una grande sfida, specialmente nei contesti in cui i sacerdoti e i consacrati sono affaticati perché, mentre aumentano le esigenze pastorali, sono sempre di meno. A questa situazione, però, possiamo guardare come un’occasione per coinvolgere, con slancio fraterno e sana creatività pastorale, i laici. Le reti dei primi discepoli, allora, diventano un’immagine della Chiesa, che è una “rete di relazioni” umane, spirituali e pastorali. Se non c’è dialogo, se non c’è corresponsabilità, se non c’è partecipazione, la Chiesa invecchia. Lo vorrei dire così: mai un Vescovo senza il proprio presbiterio e il Popolo di Dio; mai un prete senza i confratelli; e tutti insieme – sacerdoti, religiose, religiosi e fedeli laici – come Chiesa, mai senza gli altri, mai senza il mondo. Senza mondanità, ma non senza il mondo. Nella Chiesa ci si aiuta, ci si sostiene a vicenda e si è chiamati a diffondere anche fuori un clima di fraternità costruttivo. D’altronde, San Pietro scrive che siamo le pietre vive impiegate per la costruzione di un edificio spirituale (cfr 1 Pt 2,5). Vorrei aggiungere: voi fedeli portoghesi siete anche una “calçada”, siete le pietre pregiate di quel pavimento accogliente e splendente su cui il Vangelo ha bisogno di camminare: neanche una pietra può mancare, altrimenti si nota subito. Ecco la Chiesa che, con l’aiuto di Dio, siamo chiamati a costruire!

Infine, terza scelta: diventare pescatori di uomini. Non abbiate paura. Questo non è fare proslitismo, è annunciare il Vangelo che interpella. In questa immagine così bella di Gesù, essere pescatori di uomini, Egli affida ai discepoli la missione di prendere il largo nel mare del mondo. Spesso, nella Scrittura, il mare è associato al luogo del male e delle potenze avverse che gli uomini non riescono a dominare. Perciò, pescare le persone e tirarle fuori dall’acqua significa aiutarle a risalire da dove sono sprofondate, salvarle dal male che rischia di farle affogare, risuscitarle da ogni forma di morte. Questo però senza proselitismo, ma con amore. E uno dei segni che alcuni movimenti ecclesiali stanno andando male è il proselitismo. Quando un movimento ecclesiale o una diocesi, o un vescovo, o un prete, o una suora, o un laico fa proselitismo, questo non è cristiano. Cristiano è invitare, accogliere, aiutare, ma senza proselitismo. Il Vangelo, infatti, è un annuncio di vita nel mare della morte, di libertà nei gorghi della schiavitù, di luce nell’abisso delle tenebre. Come afferma Sant’Ambrogio, «gli strumenti della pesca apostolica sono come le reti: infatti le reti non fanno morire chi vi è preso, ma lo conservano in vita, lo traggono dagli abissi alla luce» (Exp. Luc. IV, 68-79). Ci sono tante oscurità nella società di oggi, anche qui in Portogallo, da tutte le parti. Abbiamo la sensazione che sia venuto a mancare l’entusiasmo, il coraggio di sognare, la forza di affrontare le sfide, la fiducia nel futuro; e, intanto, navighiamo nelle incertezze, nella precarietà soprattutto economica, nella povertà di amicizia sociale, nella mancanza di speranza. A noi, come Chiesa, è affidato il compito di immergerci nelle acque di questo mare calando la rete del Vangelo, senza puntare il dito, senza accusare, ma portando alle persone del nostro tempo una proposta di vita, quella di Gesù: portare l’accoglienza del Vangelo, invitare alla festa, in una società multiculturale; portare la vicinanza del Padre nelle situazioni di precarietà, di povertà che crescono, soprattutto tra i giovani; portare l’amore di Cristo dove la famiglia è fragile e le relazioni sono ferite; trasmettere la gioia dello Spirito dove regnano demoralizzazione e fatalismo. Un vostro scrittore ha scritto: «Per arrivare all’infinito, e credo che ci si possa arrivare, abbiamo bisogno di un porto, di uno soltanto, sicuro, e da lì partire verso l’Indefinito» (F. Pessoa, Livro do Desassossego, Lisboa 1998, 247). Sogniamo la Chiesa portoghese come un “porto sicuro” per chiunque affronta le traversate, i naufragi e le tempeste della vita!

Cari fratelli e sorelle: tutti, laici, religiosi, religiose, sacerdoti, vescovi, tutti, tutti, non abbiate paura, gettate le reti. Non vivete accusando: “questo è peccato, questo non è peccato”. Vengano tutti, poi parliamo, ma che sentano prima l’invito di Gesù e poi viene il pentimento, dopo viene la vicinanza di Gesù. Per favore, non fate diventare la Chiesa una dogana: qua si entra, i giusti, quelli che sono a posto, quelli che sono sposati bene, e là fuori tutti gli altri. No. La Chiesa non è questo. Giusti e peccatori, buoni e cattivi, tutti, tutti, tutti. E poi, che il Signore ci aiuti a risolvere la questione. Ma tutti. Vi ringrazio di cuore, fratelli e sorelle, per questo ascolto – che sarà stato noioso! –, vi ringrazio per ciò che fate, per l’esempio, soprattutto l’esempio nascosto, e per la costanza, l’alzarsi ogni giorno per ricominciare o continuare ciò che si è incominciato. Come dite voi: Muito obrigado! Per quello che fate… E vi affido alla Madonna di Fatima, alla custodia dell’angelo del Portogallo e alla protezione dei vostri grandi santi, specialmente, qui a Lisbona, di Sant’Antonio, instancabile apostolo – che si son rubati quelli di Padova –, ispirato predicatore, discepolo del Vangelo attento ai mali della società e pieno di compassione per i poveri: che Sant’Antonio interceda per voi e vi doni la gioia di una nuova pesca miracolosa. Poi mi racconterete. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!