La Lettera apostolica sulla formazione liturgica del popolo di Dio (riportata sotto). Al numero 62, si legge l’obiettivo del Papa: “Vorrei che questa lettera ci aiutasse a ravvivare lo stupore per la bellezza della verità del celebrare cristiano, a ricordare la necessità di una formazione liturgica autentica e a riconoscere l’importanza di un’arte della celebrazione che sia a servizio della verità del mistero pasquale e della partecipazione di tutti i battezzati, ciascuno con la specificità della sua vocazione. Tutta questa ricchezza non è lontana da noi: è nelle nostre chiese, nelle nostre feste cristiane, nella centralità della domenica, nella forza dei sacramenti che celebriamo. La vita cristiana è un continuo cammino di crescita: siamo chiamati a lasciarci formare con gioia e nella comunione”.
FRANCESCO, LETTERA APOSTOLICA DESIDERIO DESIDERAVI
AI VESCOVI, AI PRESBITERI E AI DIACONI,
ALLE PERSONE CONSACRATE E AI FEDELI LAICI
SULLA FORMAZIONE LITURGICA DEL POPOLO DI DIO
Desiderio desideravi
hoc Pascha manducare vobiscum,
antequam patiar (Lc 22, 15).
Carissimi fratelli e sorelle,
con questa lettera desidero raggiungere tutti – dopo aver già scritto ai soli vescovi in seguito alla pubblicazione del Motu Proprio Traditionis custodes – per condividere con voi alcune riflessioni sulla Liturgia, dimensione fondamentale per la vita della Chiesa. Il tema è molto vasto e merita un’attenta considerazione in ogni suo aspetto: tuttavia, con questo scritto non intendo trattare la questione in modo esaustivo. Voglio semplicemente offrire alcuni spunti di riflessione per contemplare la bellezza e la verità del celebrare cristiano.
La Liturgia: “oggi” della storia della salvezza
- “Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione” (Lc 22, 15). Le parole di Gesù con le quali si apre il racconto dell’ultima Cena sono lo spiraglio attraverso il quale ci viene data la sorprendente possibilità di intuire la profondità dell’amore delle Persone della Santissima Trinità verso di noi.
- Pietro e Giovanni erano stati mandati a preparare per poter mangiare la Pasqua, ma, a ben vedere, tutta la creazione, tutta la storia – che finalmente stava per rivelarsi come storia di salvezza – è una grande preparazione di quella Cena. Pietro e gli altri stanno a quella mensa, inconsapevoli eppure necessari: ogni dono per essere tale deve avere qualcuno disposto a riceverlo. In questo caso la sproporzione tra l’immensità del dono e la piccolezza di chi lo riceve, è infinita e non può non sorprenderci. Ciò nonostante – per misericordia del Signore – il dono viene affidato agli Apostoli perché venga portato ad ogni uomo.
- A quella Cena nessuno si è guadagnato un posto, tutti sono stati invitati, o, meglio, attratti dal desiderio ardente che Gesù ha di mangiare quella Pasqua con loro: Lui sa di essere l’Agnello di quella Pasqua, sa di essere la Pasqua. Questa è l’assoluta novità di quella Cena, la sola vera novità della storia, che rende quella Cena unica e per questo “ultima”, irripetibile. Tuttavia, il suo infinito desiderio di ristabilire quella comunione con noi, che era e che rimane il progetto originario, non si potrà saziare finché ogni uomo, di ogni tribù, lingua, popolo e nazione(Ap 5, 9) non avrà mangiato il suo Corpo e bevuto il suo Sangue: per questo quella stessa Cena sarà resa presente, fino al suo ritorno, nella celebrazione dell’Eucaristia.
- Il mondo ancora non lo sa, ma tutti sono invitati al banchetto di nozze dell’Agnello(Ap 19, 9). Per accedervi occorre solo l’abito nuziale della fede che viene dall’ascolto della sua Parola (cf. Rm 10, 17): la Chiesa lo confeziona su misura con il candore di un tessuto lavato nel Sangue dell’Agnello (cf. Ap 7, 14). Non dovremmo avere nemmeno un attimo di riposo sapendo che ancora non tutti hanno ricevuto l’invito alla Cena o che altri lo hanno dimenticato o smarrito nei sentieri contorti della vita degli uomini. Per questo ho detto che “sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione” (Evangelii gaudium, n. 27): perché tutti possano sedersi alla Cena del sacrificio dell’Agnello e vivere di Lui.
- Prima della nostra risposta al suo invito – molto prima – c’è il suo desiderio di noi: possiamo anche non esserne consapevoli, ma ogni volta che andiamo a Messa la ragione prima è perché siamo attratti dal suo desiderio di noi. Da parte nostra, la risposta possibile, l’ascesi più esigente, è, come sempre, quella dell’arrendersi al suo amore, del volersi lasciare attrarre da lui. Per certo ogni nostra comunione al Corpo e al Sangue di Cristo è stata da Lui desiderata nell’ultima Cena.
- Il contenuto del Pane spezzato è la croce di Gesù, il suo sacrificio in obbedienza d’amore al Padre. Se non avessimo avuto l’ultima Cena, vale a dire l’anticipazione rituale della sua morte, non avremmo potuto comprendere come l’esecuzione della sua condanna a morte potesse essere l’atto di culto perfetto e gradito al Padre, l’unico vero atto di culto. Poche ore dopo, gli Apostoli avrebbero potuto vedere nella croce di Gesù, se ne avessero sostenuto il peso, che cosa voleva dire “corpo offerto”, “sangue versato”: ed è ciò di cui facciamo memoria in ogni Eucaristia. Quando torna risorto dai morti per spezzare il pane per i discepoli di Emmaus e per i suoi tornati a pescare pesce – e non uomini – sul lago di Galilea, quel gesto apre i loro occhi, li guarisce dalla cecità inferta dall’orrore della croce, rendendoli capaci di “vedere” il Risorto, di credere alla Risurrezione.
- Se fossimo giunti a Gerusalemme dopo la Pentecoste e avessimo sentito il desiderio non solo di avere informazioni su Gesù di Nazareth, ma di poterlo ancora incontrare, non avremmo avuto altra possibilità se non quella di cercare i suoi per ascoltare le sue parole e vedere i suoi gesti, più vivi che mai. Non avremmo avuto altra possibilità di un incontro vero con Lui se non quella della comunità che celebra. Per questo la Chiesa ha sempre custodito come il suo più prezioso tesoro il mandato del Signore: “fate questo in memoria di me”.
- Fin da subito la Chiesa è stata consapevole che non si trattava di una rappresentazione, fosse pure sacra, della Cena del Signore: non avrebbe avuto alcun senso e nessuno avrebbe potuto pensare di “mettere in scena” – tanto più sotto gli occhi di Maria, la Madre del Signore – quel momento altissimo della vita del Maestro. Fin da subito la Chiesa ha compreso, illuminata dallo Spirito Santo, che ciò che era visibile di Gesù, ciò che si poteva vedere con gli occhi e toccare con le mani, le sue parole e i suoi gesti, la concretezza del Verbo incarnato, tutto di Lui era passato nella celebrazione dei sacramenti[1].
La Liturgia: luogo dell’incontro con Cristo
- Qui sta tutta la potente bellezza della Liturgia. Se la Risurrezione fosse per noi un concetto, un’idea, un pensiero; se il Risorto fosse per noi il ricordo del ricordo di altri, per quanto autorevoli come gli Apostoli, se non venisse data anche a noi la possibilità di un incontro vero con Lui, sarebbe come dichiarare esaurita la novità del Verbo fatto carne. Invece, l’incarnazione oltre ad essere l’unico evento nuovo che la storia conosca, è anche il metodo che la Santissima Trinità ha scelto per aprire a noi la via della comunione. La fede cristiana o è incontro con Lui vivo o non è.
- La Liturgia ci garantisce la possibilità di tale incontro. A noi non serve un vago ricordo dell’ultima Cena: noi abbiamo bisogno di essere presenti a quella Cena, di poter ascoltare la sua voce, mangiare il suo Corpo e bere il suo Sangue: abbiamo bisogno di Lui. Nell’Eucaristia e in tutti i sacramenti ci viene garantita la possibilità di incontrare il Signore Gesù e di essere raggiunti dalla potenza della sua Pasqua. La potenza salvifica del sacrificio di Gesù, di ogni sua parola, di ogni suo gesto, sguardo, sentimento ci raggiunge nella celebrazione dei sacramenti. Io sono Nicodemo e la Samaritana, l’indemoniato di Cafarnao e il paralitico in casa di Pietro, la peccatrice perdonata e l’emorroissa, la figlia di Giairo e il cieco di Gerico, Zaccheo e Lazzaro, il ladrone e Pietro perdonati. Il Signore Gesù che immolato sulla croce, più non muore, e con i segni della passione vive immortale[2] continua a perdonarci, a guarirci, a salvarci con la potenza dei sacramenti. È il modo concreto, per via di incarnazione, con il quale ci ama; è il modo con il quale sazia quella sete di noi che ha dichiarato sulla croce (Gv 19, 28).
- Il nostro primo incontro con la sua Pasqua è l’evento che segna la vita di tutti noi credenti in Cristo: il nostro battesimo. Non è un’adesione mentale al suo pensiero o la sottoscrizione di un codice di comportamento da Lui imposto: è l’immergersi nella sua passione, morte, risurrezione e ascensione. Non un gesto magico: la magia è l’opposto della logica dei sacramenti perché pretende di avere un potere su Dio e per questa ragione viene dal tentatore. In perfetta continuità con l’incarnazione, ci viene data la possibilità, in forza della presenza e dell’azione dello Spirito, di morire e risorgere in Cristo.
- Il modo in cui accade è commovente. La preghiera di benedizione dell’acqua battesimale[3]ci rivela che Dio ha creato l’acqua proprio in vista del battesimo. Vuol dire che mentre Dio creava l’acqua pensava al battesimo di ciascuno di noi e questo pensiero lo ha accompagnato nel suo agire lungo la storia della salvezza ogni volta che, con preciso disegno, ha voluto servirsi dell’acqua. È come se, dopo averla creata, avesse voluto perfezionarla per arrivare ad essere l’acqua del battesimo. E così l’ha voluta riempire del movimento del suo Spirito che vi aleggiava sopra (cf. Gen 1, 2) perché contenesse in germe la forza di santificare; l’ha usata per rigenerare l’umanità nel diluvio (cf. Gen 6, 1-9,29); l’ha dominata separandola per aprire una strada di liberazione nel Mar Rosso (cf. Es 14); l’ha consacrata nel Giordano immergendovi la carne del Verbo intrisa di Spirito (cf. Mt 3, 13-17; Mc 1, 9-11; Lc 3, 21-22). Infine, l’ha mescolata con il sangue del suo Figlio, dono dello Spirito inseparabilmente unito al dono della vita e della morte dell’Agnello immolato per noi, e dal costato trafitto l’ha effusa su di noi (Gv 19, 34). È in quest’acqua che siamo stati immersi perché per la sua potenza potessimo essere innestati nel Corpo di Cristo e con Lui risorgere alla vita immortale (cf. Rm 6, 1-11).
La Chiesa: sacramento del Corpo di Cristo
- Come il Concilio Vaticano IIci ha ricordato (cf. Sacrosanctum Concilium, n. 5) citando la Scrittura, i Padri e la Liturgia – le colonne della vera Tradizione – dal costato di Cristo dormiente sulla croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa[4]. Il parallelo tra il primo e il nuovo Adamo è sorprendente: come dal costato del primo Adamo, dopo aver fatto scendere su di Lui un torpore, Dio trasse Eva, così dal costato del nuovo Adamo, addormentato nel sonno della morte, nasce la nuova Eva, la Chiesa. Lo stupore è per le parole che possiamo pensare che il nuovo Adamo faccia sue guardando la Chiesa: “Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne” (Gen 2, 23). Per aver creduto alla Parola ed essere scesi nell’acqua del battesimo, noi siamo diventati osso dalle sue ossa, carne dalla sua carne.
- Senza questa incorporazione non vi è alcuna possibilità di vivere la pienezza del culto a Dio. Infatti, uno solo è l’atto di culto perfetto e gradito al Padre, l’obbedienza del Figlio la cui misura è la sua morte in croce. L’unica possibilità per poter partecipare alla sua offerta è quella di diventare figli nel Figlio. È questo il dono che abbiamo ricevuto. Il soggetto che agisce nella Liturgia è sempre e solo Cristo-Chiesa, il Corpo mistico di Cristo.
Il senso teologico della Liturgia
- Dobbiamo al Concilio – e al movimento liturgico che l’ha preceduto – la riscoperta della comprensione teologica della Liturgia e della sua importanza nella vita della Chiesa: i principi generali enunciati dalla SacrosanctumConcilium così come sono stati fondamentali per l’intervento di riforma, continuano ad esserlo per la promozione di quella partecipazione piena, consapevole, attiva e fruttuosa alla celebrazione (cf. Sacrosanctum Concilium, nn. 11. 14), “prima e indispensabile fonte dalla quale i fedeli possono attingere il genuino spirito cristiano” (Sacrosanctum Concilium, n. 14). Con questa lettera vorrei semplicemente invitare tutta la Chiesa a riscoprire, custodire e vivere la verità e la forza della celebrazione cristiana. Vorrei che la bellezza del celebrare cristiano e delle sue necessarie conseguenze nella vita della Chiesa, non venisse deturpata da una superficiale e riduttiva comprensione del suo valore o, ancor peggio, da una sua strumentalizzazione a servizio di una qualche visione ideologica, qualunque essa sia. La preghiera sacerdotale di Gesù nell’ultima Cena perché tutti siano una cosa sola (Gv 17, 21), giudica ogni nostra divisione attorno al Pane spezzato, sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità[5].
La Liturgia: antidoto al veleno della mondanità spirituale
- Ho più volte messo in guardia rispetto ad una pericolosa tentazione per la vita della Chiesa che è la “mondanità spirituale”: ne ho parlato diffusamente nell’Esortazione Evangelii gaudium(nn. 93-97), individuando nello gnosticismo e nel neo-pelagianesimo i due modi tra loro connessi che la alimentano.
Il primo riduce la fede cristiana in un soggettivismo che chiude l’individuo “nell’immanenza della propria ragione o dei suoi sentimenti” (Evangelii gaudium, n. 94).
Il secondo annulla il valore della grazia per confidare solo sulle proprie forze, dando luogo “ad un elitarismo narcisista e autoritario, dove invece di evangelizzare si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare” (Evangelii gaudium, n. 94).
Queste forme distorte del cristianesimo possono avere conseguenze disastrose per la vita della Chiesa.
- Da quanto ho voluto sopra ricordare risulta evidente che la Liturgia è, per la sua stessa natura, l’antidoto più efficace contro questi veleni. Ovviamente parlo della Liturgia nel suo senso teologico e non certo – già Pio XII lo affermava– come cerimoniale decorativo o mera somma di leggi e di precetti che regolano il culto[6].
- Se lo gnosticismo ci intossica con il veleno del soggettivismo, la celebrazione liturgica ci libera dalla prigione di una autoreferenzialità nutrita dalla propria ragione o dal proprio sentire: l’azione celebrativa non appartiene al singolo ma a Cristo-Chiesa, alla totalità dei fedeli uniti in Cristo. La Liturgia non dice “io” ma “noi” e ogni limitazione all’ampiezza di questo “noi” è sempre demoniaca. La Liturgia non ci lascia soli nel cercare una individuale presunta conoscenza del mistero di Dio, ma ci prende per mano, insieme, come assemblea, per condurci dentro il mistero che la Parola e i segni sacramentali ci rivelano. E lo fa, coerentemente con l’agire di Dio, seguendo la via dell’incarnazione, attraverso il linguaggio simbolico del corpo che si estende nelle cose, nello spazio e nel tempo.
- Se il neo-pelagianesimo ci intossica con la presunzione di una salvezza guadagnata con le nostre forze, la celebrazione liturgica ci purifica proclamando la gratuità del dono della salvezza accolta nella fede. Partecipare al sacrificio eucaristico non è una nostra conquista come se di questo potessimo vantarci davanti a Dio e ai fratelli. L’inizio di ogni celebrazione mi ricorda chi sono chiedendomi di confessare il mio peccato e invitandomi a supplicare la beata sempre Vergine Maria, gli angeli, i santi e tutti i fratelli e le sorelle, di pregare per me il Signore: non siamo certo degni di entrare nella sua casa, abbiamo bisogno di una sua parola per essere salvati (cf. Mt 8, 8). Non abbiamo altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo (cf. Gal 6, 14). La Liturgia non ha nulla a che vedere con un moralismo ascetico: è il dono della Pasqua del Signore che, accolto con docilità, fa nuova la nostra vita. Non si entra nel Cenacolo se non che per la forza di attrazione del suo desiderio di mangiare la Pasqua con noi: Desiderio desideravi hoc Pascha manducare vobiscum, antequam patiar(Lc 22, 15).
Riscoprire ogni giorno
la bellezza della verità della celebrazione cristiana
- Dobbiamo però fare attenzione: perché l’antidoto della Liturgia sia efficace ci viene chiesto di riscoprire ogni giorno la bellezza della verità della celebrazione cristiana. Mi riferisco ancora una volta al suo senso teologico, come il n. 7 della Sacrosanctum Conciliumha mirabilmente descritto: la Liturgia è il sacerdozio di Cristo a noi rivelato e donato nella sua Pasqua, reso oggi presente e attivo attraverso segni sensibili (acqua, olio, pane, vino, gesti, parole) perché lo Spirito, immergendoci nel mistero pasquale, trasformi tutta la nostra vita conformandoci sempre più a Cristo.
- La continua riscoperta della bellezza della Liturgia non è la ricerca di un estetismo rituale che si compiace solo nella cura della formalità esteriore di un rito o si appaga di una scrupolosa osservanza rubricale. Ovviamente questa affermazione non vuole in nessun modo approvare l’atteggiamento opposto che confonde la semplicità con una sciatta banalità, l’essenzialità con una ignorante superficialità, la concretezza dell’agire rituale con un esasperato funzionalismo pratico.
- Intendiamoci: ogni aspetto del celebrare va curato (spazio, tempo, gesti, parole, oggetti, vesti, canto, musica, …) e ogni rubrica deve essere osservata: basterebbe questa attenzione per evitare di derubare l’assemblea di ciò che le è dovuto, vale a dire il mistero pasquale celebrato nella modalità rituale che la Chiesa stabilisce. Ma anche se la qualità e la norma dell’azione celebrativa fossero garantite, ciò non sarebbe sufficiente per rendere piena la nostra partecipazione.
Lo stupore per il mistero pasquale: parte essenziale dell’atto liturgico
- Se venisse a mancare lo stupore per il mistero pasquale che si rende presente nella concretezza dei segni sacramentali, potremmo davvero rischiare di essere impermeabili all’oceano di grazia che inonda ogni celebrazione. Non sono sufficienti i pur lodevoli sforzi a favore di una migliore qualità della celebrazione e nemmeno un richiamo all’interiorità: anche quest’ultima corre il rischio di ridursi ad una vuota soggettività se non accoglie la rivelazione del mistero cristiano. L’incontro con Dio non è frutto di una individuale ricerca interiore di Lui ma è un evento donato: possiamo incontrare Dio per il fatto nuovo dell’incarnazione che nell’ultima Cena arriva fino all’estremo di desiderare di essere mangiato da noi. Come ci può accadere la sventura di sottrarci al fascino della bellezza di questo dono?
- Dicendo stupore per il mistero pasquale non intendo in nessun modo ciò che a volte mi pare si voglia esprimere con la fumosa espressione “senso del mistero”: a volte tra i presunti capi di imputazione contro la riforma liturgica vi è anche quello di averlo – si dice – eliminato dalla celebrazione. Lo stupore di cui parlo non è una sorta di smarrimento di fronte ad una realtà oscura o ad un rito enigmatico, ma è, al contrario, la meraviglia per il fatto che il piano salvifico di Dio ci è stato rivelato nella Pasqua di Gesù (cfr Ef 1,3-14) la cui efficacia continua a raggiungerci nella celebrazione dei “misteri”, ovvero dei sacramenti. Resta pur vero che la pienezza della rivelazione ha, rispetto alla nostra finitezza umana, una eccedenza che ci trascende e che avrà il suo compimento alla fine dei tempi quando il Signore tornerà. Se lo stupore è vero non vi è alcun rischio che non si percepisca, pur nella vicinanza che l’incarnazione ha voluto, l’alterità della presenza di Dio. Se la riforma avesse eliminato quel “senso del mistero” più che un capo di accusa sarebbe una nota di merito. La bellezza, come la verità, genera sempre stupore e quando sono riferite al mistero di Dio, porta all’adorazione.
- Lo stupore è parte essenziale dell’atto liturgico perché è l’atteggiamento di chi sa di trovarsi di fronte alla peculiarità dei gesti simbolici; è la meraviglia di chi sperimenta la forza del simbolo, che non consiste nel rimandare ad un concetto astratto ma nel contenere ed esprimere nella sua concretezza ciò che significa.
La necessità di una seria e vitale formazione liturgica
- La questione fondamentale è, dunque, questa: come recuperare la capacità di vivere in pienezza l’azione liturgica? La riforma del Concilio ha questo come obiettivo. La sfida è molto impegnativa perché l’uomo moderno – non in tutte le culture allo stesso modo – ha perso la capacità di confrontarsi con l’agire simbolico che è tratto essenziale dell’atto liturgico.
- La post-modernità – nella quale l’uomo si sente ancor più smarrito, senza riferimenti di nessun tipo, privo di valori perché divenuti indifferenti, orfano di tutto, in una frammentazione nella quale sembra impossibile un orizzonte di senso – è ancora gravata dalla pesante eredità che l’epoca precedente ci ha lasciato, fatta di individualismo e soggettivismo (che ancora una volta richiamano pelagianesimo e gnosticismo) come pure di uno spiritualismo astratto che contraddice la natura stessa dell’uomo, spirito incarnato e, quindi, in se stesso capace di azione e di comprensione simbolica.
- È con la realtà della modernità che la Chiesa riunita in Concilioha voluto confrontarsi, riaffermando la consapevolezza di essere sacramento di Cristo, luce delle genti (Lumen gentium), mettendosi in religioso ascolto della parola di Dio (Dei Verbum) e riconoscendo come proprie le gioie e le speranze (Gaudium et spes) degli uomini d’oggi. Le grandi Costituzioni conciliari non sono separabili e non è un caso che quest’unica grande riflessione del Concilio Ecumenico – la più alta espressione della sinodalità della Chiesa della cui ricchezza io sono chiamato ad essere, con tutti voi, custode – abbia preso l’avvio dalla Liturgia (Sacrosanctum Concilium).
- Chiudendo la seconda sessione del Concilio(4 dicembre 1963) san Paolo VI così si esprimeva:
«Del resto, questa discussione appassionata e complessa non è stata affatto senza un frutto copioso: infatti quel tema che è stato prima di tutto affrontato, e che in un certo senso nella Chiesa è preminente, tanto per sua natura che per dignità – vogliamo dire la sacra Liturgia – è arrivato a felice conclusione, e viene oggi da Noi con solenne rito promulgato. Per questo motivo il Nostro animo esulta di sincera gioia. In questo fatto ravvisiamo infatti che è stato rispettato il giusto ordine dei valori e dei doveri: in questo modo abbiamo riconosciuto che il posto d’onore va riservato a Dio; che noi come primo dovere siamo tenuti ad innalzare preghiere a Dio; che la sacra Liturgia è la fonte primaria di quel divino scambio nel quale ci viene comunicata la vita di Dio, è la prima scuola del nostro animo, è il primo dono che da noi dev’essere fatto al popolo cristiano, unito a noi nella fede e nell’assiduità alla preghiera; infine, il primo invito all’umanità a sciogliere la sua lingua muta in preghiere sante e sincere ed a sentire quell’ineffabile forza rigeneratrice dell’animo che è insita nel cantare con noi le lodi di Dio e nella speranza degli uomini, per Gesù Cristo e nello Spirito Santo»[7].
- Non posso in questa lettera intrattenermi sulla ricchezza delle singole espressioni che lascio alla vostra meditazione. Se la Liturgia è “il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia” (Sacrosanctum Concilium, n. 10), comprendiamo bene che cosa è in gioco nella questione liturgica. Sarebbe banale leggere le tensioni, purtroppo presenti attorno alla celebrazione, come una semplice divergenza tra diverse sensibilità nei confronti di una forma rituale. La problematica è anzitutto ecclesiologica. Non vedo come si possa dire di riconoscere la validità del Concilio – anche se un po’ mi stupisce che un cattolico possa presumere di non farlo – e non accogliere la riforma liturgica nata dalla Sacrosanctum Conciliumche esprime la realtà della Liturgia in intima connessione con la visione di Chiesa mirabilmente descritta dalla Lumen gentium. Per questo – come ho spiegato nella lettera inviata a tutti i Vescovi – ho sentito il dovere di affermare che “i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano” (Motu Proprio Traditionis custodes, art. 1).
La non accoglienza della riforma, come pure una sua superficiale comprensione, ci distoglie dall’impegno di trovare le risposte alla domanda che torno a ripetere: come crescere nella capacità di vivere in pienezza l’azione liturgica? Come continuare a stupirci di ciò che nella celebrazione accade sotto i nostri occhi? Abbiamo bisogno di una seria e vitale formazione liturgica.
- Torniamo ancora nel Cenacolo a Gerusalemme: il mattino di Pentecoste nasce la Chiesa, cellula iniziale dell’umanità nuova. Solo la comunità di uomini e donne riconciliati perché perdonati, vivi perché Lui è vivo, veri perché abitati dallo Spirito di verità, può aprire lo spazio angusto dell’individualismo spirituale.
- È la comunità della Pentecoste che può spezzare il Pane nella certezza che il Signore è vivo, risorto dai morti, presente con la sua parola, con i suoi gesti, con l’offerta del suo Corpo e del suo Sangue. Da quel momento la celebrazione diventa il luogo privilegiato, non l’unico, dell’incontro con Lui. Noi sappiamo che solo grazie a questo incontro l’uomo diventa pienamente uomo. Solo la Chiesa della Pentecoste può concepire l’uomo come persona, aperto ad una relazione piena con Dio, con il creato e con i fratelli.
- Qui si pone la questione decisiva della formazione liturgica. Dice Guardini: «Così è delineato anche il primo compito pratico: sostenuti da questa trasformazione interiore del nostro tempo, dobbiamo nuovamente imparare a porci di fronte al rapporto religioso come uomini in senso pieno»[8]. È questo che la Liturgia rende possibile, a questo dobbiamo formarci. Lo stesso Guardini non esita ad affermare che senza formazione liturgica, “le riforme nel rito e nel testo non aiutano molto”[9]. Non intendo ora trattare in modo esaustivo il ricchissimo tema della formazione liturgica: vorrei solo offrire alcuni spunti di riflessione. Penso che possiamo distinguere due aspetti: la formazione alla Liturgia e la formazione dalla Liturgia. Il primo è funzionale al secondo che è essenziale.
- È necessario trovare i canali per una formazione come studio della liturgia: a partire dal movimento liturgico molto in tal senso è stato fatto, con contributi preziosi di molti studiosi ed istituzioni accademiche. Occorre tuttavia diffondere queste conoscenze al di fuori dell’ambito accademico, in modo accessibile, perché ogni fedele cresca in una conoscenza del senso teologico della Liturgia – è la questione decisiva e fondante ogni conoscenza e ogni pratica liturgica – come pure dello sviluppo del celebrare cristiano, acquisendo la capacità di comprendere i testi eucologici, i dinamismi rituali e la loro valenza antropologica.
- Penso alla normalità delle nostre assemblee che si radunano per celebrare l’Eucaristia nel giorno del Signore, domenica dopo domenica, Pasqua dopo Pasqua, in momenti particolari della vita dei singoli e delle comunità, nelle diverse età della vita: i ministri ordinati svolgono un’azione pastorale di primaria importanza quando prendono per mano i fedeli battezzati per condurli dentro la ripetuta esperienza della Pasqua. Ricordiamoci sempre che è la Chiesa, Corpo di Cristo, il soggetto celebrante, non solo il sacerdote. La conoscenza che viene dallo studio è solo il primo passo per poter entrare nel mistero celebrato. È evidente che per poter condurre i fratelli e le sorelle, i ministri che presiedono l’assemblea devono conoscere la strada sia per averla studiata sulla mappa della scienza teologica sia per averla frequentata nella pratica di una esperienza di fede viva, nutrita dalla preghiera, di certo non solo come impegno da assolvere. Nel giorno dell’ordinazione ogni presbitero si sente dire dal vescovo: «Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore»[10].
- Anche l’impostazione dello studio della Liturgia nei seminari deve dare conto della straordinaria capacità che la celebrazione ha in se stessa di offrire una visione organica del sapere teologico. Ogni disciplina della teologia, ciascuna secondo la sua prospettiva, deve mostrare la propria intima connessione con la Liturgia, in forza della quale si rivela e si realizza l’unità della formazione sacerdotale (cf. Sacrosanctum Concilium, n. 16). Una impostazione liturgico-sapienziale della formazione teologica nei seminari avrebbe certamente anche effetti positivi nell’azione pastorale. Non c’è aspetto della vita ecclesiale che non trovi in essa il suo culmine e la sua fonte. La pastorale d’insieme, organica, integrata, più che essere il risultato di elaborati programmi è la conseguenza del porre al centro della vita della comunità la celebrazione eucaristica domenicale, fondamento della comunione. La comprensione teologica della Liturgia non permette in nessun modo di intendere queste parole come se tutto si riducesse all’aspetto cultuale. Una celebrazione che non evangelizza non è autentica, come non lo è un annuncio che non porta all’incontro con il Risorto nella celebrazione: entrambi, poi, senza la testimonianza della carità, sono come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita (cf. 1Cor 13, 1).
- Per i ministri e per tutti i battezzati, la formazione liturgica in questo suo primo significato, non è qualcosa che si possa pensare di conquistare una volta per sempre: poiché il dono del mistero celebrato supera la nostra capacità di conoscenza, questo impegno dovrà per certo accompagnare la formazione permanente di ciascuno, con l’umiltà dei piccoli, atteggiamento che apre allo stupore.
- Un’ultima osservazione sui seminari: oltre allo studio devono anche offrire la possibilità di sperimentare una celebrazione non solo esemplare dal punto di vista rituale, ma autentica, vitale, che permetta di vivere quella vera comunione con Dio alla quale anche il sapere teologico deve tendere. Solo l’azione dello Spirito può perfezionare la nostra conoscenza del mistero di Dio, che non è questione di comprensione mentale ma di relazione che tocca la vita. Tale esperienza è fondamentale perché una volta divenuti ministri ordinati, possano accompagnare le comunità nello stesso percorso di conoscenza del mistero di Dio, che è mistero d’amore.
- Quest’ultima considerazione ci porta a riflettere sul secondo significato con il quale possiamo intendere l’espressione “formazione liturgica”. Mi riferisco all’essere formati, ciascuno secondo la sua vocazione, dalla partecipazione alla celebrazione liturgica. Anche la conoscenza di studio di cui ho appena detto, perché non diventi razionalismo, deve essere funzionale al realizzarsi dell’azione formatrice della Liturgia in ogni credente in Cristo.
- Da quanto abbiamo detto sulla natura della Liturgia risulta evidente che la conoscenza del mistero di Cristo, questione decisiva per la nostra vita, non consiste in una assimilazione mentale di una idea, ma in un reale coinvolgimento esistenziale con la sua persona. In tal senso la Liturgia non riguarda la “conoscenza” e il suo scopo non è primariamente pedagogico (pur avendo un grande valore pedagogico: cf. Sacrosanctum Concilium, n. 33) ma è la lode, il rendimento di grazie per la Pasqua del Figlio la cui forza di salvezza raggiunge la nostra vita. La celebrazione riguarda la realtà del nostro essere docili all’azione dello Spirito che in essa opera, finché non sia formato Cristo in noi (cf. Gal 4, 19). La pienezza della nostra formazione è la conformazione a Cristo. Ripeto: non si tratta di un processo mentale, astratto, ma di diventare Lui. Questo è lo scopo per il quale è stato donato lo Spirito la cui azione è sempre e solo quella di fare il Corpo di Cristo. È così con il pane eucaristico, è così per ogni battezzato chiamato a diventare sempre più ciò che ha ricevuto in dono nel battesimo, vale a dire l’essere membro del Corpo di Cristo. Scrive Leone Magno: «La nostra partecipazione al Corpo e al Sangue di Cristo non tende ad altro che a farci diventare quello che mangiamo»[11].
- Questo coinvolgimento esistenziale accade – in continuità e coerenza con il metodo dell’incarnazione – per via sacramentale. La Liturgia è fatta di cose che sono esattamente l’opposto di astrazioni spirituali: pane, vino, olio, acqua, profumo, fuoco, cenere, pietra, stoffa, colori, corpo, parole, suoni, silenzi, gesti, spazio, movimento, azione, ordine, tempo, luce. Tutta la creazione è manifestazione dell’amore di Dio: da quando lo stesso amore si è manifestato in pienezza nella croce di Gesù tutta la creazione ne è attratta. È tutto il creato che viene assunto per essere messo a servizio dell’incontro con il Verbo incarnato, crocifisso, morto, risorto, asceso al Padre. Così come canta la preghiera sull’acqua per il fonte battesimale, ma anche quella sull’olio per il sacro crisma e le parole della presentazione del pane e del vino, frutti della terra e del lavoro dell’uomo.
- La liturgia dà gloria a Dio non perché noi possiamo aggiungere qualcosa alla bellezza della luce inaccessibile nella quale Egli abita (cf. 1Tm 6, 16) o alla perfezione del canto angelico che risuona eternamente nelle sedi celesti. La Liturgia dà gloria a Dio perché ci permette, qui, sulla terra, di vedere Dio nella celebrazione dei misteri e, nel vederlo, prendere vita dalla sua Pasqua: noi, che da morti che eravamo per le colpe, per grazia, siamo stati fatti rivivere con Cristo (cf. Ef 2, 5), siamo la gloria di Dio. Ireneo, doctor unitatis, ce lo ricorda: «La gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita dell’uomo consiste nella visione di Dio: se già la rivelazione di Dio attraverso la creazione dà la vita a tutti gli esseri che vivono sulla terra, quanto più la manifestazione del Padre attraverso il Verbo è causa di vita per coloro che vedono Dio!»[12].
- Scrive Guardini: «Con ciò si delinea il primo compito del lavoro di formazione liturgica: l’uomo deve diventare nuovamente capace di simboli»[13]. Questo impegno riguarda tutti, ministri ordinati e fedeli. Il compito non è facile perché l’uomo moderno è diventato analfabeta, non sa più leggere i simboli, quasi non ne sospetta nemmeno l’esistenza. Ciò accade anche con il simbolo del nostro corpo. È simbolo perché intima unione di anima e corpo, visibilità dell’anima spirituale nell’ordine del corporeo e in questo consiste l’unicità umana, la specificità della persona irriducibile a qualsiasi altra forma di essere vivente. La nostra apertura al trascendente, a Dio, è costitutiva: non riconoscerla ci porta inevitabilmente ad una non conoscenza oltre che di Dio, anche di noi stessi. Basta vedere il modo paradossale con il quale viene trattato il corpo, ora curato in modo quasi ossessivo inseguendo il mito di una eterna giovinezza, ora ridotto ad una materialità alla quale è negata ogni dignità. Il fatto è che non si può dare valore al corpo partendo solo dal corpo. Ogni simbolo è nello stesso tempo potente e fragile: se non viene rispettato, se non viene trattato per quello che è, si infrange, perde di forza, diventa insignificante.
Non abbiamo più lo sguardo di san Francesco che guardava il sole – che chiamava fratello perché così lo sentiva – lo vedeva bellu e radiante cum grande splendore, e, pieno di stupore, cantava: de te Altissimu, porta significatione[14]. L’aver perso la capacità di comprendere il valore simbolico del corpo e di ogni creatura rende il linguaggio simbolico della Liturgia quasi inaccessibile all’uomo moderno. Non si tratta, tuttavia, di rinunciare a tale linguaggio: non è possibile rinunciarvi perché è ciò che la Santissima Trinità ha scelto per raggiungerci nella carne del Verbo. Si tratta, piuttosto, di recuperare la capacità di porre e di comprendere i simboli della Liturgia. Non dobbiamo disperare, perché nell’uomo questa dimensione, come ho appena detto, è costitutiva e, nonostante i mali del materialismo e dello spiritualismo – entrambi negazione dell’unità corpo e anima – è sempre pronta a riemergere, come ogni verità.
- La domanda che ci poniamo è, dunque, come tornare ad essere capaci di simboli? Come tornare a saperli leggere per poterli vivere? Sappiamo bene che la celebrazione dei sacramenti è – per grazia di Dio – efficace in se stessa (ex opere operato) ma questo non garantisce un pieno coinvolgimento delle persone senza un adeguato modo di porsi di fronte al linguaggio della celebrazione. La lettura simbolica non è un fatto di conoscenza mentale, di acquisizione di concetti ma è esperienza vitale.
- Anzitutto dobbiamo riacquistare fiducia nei confronti della creazione. Intendo dire che le cose – con le quali i sacramenti “sono fatti” – vengono da Dio, a Lui sono orientate e da Lui sono state assunte, in modo particolare con l’incarnazione, perché diventassero strumenti di salvezza, veicoli dello Spirito, canali di grazia. Qui si avverte tutta la distanza sia dalla visione materialista sia da quella spiritualista. Se le cose create sono parte irrinunciabile dell’agire sacramentale che opera la nostra salvezza, dobbiamo predisporci nei loro confronti con uno sguardo nuovo non superficiale, rispettoso, grato. Fin dall’origine esse contengono il germe della grazia santificante dei sacramenti.
- Altra questione decisiva – sempre riflettendo su come la Liturgia ci forma – è l’educazione necessaria per poter acquisire l’atteggiamento interiore che ci permette di porre e di comprendere i simboli liturgici. Lo esprimo in modo semplice. Penso ai genitori e, ancor più, ai nonni, ma anche ai nostri parroci e catechisti. Molti di noi hanno appreso la potenza dei gesti della liturgia – come ad esempio il segno della croce, lo stare in ginocchio, le formule della nostra fede – proprio da loro. Forse non ne abbiamo il ricordo vivo, ma facilmente possiamo immaginare il gesto di una mano più grande che prende la piccola mano di un bambino e la accompagna lentamente nel tracciare per la prima volta il segno della nostra salvezza. Al movimento si accompagnano le parole, anch’esse lente, quasi a voler prendere possesso di ogni istante di quel gesto, di tutto il corpo: «Nel nome del Padre … e del Figlio … e dello Spirito Santo … Amen». Per poi lasciare la mano del bambino e guardarlo ripetere da solo, pronti a venire in suo aiuto, quel gesto ormai consegnato, come un abito che crescerà con Lui, vestendolo nel modo che solo lo Spirito conosce. Da quel momento quel gesto, la sua forza simbolica, ci appartiene o, sarebbe meglio dire, noi apparteniamo a quel gesto, ci dà forma, siamo da esso formati. Non servono troppi discorsi, non è necessario aver compreso tutto di quel gesto: occorre essere piccoli sia nel consegnarlo sia nel riceverlo. Il resto è opera dello Spirito. Così siamo stati iniziati al linguaggio simbolico. Di questa ricchezza non possiamo farci derubare. Crescendo potremo avere più mezzi per poter comprendere, ma sempre a condizione di rimanere piccoli.
Ars celebrandi
- Un modo per custodire e per crescere nella comprensione vitale dei simboli della Liturgia è certamente quello di curare l’arte del celebrare. Anche questa espressione è oggetto di diverse interpretazioni. Essa si chiarisce se viene compresa avendo come riferimento il senso teologico della Liturgia descritto in Sacrosanctum Conciliumal n. 7 e che abbiamo più volte richiamato. L’ars celebrandi non può essere ridotta alla sola osservanza di un apparato rubricale e non può nemmeno essere pensata come una fantasiosa – a volte selvaggia – creatività senza regole. Il rito è per se stesso norma e la norma non è mai fine a se stessa, ma sempre a servizio della realtà più alta che vuole custodire.
- Come ogni arte, richiede diverse conoscenze.
Anzitutto la comprensione del dinamismo che descrive la Liturgia. Il momento dell’azione celebrativa è il luogo nel quale attraverso il memoriale si fa presente il mistero pasquale perché i battezzati, in forza della loro partecipazione, possano farne esperienza nella loro vita: senza questa comprensione facilmente si cade nell’esteriorismo (più o meno raffinato) e nel rubricismo (più o meno rigido).
Occorre, poi, conoscere come lo Spirito Santo agisce in ogni celebrazione: l’arte del celebrare deve essere in sintonia con l’azione dello Spirito. Solo così sarà libera da soggettivismi, che sono il frutto del prevalere di sensibilità individuali, e da culturalismi, che sono acquisizioni acritiche di elementi culturali che non hanno nulla a che vedere da un corretto processo di inculturazione.
È necessario, infine, conoscere le dinamiche del linguaggio simbolico, la sua peculiarità, la sua efficacia.
- Da questi brevi cenni, risulta evidente che l’arte del celebrare non si può improvvisare. Come ogni arte richiede applicazione assidua. Ad un artigiano basta la tecnica; ad un artista, oltre alle conoscenze tecniche, non può mancare l’ispirazione che è una forma positiva di possessione: l’artista, quello vero, non possiede un’arte ne è posseduto. Non si impara l’arte del celebrare perché si frequenta un corso di public speakingo di tecniche di comunicazione persuasiva (non giudico le intenzioni, vedo gli effetti). Ogni strumento può essere utile ma deve sempre essere sottomesso alla natura della Liturgia e all’azione dello Spirito. Occorre una diligente dedizione alla celebrazione lasciando che sia la celebrazione stessa a trasmetterci la sua arte. Scrive Guardini: «Dobbiamo renderci conto di quanto profondamente siamo ancora radicati nell’individualismo e nel soggettivismo, di quanto siamo disabituati al richiamo delle grandezze e di quanto sia piccola la misura della nostra vita religiosa. Deve risvegliarsi il senso dello stile grande della preghiera, la volontà di coinvolgere anche in essa la nostra esistenza. Ma la via verso queste mète è la disciplina, la rinuncia ad una sentimentalità morbida; un serio lavoro, svolto in obbedienza alla Chiesa, in rapporto al nostro essere e al nostro comportamento religioso»[15]. È così che si impara l’arte del celebrare.
- Parlando di questo tema siamo portati a pensare che riguardi solo i ministri ordinati che svolgono il servizio della presidenza. In realtà è un atteggiamento che tutti i battezzati sono chiamati a vivere. Penso a tutti i gesti e le parole che appartengono all’assemblea: il radunarsi, l’incedere in processione, lo stare seduti, in piedi, in ginocchio, il cantare, lo stare in silenzio, l’acclamare, il guardare, l’ascoltare. Sono molti modi con i quali l’assemblea, come un solo uomo(Ne 8, 1), partecipa alla celebrazione. Compiere tutti insieme lo stesso gesto, parlare tutti insieme ad una sola voce, trasmette ai singoli la forza dell’intera assemblea. È una uniformità che non solo non mortifica ma, al contrario, educa i singoli fedeli a scoprire l’unicità autentica della propria personalità non in atteggiamenti individualistici ma nella consapevolezza di essere un solo corpo. Non si tratta di dover seguire un galateo liturgico: si tratta piuttosto di una “disciplina” – nel senso usato da Guardini – che, se osservata con autenticità, ci forma: sono gesti e parole che mettono ordine dentro il nostro mondo interiore facendoci vivere sentimenti, atteggiamenti, comportamenti. Non sono l’enunciazione di un ideale al quale cercare di ispirarci, ma sono un’azione che coinvolge il corpo nella sua totalità, vale a dire nel suo essere unità di anima e di corpo.
- Tra i gesti rituali che appartengono a tutta l’assemblea occupa un posto di assoluta importanza il silenzio. Più volte è espressamente prescritto nelle rubriche: tutta la celebrazione eucaristica è immersa nel silenzio che precede il suo inizio e segna ogni istante del suo svolgersi rituale. Infatti è presente nell’atto penitenziale; dopo l’invito alla preghiera; nella liturgia della Parola (prima delle letture, tra le letture e dopo l’omelia); nella preghiera eucaristica; dopo la comunione[16]. Non si tratta di un rifugio nel quale nascondersi per un isolamento intimistico, quasi patendo la ritualità come se fosse una distrazione: un tale silenzio sarebbe in contraddizione con l’essenza stessa della celebrazione. Il silenzio liturgico è molto di più: è il simbolo della presenza e dell’azione dello Spirito Santo che anima tutta l’azione celebrativa, per questo motivo spesso costituisce il culmine di una sequenza rituale. Proprio perché simbolo dello Spirito ha la forza di esprimere la sua multiforme azione. Così, ripercorrendo i momenti che ho sopra ricordato, il silenzio muove al pentimento e al desiderio di conversione; suscita l’ascolto della Parola e la preghiera; dispone all’adorazione del Corpo e del Sangue di Cristo; suggerisce a ciascuno, nell’intimità della comunione, ciò che lo Spirito vuole operare nella vita per conformarci al Pane spezzato. Per questo siamo chiamati a compiere con estrema cura il gesto simbolico del silenzio: in esso lo Spirito ci dà forma.
- Ogni gesto e ogni parola contiene un’azione precisa che è sempre nuova perché incontra un istante sempre nuovo della nostra vita. Mi spiego con un solo semplice esempio. Ci inginocchiamo per chiedere perdono; per piegare il nostro orgoglio; per consegnare a Dio il nostro pianto; per supplicare un suo intervento; per ringraziarlo di un dono ricevuto: è sempre lo stesso gesto che dice essenzialmente il nostro essere piccoli dinanzi a Dio. Tuttavia, compiuto in momenti diversi del nostro vivere, plasma la nostra interiorità profonda per poi manifestarsi all’esterno nella nostra relazione con Dio e con i fratelli. Anche l’inginocchiarsi va fatto con arte, vale a dire con una piena consapevolezza del suo senso simbolico e della necessità che noi abbiamo di esprimere con questo gesto il nostro modo di stare alla presenza del Signore. Se tutto questo è vero per questo semplice gesto, quanto più lo sarà per la celebrazione della Parola? Quale arte siamo chiamati ad apprendere nel proclamare la Parola, nell’ascoltarla, nel farla ispirazione della nostra preghiera, nel farla diventare vita? Tutto questo merita la massima cura, non formale, esteriore, ma vitale, interiore, perché ogni gesto e ogni parola della celebrazione espresso con “arte” forma la personalità cristiana del singolo e della comunità.
- Se è vero che l’ars celebrandiriguarda tutta l’assemblea che celebra, è altrettanto vero che i ministri ordinati devono avere per essa una particolare cura. Nel visitare le comunità cristiane ho spesso notato che il loro modo di vivere la celebrazione è condizionato – nel bene e, purtroppo, anche nel male – da come il loro parroco presiede l’assemblea. Potremmo dire che vi sono diversi “modelli” di presidenza. Ecco un possibile elenco di atteggiamenti che, pur essendo tra loro opposti, caratterizzano la presidenza in modo certamente inadeguato: rigidità austera o creatività esasperata; misticismo spiritualizzante o funzionalismo pratico; sbrigatività frettolosa o lentezza enfatizzata; sciatta trascuratezza o eccessiva ricercatezza; sovrabbondante affabilità o impassibilità ieratica. Pur nell’ampiezza di questa gamma, penso che l’inadeguatezza di questi modelli abbia una comune radice: un esasperato personalismo dello stile celebrativo che, a volte, esprime una mal celata mania di protagonismo. Spesso ciò acquista maggior evidenza quando le nostre celebrazioni vengono trasmesse in rete, cosa non sempre opportuna e sulla quale dovremmo riflettere. Intendiamoci, non sono questi gli atteggiamenti più diffusi, ma non di rado le assemblee subiscono questi “maltrattamenti”.
- Molto si potrebbe dire sull’importanza e sulla delicatezza del presiedere. In più occasioni mi sono soffermato sul compito impegnativo del tenere l’omelia[17]. Mi limito ora ad alcune considerazioni più ampie, sempre volendo riflettere con voi su come veniamo formati dalla Liturgia. Penso alla normalità delle Messe domenicali nelle nostre comunità: mi riferisco, quindi, ai presbiteri ma implicitamente a tutti i ministri ordinati.
- Il presbitero vive la sua tipica partecipazione alla celebrazione in forza del dono ricevuto nel sacramento dell’Ordine: tale tipicità si esprime proprio nella presidenza. Come tutti gli uffici che è chiamato a svolgere, non si tratta primariamente di un compito assegnato dalla comunità, quanto, piuttosto, della conseguenza dell’effusione dello Spirito Santo ricevuta nell’ordinazione che lo abilita a tale compito. Anche il presbitero viene formato dal suo presiedere l’assemblea che celebra.
- Perché questo servizio venga fatto bene – con arte, appunto – è di fondamentale importanza che il presbitero abbia anzitutto una viva coscienza di essere, per misericordia, una particolare presenza del Risorto. Il ministro ordinato è egli stesso una delle modalità di presenza del Signore che rendono l’assemblea cristiana unica, diversa da ogni altra (cf. Sacrosanctum Concilium, n. 7). Questo fatto dà spessore “sacramentale” – in senso ampio – a tutti i gesti e le parole di chi presiede. L’assemblea ha diritto di poter sentire in quei gesti e in quelle parole il desiderio che il Signore ha, oggi come nell’ultima Cena, di continuare a mangiare la Pasqua con noi. Il Risorto è, dunque, il protagonista, non lo sono di sicuro le nostre immaturità che cercano, assumendo un ruolo e un atteggiamento, una presentabilità che non possono avere. Il presbitero stesso è sopraffatto da questo desiderio di comunione che il Signore ha verso ciascuno: è come se fosse posto in mezzo tra il cuore ardente d’amore di Gesù e il cuore di ogni fedele, l’oggetto del suo amore. Presiedere l’Eucaristia è stare immersi nella fornace dell’amore di Dio. Quando ci viene dato di comprendere, o anche solo di intuire, questa realtà, non abbiamo di certo più bisogno di un direttorioche ci imponga un comportamento adeguato. Se di questo abbiamo bisogno è per la durezza del nostro cuore. La norma più alta, e, quindi, più impegnativa, è la realtà stessa della celebrazione eucaristica che seleziona parole, gesti, sentimenti, facendoci comprendere se sono o meno adeguati al compito che devono svolgere. È evidente che anche questo non si improvvisa: è un’arte, chiede al presbitero applicazione, vale a dire una frequentazione assidua del fuoco di amore che il Signore è venuto a portare sulla terra (cf. Lc 12, 49).
- Quando la prima comunità spezza il pane in obbedienza al comando del Signore, lo fa sotto sguardo di Maria che accompagna i primi passi della Chiesa: “erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù” (At 1, 14). La Vergine Madre “sorveglia” i gesti del suo Figlio affidati agli Apostoli. Come ha custodito nel suo grembo, dopo aver accolto le parole dell’angelo Gabriele, il Verbo fatto carne, la Vergine custodisce ancora una volta nel grembo della Chiesa quei gesti che fanno il corpo del Figlio suo. Il presbitero, che in forza del dono ricevuto con il sacramento dell’Ordine ripete quei gesti, è custodito nel grembo della Vergine. Serve una norma per dirci come ci si deve comportare?
- Divenuti strumenti per far divampare il fuoco del suo amore sulla terra, custoditi nel grembo di Maria, Vergine fatta Chiesa (come cantava san Francesco), i presbiteri si lasciano lavorare dallo Spirito che vuole portare a compimento l’opera che ha iniziato nella loro ordinazione. L’azione dello Spirito offre a loro la possibilità di esercitare la presidenza dell’assemblea eucaristica con il timore di Pietro, consapevole del suo essere peccatore (cf. Lc 5, 1-11), con l’umiltà forte del servo sofferente (cf. Is 42ss), con il desiderio di “farsi mangiare” dal popolo a loro affidato nell’esercizio quotidiano del ministero.
- È la celebrazione stessa che educa a questa qualità di presidenza, non è, lo ripetiamo, un’adesione mentale, anche se tutta la nostra mente, come pure la nostra sensibilità, viene in essa coinvolta. Il presbitero è, dunque, formato alla presidenza dalle parole e dai gesti che la liturgia mette sulle sue labbra e nelle sue mani.
Non siede su di un trono[18] perché il Signore regna con l’umiltà di chi serve.
Non ruba la centralità all’altare, segno di Cristo dal cui fianco squarciato scaturirono l’acqua e il sangue fonte dei sacramenti della Chiesa, e centro della nostra lode e del comune rendimento di grazie[19].
Accostandosi all’altare per l’offerta il presbitero è educato all’umiltà e al pentimento dalle parole: «Umili e pentiti accoglici, o Signore: ti sia gradito il nostro sacrificio che oggi si compie dinanzi a te»[20].
Non può presumere di se stesso per il ministero a Lui affidato perché la Liturgia lo invita a chiedere di essere purificato, nel segno dell’acqua: «Lavami, o Signore, dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro»[21].
Le parole che la liturgia mette sulle sue labbra hanno contenuti, diversi che chiedono specifiche tonalità: per l’importanza di queste parole al presbitero è chiesta una vera ars dicendi. Esse danno forma ai suoi sentimenti interiori, ora nella supplica al Padre a nome dell’assemblea, ora nell’esortazione rivolta all’assemblea, ora nell’acclamazione ad una sola voce con tutta l’assemblea.
Con la preghiera eucaristica – nella quale anche tutti i battezzati partecipano ascoltando con riverenza e silenzio e intervenendo con le acclamazioni [22] – chi presiede ha la forza, a nome di tutto il popolo santo, di ricordare al Padre l’offerta del Figlio suo nell’ultima Cena, perché quel dono immenso si renda nuovamente presente sull’altare. A quell’offerta partecipa con l’offerta di se stesso. Il presbitero non può narrare al Padre l’ultima Cena senza esserne partecipe. Non può dire: «Prendete, e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi», e non vivere lo stesso desiderio di offrire il proprio corpo, la propria vita per il popolo a lui affidato. È ciò che avviene nell’esercizio del suo ministero.
Da tutto questo, e da molto altro, il presbitero viene continuamente formato nell’azione celebrativa.
* * *
- Ho voluto semplicemente offrire alcune riflessioni che certamente non esauriscono l’immenso tesoro della celebrazione dei santi misteri. Chiedo a tutti i vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, ai formatori dei seminari, agli insegnanti delle facoltà teologiche e delle scuole di teologia, a tutti i catechisti e le catechiste, di aiutare il popolo santo di Dio ad attingere a quella che da sempre è la fonte prima della spiritualità cristiana. Siamo chiamati continuamente riscoprire la ricchezza dei principi generali esposti nei primi numeri della Sacrosanctum Conciliumcomprendendo l’intimo legame tra la prima delle Costituzioni conciliari e tutte le altre. Per questo motivo non possiamo tornare a quella forma rituale che i Padri conciliari, cum Petro e sub Petro, hanno sentito la necessità di riformare, approvando, sotto la guida dello Spirito e secondo la loro coscienza di pastori, i principi da cui è nata la riforma. I santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II approvando i libri liturgici riformati ex decreto Sacrosancti Œcumenici Concilii Vaticani II hanno garantito la fedeltà della riforma al Concilio. Per questo motivo ho scritto Traditionis Custodes, perché la Chiesa possa elevare, nella varietà delle lingue, una sola e identica preghiera capace di esprimere la sua unità[23]. Questa unità, come già ho scritto, intendo che sia ristabilita in tutta la Chiesa di Rito Romano.
- Vorrei che questa lettera ci aiutasse a ravvivare lo stupore per la bellezza della verità del celebrare cristiano, a ricordare la necessità di una formazione liturgica autentica e a riconoscere l’importanza di un’arte della celebrazione che sia a servizio della verità del mistero pasquale e della partecipazione di tutti i battezzati, ciascuno con la specificità della sua vocazione.
Tutta questa ricchezza non è lontana da noi: è nelle nostre chiese, nelle nostre feste cristiane, nella centralità della domenica, nella forza dei sacramenti che celebriamo. La vita cristiana è un continuo cammino di crescita: siamo chiamati a lasciarci formare con gioia e nella comunione.
- Per questo desidero lasciarvi ancora una indicazione per proseguire nel nostro cammino. Vi invito a riscoprire il senso dell’anno liturgicoe del giorno del Signore: anche questa è una consegna del Concilio (cf. Sacrosanctum Concilium, nn. 102-111).
- Alla luce di quanto abbiamo sopra ricordato, comprendiamo che l’anno liturgico è per noi la possibilità di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo, immergendo la nostra vita nel mistero della sua Pasqua, in attesa del suo ritorno. È questa una vera formazione continua. La nostra vita non è un susseguirsi casuale e caotico di eventi ma un percorso che, di Pasqua in Pasqua, ci conforma a Lui nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore, Gesù Cristo[24].
- Nello scorrere del tempo fatto nuovo dalla Pasqua, ogni otto giorni la Chiesa celebra nella domenica l’evento della salvezza. La domenica, prima di essere un precetto, è un dono che Dio fa al suo popolo (per questo motivo la Chiesa lo custodisce con un precetto). La celebrazione domenicale offre alla comunità cristiana la possibilità di essere formata dall’Eucaristia. Di domenica in domenica, la Parola del Risorto illumina la nostra esistenza volendo operare in noi ciò per cui è stata mandata (cf. Is 55, 10-11). Di domenica in domenica, la comunione al Corpo e al Sangue di Cristo vuole fare anche della nostra vita un sacrificio gradito al Padre, nella comunione fraterna che si fa condivisione, accoglienza, servizio. Di domenica in domenica, la forza del Pane spezzato ci sostiene nell’annuncio del Vangelo nel quale si manifesta l’autenticità della nostra celebrazione.
Abbandoniamo le polemiche per ascoltare insieme che cosa lo Spirito dice alla Chiesa, custodiamo la comunione, continuiamo a stupirci per la bellezza della Liturgia. Ci è stata donata la Pasqua, lasciamoci custodire dal desiderio che il Signore continua ad avere di poterla mangiare con noi. Sotto lo sguardo di Maria, Madre della Chiesa.
Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, il 29 giugno, Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, dell’anno 2022, decimo del mio pontificato.
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Tutta l’umanità trepidi, l’universo intero tremi e il cielo esulti,
quando sull’altare, nella mano del sacerdote,
è presente Cristo, il Figlio del Dio vivo.
O ammirabile altezza e stupenda degnazione!
O umiltà sublime! O sublimità umile,
che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio,
si umili a tal punto da nascondersi, per la nostra salvezza,
sotto poca apparenza di pane!
Guardate, fratelli, l’umiltà di Dio,
e aprite davanti a Lui i vostri cuori;
umiliatevi anche voi, perché siate da Lui esaltati.
Nulla, dunque, di voi trattenete per voi,
affinché tutti e per intero vi accolga Colui che tutto a voi si offre.
San Francesco d’Assisi, Lettera a tutto l’Ordine II, 26-29
[1]Cf. Leo Magnus, Sermo LXXIV: De ascensione Domini II,1: «quod […] Redemptoris nostri conspicuum fuit, in sacramenta transivit».
[2]Præfatio paschalis III, Missale Romanum (2008) p. 367: «Qui immolátus iam non móritur, sed semper vivit occísus».
[3]Cf. Missale Romanum (2008) p. 532.
[4]Cf. Augustinus, Enarrationes in psalmos. Ps. 138,2; Oratio post septimam lectionem, Vigilia paschalis, Missale Romanum (2008) p. 359; Super oblata, Pro Ecclesia (B) , Missale Romanum (2008) p. 1076.
[5]Cf. Augustinus, In Ioannis Evangelium tractatus XXVI,13.
[6]Cf. Litteræ encyclicæ Mediator Dei (20 Novembris 1947) in AAS 39 (1947) 532.
[7]AAS 56 (1964) 34.
[8]R. Guardini, Liturgische Bildung (1923) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 43; trad. it. Formazione Liturgica (Brescia 2022) p. 69.
[9]R. Guardini, Der Kultakt und die gegenwärtige Aufgabe der Liturgischen Bildung (1964) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 14; trad. it. L’atto di culto e il compito attuale della formazione liturgica. Una lettera (1964) in Formazione liturgica (Brescia 2022) p. 33.
[10]De Ordinatione Episcopi, Presbyterorum et Diaconorum (1990) p. 95: «Agnosce quod ages, imitare quod tractabis, et vitam tuam mysterio dominicæ crucis conforma».
[11]Leo Magnus, Sermo XII: De Passione III, 7.
[12]Irenæus Lugdunensis, Adversus hæreses IV,20,7.
[13]R. Guardini, Liturgische Bildung (1923) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 36; trad. it. Formazione Liturgica (Brescia 2022) p. 60.
[14]Cantico delle Creature, Fonti Francescane, n. 263.
[15]R. Guardini Liturgische Bildung (1923) in Liturgie und liturgische Bildung (Mainz 1992) p. 99; trad. it. Formazione Liturgica (Brescia 2022) p. 139.
[16]Cf. Institutio Generalis Missalis Romani, nn. 45; 51; 54-56; 66; 71; 78; 84; 88; 271.
[17]Vedi Esortazione apostolica Evangelii gaudium (24 novembre 2013), nn. 135-144.
[18]Cf. Institutio Generalis Missalis Romani, n. 310.
[19]Prex dedicationis in Ordo dedicationis ecclesiæ et altaris (1977) p. 102.
[20]Missale Romanum (2008) p. 515: «In spiritu humilitatis et in animo contrito suscipiamur a te, Domine; et sic fiat sacrificium nostrum in conspectu tuo hodie, ut placeat tibi, Domine Deus».
[21]Missale Romanum (2008) p. 515: «Lava me, Domine, ab iniquitate mea, et a peccato meo munda me».
[22]Cf. Institutio Generalis Missalis Romani, nn. 78-79.
[23]Cf. Paulus VI, Constitutio apostolica Missale Romanum (3 Aprilis 1969) in AAS 61 (1969) 222.
[24]Missale Romanum (2008) p. 598: « … exspectantes beatam spem et adventum Salvatoris nostri Iesu Christi».