QUERIDA AMAZONIA
ESORTAZIONE APOSTOLICA POSTSINODALE
AL POPOLO DI DIO E A TUTTE LE PERSONE DI BUONA VOLONTÀ
1. L’amata Amazzonia si mostra di fronte al mondo con tutto il suo splendore, il suo dramma, il suo mistero. Dio ci ha donato la grazia di averla presente in maniera speciale nel Sinodo che ha avuto luogo a Roma tra il 6 e il 27 ottobre e che si è concluso con un testo intitolato Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per un’ecologia integrale.
Il senso di questa Esortazione
2. Ho ascoltato gli interventi durante il Sinodo e ho letto con interesse i contributi dei circoli minori. Con questa Esortazione desidero esprimere le risonanze che ha provocato in me questo percorso di dialogo e discernimento. Non svilupperò qui tutte le questioni abbondantemente esposte nel Documento conclusivo. Non intendo né sostituirlo né ripeterlo. Desidero solo offrire un breve quadro di riflessione che incarni nella realtà amazzonica una sintesi di alcune grandi preoccupazioni che ho già manifestato nei miei documenti precedenti, affinché possa aiutare e orientare verso un’armoniosa, creativa e fruttuosa ricezione dell’intero cammino sinodale.
3. Nello stesso tempo voglio presentare ufficialmente quel Documento, che ci offre le conclusioni del Sinodo e a cui hanno collaborato tante persone che conoscono meglio di me e della Curia romana la problematica dell’Amazzonia, perché ci vivono, ci soffrono e la amano con passione. Ho preferito non citare tale Documento in questa Esortazione, perché invito a leggerlo integralmente.
4. Dio voglia che tutta la Chiesa si lasci arricchire e interpellare da questo lavoro, che i pastori, i consacrati, le consacrate e i fedeli laici dell’Amazzonia si impegnino nella sua applicazione e che possa ispirare in qualche modo tutte le persone di buona volontà.
Sogni per l’Amazzonia
5. L’Amazzonia è una totalità multinazionale interconnessa, un grande bioma condiviso da nove paesi: Brasile, Bolivia, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname, Venezuela e Guyana Francese. Tuttavia, indirizzo questa Esortazione a tutto il mondo. Lo faccio, da una parte, per aiutare a risvegliare l’affetto e la preoccupazione per questa terra che è anche “nostra” e invitarli ad ammirarla e a riconoscerla come un mistero sacro; dall’altra, perché l’attenzione della Chiesa alle problematiche di questo luogo ci obbliga a riprendere brevemente alcuni temi che non dovremmo dimenticare e che possono ispirare altre regioni della terra di fronte alle loro proprie sfide.
6. Tutto ciò che la Chiesa offre deve incarnarsi in maniera originale in ciascun luogo del mondo, così che la Sposa di Cristo assuma volti multiformi che manifestino meglio l’inesauribile ricchezza della grazia. La predicazione deve incarnarsi, la spiritualità deve incarnarsi, le strutture della Chiesa devono incarnarsi. Per questo mi permetto umilmente, in questa breve Esortazione, di formulare quattro grandi sogni che l’Amazzonia mi ispira.
7. Sogno un’Amazzonia che lotti per i diritti dei più poveri, dei popoli originari, degli ultimi, dove la loro voce sia ascoltata e la loro dignità sia promossa.
Sogno un’Amazzonia che difenda la ricchezza culturale che la distingue, dove risplende in forme tanto varie la bellezza umana.
Sogno un’Amazzonia che custodisca gelosamente l’irresistibile bellezza naturale che l’adorna, la vita traboccante che riempie i suoi fiumi e le sue foreste.
Sogno comunità cristiane capaci di impegnarsi e di incarnarsi in Amazzonia, fino al punto di donare alla Chiesa nuovi volti con tratti amazzonici.
CAPITOLO PRIMO – UN SOGNO SOCIALE
8. Il nostro sogno è quello di un’Amazzonia che integri e promuova tutti i suoi abitanti perché possano consolidare un “buon vivere”. Ma c’è bisogno di un grido profetico e di un arduo impegno per i più poveri. Infatti, benché l’Amazzonia si trovi di fronte a un disastro ecologico, va rilevato che «un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri». Non ci serve un conservazionismo «che si preoccupa del bioma ma ignora i popoli amazzonici».
Ingiustizia e crimine
9. Gli interessi colonizzatori che hanno esteso ed estendono – legalmente e illegalmente – il taglio di legname e l’industria mineraria, e che sono andati scacciando e assediando i popoli indigeni, rivieraschi e di origine africana, provocano una protesta che grida al cielo:
«Molti sono gli alberi
dove abitò la tortura
e vasti i boschi
comprati tra mille uccisioni».
«I mercanti di legname hanno parlamentari
e la nostra Amazzonia non ha chi la difenda […].
Esiliano i pappagalli e le scimmie […]
Non sarà più la stessa la raccolta delle castagne».
10. Questo ha favorito i movimenti migratori più recenti degli indigeni verso le periferie delle città. Lì non incontrano una reale liberazione dai loro drammi, bensì le peggiori forme di schiavitù, di asservimento e di miseria. In queste città, caratterizzate da una grande disuguaglianza, dove oggi abita la maggior parte della popolazione dell’Amazzonia, crescono anche la xenofobia, lo sfruttamento sessuale e il traffico di persone. Per questo il grido dell’Amazzonia non si leva solamente dal cuore delle foreste, ma anche dall’interno delle sue città.
11. Non è necessario che qui ripeta le analisi così ampie e complete che sono state presentate prima e durante il Sinodo. Ricordiamo almeno una delle voci ascoltate: «Siamo colpiti dai commercianti di legname, da allevatori e altre parti terze. Minacciati da attori economici che implementano un modello estraneo ai nostri territori. Le imprese del legno entrano nel territorio per sfruttare la foresta, noi abbiamo cura della foresta per i nostri figli, abbiamo carne, pesce, medicine vegetali, alberi da frutto […]. La costruzione di impianti idroelettrici e il progetto di vie d’acqua ha un impatto sul fiume e sui territori […]. Siamo una regione di territori derubati».
12. Già il mio predecessore, Benedetto XVI, denunciava «la devastazione ambientale dell’Amazzonia e le minacce alla dignità umana delle sue popolazioni». Desidero aggiungere che tanti drammi sono stati legati ad una falsa “mistica amazzonica”. È noto infatti che dagli ultimi decenni del secolo scorso l’Amazzonia è stata presentata come un enorme spazio vuoto da occupare, come una ricchezza grezza da elaborare, come un’immensità selvaggia da addomesticare. Tutto ciò con uno sguardo che non riconosce i diritti dei popoli originari o semplicemente li ignora, come se non esistessero, o come se le terre in cui abitano non appartenessero a loro. Persino nei programmi educativi per bambini e giovani, gli indigeni sono stati visti come intrusi o usurpatori. La loro vita, i loro desideri, il loro modo di lottare e di sopravvivere non interessavano, e li si considerava più come un ostacolo di cui liberarsi che come esseri umani con la medesima dignità di chiunque altro e con diritti acquisiti.
13. Alcuni slogan hanno contribuito a questa confusione, tra gli altri quello del “non concedere”, come se tale asservimento potesse venire solo dall’esterno dei Paesi, mentre anche poteri locali, con la scusa dello sviluppo, hanno partecipato ad alleanze allo scopo di distruggere la foresta – con le forme di vita che ospita – impunemente e senza limiti. I popoli originari tante volte hanno assistito impotenti alla distruzione dell’ambiente naturale che permetteva loro di nutrirsi, di curarsi, di sopravvivere e conservare uno stile di vita e una cultura che dava loro identità e significato. La disparità di potere è enorme, i deboli non hanno risorse per difendersi, mentre il vincitore continua a prendersi tutto. «I poveri restano ognora poveri, mentre i ricchi diventano sempre più ricchi».
14. Alle operazioni economiche, nazionali e internazionali, che danneggiano l’Amazzonia e non rispettano il diritto dei popoli originari al territorio e alla sua demarcazione, all’autodeterminazione e al previo consenso, occorre dare il nome che a loro spetta: ingiustizia e crimine. Quando alcune aziende assetate di facili guadagni si appropriano dei terreni e arrivano a privatizzare perfino l’acqua potabile, o quando le autorità danno il via libera alle industrie del legname, a progetti minerari o petroliferi e ad altre attività che devastano le foreste e inquinano l’ambiente, si trasformano indebitamente i rapporti economici e diventano uno strumento che uccide. È abituale ricorrere a mezzi estranei ad ogni etica, come sanzionare le proteste e addirittura togliere la vita agli indigeni che si oppongono ai progetti, provocare intenzionalmente incendi nelle foreste, o corrompere politici e gli stessi indigeni. Ciò è accompagnato da gravi violazioni dei diritti umani e da nuove schiavitù che colpiscono specialmente le donne, dalla peste del narcotraffico che cerca di sottomettere gli indigeni, o dalla tratta di persone che approfitta di coloro che sono stati scacciati dal loro contesto culturale. Non possiamo permettere che la globalizzazione diventi «un nuovo tipo di colonialismo».
15. Bisogna indignarsi, come si indignava Mosè (cf. Es 11,8), come si indignava Gesù (cf. Mc 3,5), come Dio si indigna davanti all’ingiustizia (cf. Am 2,4-8; 5,7-12; Sal 106,40). Non è sano che ci abituiamo al male, non ci fa bene permettere che ci anestetizzino la coscienza sociale, mentre «una scia di distruzione, e perfino di morte, per tutte le nostre regioni […] mette in pericolo la vita di milioni di persone e in special modo dell’habitat dei contadini e degli indigeni». Le storie di ingiustizia e di crudeltà accadute in Amazzonia anche durante il secolo scorso dovrebbero provocare un profondo rifiuto, ma nello stesso tempo dovrebbero renderci più sensibili a riconoscere forme anche attuali di sfruttamento umano, di prevaricazione e di morte. In merito al passato vergognoso, raccogliamo, a modo di esempio, una narrazione sulle sofferenze degli indigeni dell’epoca del caucciù nell’Amazzonia venezuelana: «Agli indigeni non davano denaro, solo mercanzia e a caro prezzo, così non finivano mai di pagarla, […] pagavano, ma dicevano all’indigeno: “Lei ha un grosso debito”, e doveva ritornare a lavorare […]. Più di venti villaggi ye’kuana sono stati completamente devastati. Le donne ye’kuana sono state violentate e amputati i loro petti, quelle gravide sventrate. Agli uomini tagliavano le dita delle mani o i polsi in modo che non potessero andare in barca, […] insieme ad altre scene del più assurdo sadismo».
16. Questa storia di dolore e di disprezzo non si risana facilmente. E la colonizzazione non si ferma, piuttosto in alcune zone si trasforma, si maschera e si nasconde, ma non perde la prepotenza contro la vita dei poveri e la fragilità dell’ambiente. I Vescovi dell’Amazzonia brasiliana hanno ricordato che «la storia dell’Amazzonia rivela che è sempre stata una minoranza che guadagnava a costo della povertà della maggioranza e della razzia senza scrupoli delle ricchezze naturali della regione, elargizione divina alle popolazioni che qui vivono da millenni e ai migranti che sono arrivati nel corso dei secoli passati».
17. Mentre lasciamo emergere una sana indignazione, ricordiamo che è sempre possibile superare le diverse mentalità coloniali per costruire reti di solidarietà e di sviluppo: «la sfida è quella di assicurare una globalizzazione nella solidarietà, una globalizzazione senza marginalizzazione». Si possono cercare alternative di allevamento e agricoltura sostenibili, di energie che non inquinino, di risorse lavorative che non comportino la distruzione dell’ambiente e delle culture. Al contempo, occorre assicurare agli indigeni e ai più poveri un’educazione adeguata, che sviluppi le loro capacità e li valorizzi. Proprio su questi obiettivi si gioca la vera scaltrezza e la genuina capacità dei politici. Non sarà per restituire ai morti la vita che si è loro negata, e nemmeno per risarcire i sopravvissuti di quei massacri, ma almeno perché possiamo essere oggi realmente umani.
18. Ci incoraggia ricordare che, in mezzo ai gravi eccessi della colonizzazione dell’Amazzonia, piena di «contraddizioni e lacerazioni», molti missionari sono giunti là con il Vangelo, lasciando i propri Paesi e accettando una vita austera e impegnativa vicino ai più indifesi. Sappiamo che non tutti sono stati esemplari, ma il lavoro di quelli che si sono mantenuti fedeli al Vangelo ha anche ispirato «una legislazione come le Leggi delle Indie che proteggevano la dignità degli indigeni contro i soprusi ai loro popoli e territori». Dato che spesso erano i sacerdoti coloro che proteggevano gli indigeni da assalitori e profittatori, i missionari raccontano: «Ci chiedevano con insistenza di non abbandonarli e ci strappavano la promessa di ritornare di nuovo».
19. Nel momento presente la Chiesa non può essere meno impegnata, ed è chiamata ad ascoltare le grida dei popoli amazzonici «per poter esercitare in modo trasparente il suo ruolo profetico». Al tempo stesso, poiché non possiamo negare che il grano si è mescolato con la zizzania e che non sempre i missionari sono stati a fianco degli oppressi, me ne vergogno e ancora una volta «chiedo umilmente perdono, non solo per le offese della Chiesa stessa, ma per i crimini contro i popoli indigeni durante la cosiddetta conquista dell’America» e per gli atroci crimini che seguirono attraverso tutta la storia dell’Amazzonia. Ringrazio i membri dei popoli originari e dico loro nuovamente: «Voi con la vostra vita siete un grido rivolto alla coscienza […]. Voi siete memoria viva della missione che Dio ha affidato a noi tutti: avere cura della Casa comune».
20. La lotta sociale implica una capacità di fraternità, uno spirito di comunione umana. Ora, senza sminuire l’importanza della libertà personale, va sottolineato che i popoli originari dell’Amazzonia possiedono un forte senso comunitario. Essi vivono così «il lavoro, il riposo, le relazioni umane, i riti e le celebrazioni. Tutto è condiviso, gli spazi privati – tipici della modernità – sono minimi. La vita è un cammino comunitario dove i compiti e le responsabilità sono divisi e condivisi in funzione del bene comune. Non c’è posto per l’idea di un individuo distaccato dalla comunità o dal suo territorio». Le relazioni umane sono impregnate dalla natura circostante, perché gli indigeni la sentono e la percepiscono come una realtà che integra la loro società e la loro cultura, come un prolungamento del loro corpo personale, familiare e di gruppo sociale:
«Quella stella si avvicina
aleggiano i colibrì
più che la cascata tuona il mio cuore
con le tue labbra irrigherò la terra
che su di noi giochi il vento».
21. Questo moltiplica l’effetto disintegratore dello sradicamento che vivono gli indigeni che si vedono obbligati a emigrare in città, cercando di sopravvivere, a volte anche in maniera non dignitosa, tra le abitudini urbane più individualiste e in un ambiente ostile. Come sanare un danno così grave? Come ricostruire quelle vite sradicate? Di fronte a una tale realtà, bisogna apprezzare e accompagnare tutti gli sforzi che fanno molti di questi gruppi sociali per conservare i loro valori e stili di vita e integrarsi nei nuovi contesti senza perderli, anzi, offrendoli come contributo al bene comune.
22. Cristo ha redento l’essere umano intero e vuole ristabilire in ciascuno la capacità di entrare in relazione con gli altri. Il Vangelo propone la carità divina che promana dal Cuore di Cristo e che genera una ricerca di giustizia che è inseparabilmente un canto di fraternità e di solidarietà, uno stimolo per la cultura dell’incontro. La saggezza dello stile di vita dei popoli originari – pur con tutti i limiti che possa avere – ci stimola ad approfondire questa aspirazione. Per tale ragione i Vescovi dell’Ecuador hanno sollecitato «un nuovo sistema sociale e culturale che privilegi le relazioni fraterne, in un quadro di riconoscimento e di stima delle diverse culture e degli ecosistemi, capace di opporsi ad ogni forma di discriminazione e di dominazione tra esseri umani».
23. Nella Laudato si’ ricordavamo che «se tutto è in relazione, anche lo stato di salute delle istituzioni di una società comporta conseguenze per l’ambiente e per la qualità della vita umana […]. All’interno di ciascun livello sociale e tra di essi, si sviluppano istituzioni che regolano le relazioni umane. Tutto ciò che le danneggia comporta effetti nocivi, come la perdita della libertà, l’ingiustizia e la violenza. Diversi Paesi sono governati da un sistema istituzionale precario, a costo delle sofferenze della popolazione».
24. Come stanno le istituzioni della società civile in Amazzonia? L’Instrumentum laboris del Sinodo, che raccoglie molti contributi di persone e gruppi dell’Amazzonia, si riferisce a «una cultura che avvelena lo Stato e le sue istituzioni, permeando tutti gli strati sociali, comprese le comunità indigene. Si tratta di una vera e propria piaga morale; di conseguenza, si perde la fiducia nelle istituzioni e nei suoi rappresentanti, il che scredita totalmente la politica e le organizzazioni sociali. I popoli amazzonici non sono estranei alla corruzione e ne diventano le principali vittime».
25. Non possiamo escludere che membri della Chiesa siano stati parte della rete di corruzione, a volte fino al punto di accettare di mantenere il silenzio in cambio di aiuti economici per le opere ecclesiali. Proprio per questo sono arrivate proposte al Sinodo che invitano a «prestare particolare attenzione all’origine delle donazioni o di altri tipi di benefici, così come agli investimenti fatti dalle istituzioni ecclesiastiche o dai cristiani».
26. L’Amazzonia dovrebbe essere anche un luogo di dialogo sociale, specialmente tra i diversi popoli originari, per trovare forme di comunione e di lotta congiunta. Tutti gli altri siamo chiamati a partecipare come “invitati” e a cercare con estremo rispetto vie d’incontro che arricchiscano l’Amazzonia. Ma se vogliamo dialogare, dovremmo farlo prima di tutto con gli ultimi. Essi non sono interlocutori qualsiasi, che bisogna convincere, e nemmeno un convitato in più ad una tavola di pari. Essi sono i principali interlocutori, dai quali anzitutto dobbiamo imparare, che dobbiamo ascoltare per un dovere di giustizia e ai quali dobbiamo chiedere permesso per poter presentare le nostre proposte. La loro parola, le loro speranze, i loro timori dovrebbero essere la voce più potente in qualsiasi tavolo di dialogo sull’Amazzonia; e la grande questione è: come loro stessi immaginano il buon vivere per sé stessi e i loro discendenti?
27. Il dialogo non solo deve privilegiare la scelta preferenziale per la difesa dei poveri, degli emarginati e degli esclusi, ma li considera come protagonisti. Si tratta di riconoscere l’altro e di apprezzarlo “come altro”, con la sua sensibilità, le sue scelte più personali, il suo modo di vivere e di lavorare. Altrimenti il risultato sarà, come sempre, «un progetto di pochi indirizzato a pochi», quando non «un consenso a tavolino o un’effimera pace per una minoranza felice». Se questo accade, «è necessaria una voce profetica» e come cristiani siamo chiamati a farla sentire.
Da qui nasce il sogno successivo.
CAPITOLO SECONDO – UN SOGNO CULTURALE
28. Il tema è promuovere l’Amazzonia; ciò però non significa colonizzarla culturalmente, bensì fare in modo che essa stessa tragga da sé il meglio. Questo è il senso della migliore opera educativa: coltivare senza sradicare; far crescere senza indebolire l’identità; promuovere senza invadere. Come ci sono potenzialità nella natura che potrebbero andare perdute per sempre, lo stesso può succedere con culture portatrici di un messaggio ancora non ascoltato e che oggi si trovano minacciate come non mai.
29. In Amazzonia vivono molti popoli e nazionalità, e più di 110 popoli indigeni in stato di isolamento volontario (PIAV). La loro situazione risulta assai fragile e molti si rendono conto di essere tra gli ultimi depositari di un tesoro destinato a scomparire, come se solo si permettesse loro di sopravvivere senza disturbare, mentre la colonizzazione postmoderna avanza. Bisogna evitare di considerarli dei “selvaggi non civilizzati”. Semplicemente hanno dato vita a culture diverse e ad altre forme di civiltà, che anticamente hanno raggiunto un notevole sviluppo.
30. Prima della colonizzazione, la popolazione si concentrava lungo le rive dei fiumi e dei laghi; l’avanzata colonizzatrice sospinse poi gli antichi abitanti verso l’interno della foresta. Oggi, la crescente desertificazione costringe a nuovi spostamenti molti, che finiscono per occupare le periferie o i marciapiedi delle città, talvolta in una situazione di miseria estrema, ma anche di frammentazione interiore dovuta alla perdita dei valori da cui erano sostenuti. In tale contesto, solitamente perdono i punti di riferimento e le radici culturali che conferivano loro un’identità e un senso di dignità, e vanno ad allungare la fila degli scartati. Così si interrompe la trasmissione culturale di una saggezza che ha attraversato i secoli, di generazione in generazione. Le città, che dovrebbero essere luoghi di incontro, di mutuo arricchimento, di fecondazione tra culture diverse, si trasformano nello scenario di un doloroso scarto.
31. Ogni popolo che è riuscito a sopravvivere in Amazzonia possiede la propria identità culturale e una ricchezza unica all’interno di un universo multi-culturale, in forza della stretta relazione che gli abitanti stabiliscono con l’ambiente, in una simbiosi – non deterministica – difficile da comprendere con schemi mentali esterni:
«C’era una volta un paesaggio che appariva col suo fiume
i suoi animali, le sue nuvole, i suoi alberi.
A volte però, quando da nessuna parte si vedeva
il paesaggio col suo fiume e i suoi alberi,
a queste cose toccava apparire nella mente di un ragazzo».
«Del fiume fa’ il tuo sangue […].
Poi piantati,
germoglia e cresci
che la tua radice
si aggrappi alla terra
perpetuamente
e alla fine
sii canoa,
scialuppa, zattera,
suolo, giara,
stalla e uomo».
32. I gruppi umani, i loro stili di vita e le loro visioni del mondo, sono vari tanto quanto il territorio, avendo dovuto adattarsi alla geografia e alle sue risorse. Non sono la stessa cosa i popoli dediti alla pesca e quelli dediti alla caccia o all’agricoltura nell’entroterra, piuttosto che i popoli che coltivano le terre soggette a inondazioni. In Amazzonia incontriamo inoltre migliaia di comunità indigene, afro-discendenti, rivierasche e abitanti città, che a loro volta sono molto diverse tra loro e ospitano una grande diversità umana. Attraverso un territorio e le sue caratteristiche Dio si manifesta, riflette qualcosa della sua inesauribile bellezza. Pertanto, i diversi gruppi, in una sintesi vitale con l’ambiente circostante, sviluppano una forma peculiare di saggezza. Quanti osserviamo dall’esterno dovremmo evitare generalizzazioni ingiuste, discorsi semplicistici o conclusioni tratte solo a partire dalle nostre strutture mentali ed esperienze.
33. Desidero adesso ricordare che «la visione consumistica dell’essere umano, favorita dagli ingranaggi dell’attuale economia globalizzata, tende a rendere omogenee le culture e a indebolire l’immensa varietà culturale, che è un tesoro dell’umanità». Ciò tocca da vicino i giovani, quando si tende «a dissolvere le differenze proprie del loro luogo di origine, a trasformarli in soggetti manipolabili fatti in serie». Per evitare questa dinamica di impoverimento umano, occorre amare e custodire le radici, perché esse sono «un punto di radicamento che ci consente di crescere e di rispondere alle nuove sfide». Invito i giovani dell’Amazzonia, specialmente gli indigeni, a «farsi carico delle radici, perché dalle radici viene la forza che vi fa crescere, fiorire, fruttificare». Per quanti di loro sono battezzati, queste radici comprendono la storia del popolo d’Israele e della Chiesa, fino al giorno d’oggi. Conoscerle è una fonte di gioia e soprattutto di speranza che ispira azioni coraggiose e nobili.
34. Per secoli i popoli amazzonici hanno trasmesso la loro saggezza culturale oralmente, attraverso miti, leggende, narrazioni, come avveniva con «quei primitivi cantastorie che percorrevano la foresta raccontando storie di villaggio in villaggio, mantenendo viva una comunità che, senza il cordone ombelicale di questi racconti, la distanza e l’isolamento avrebbero frammentato e dissolto». Per questo è importante «lasciare che gli anziani facciano lunghe narrazioni» e che i giovani si fermino a bere a questa fonte.
35. Mentre è sempre più grande il rischio che questa ricchezza culturale vada perduta, grazie a Dio negli ultimi anni alcuni popoli hanno iniziato a scrivere per raccontare le proprie storie e descrivere il significato delle proprie usanze. Così essi stessi possono riconoscere, in modo esplicito, che c’è qualcosa di più di una identità etnica e che sono depositari di preziose memorie personali, familiari e collettive. Mi rallegra vedere che, coloro che hanno perso il contatto con le proprie radici, cercano di recuperare la memoria ferita. Per altro verso, anche nei settori professionali ha cominciato a svilupparsi una maggior percezione dell’identità amazzonica e anche per loro, spesso discendenti di immigrati, l’Amazzonia è diventata fonte di ispirazione artistica, letteraria, musicale, culturale. Le varie espressioni artistiche, e in particolare la poesia, si sono lasciate ispirare dall’acqua, dalla foresta, dalla vita che freme, così come dalla diversità culturale e dalle sfide ecologiche e sociali.
36. Come ogni realtà culturale, le culture dell’Amazzonia profonda hanno i loro limiti. Anche le culture urbane dell’Occidente li hanno. Fattori come il consumismo, l’individualismo, la discriminazione, la disuguaglianza e molti altri costituiscono aspetti fragili delle culture apparentemente più evolute. Le etnie che hanno sviluppato un tesoro culturale stando legate alla natura, con forte senso comunitario, avvertono con facilità le nostre ombre, che noi non riconosciamo in mezzo al preteso progresso. Di conseguenza, raccogliere la loro esperienza di vita ci farà bene.
37. A partire dalle nostre radici ci sediamo alla tavola comune, luogo di conversazione e di speranze condivise. In questo modo la diversità, che può essere una bandiera o una frontiera, si trasforma in un ponte. L’identità e il dialogo non sono nemici. La propria identità culturale si approfondisce e si arricchisce nel dialogo con realtà differenti e il modo autentico di conservarla non è un isolamento che impoverisce. Non è perciò mia intenzione proporre un indigenismo completamente chiuso, astorico, statico, che si sottragga a qualsiasi forma di meticciato. Una cultura può diventare sterile quando «si chiude in se stessa e cerca di perpetuare forme di vita invecchiate, rifiutando ogni scambio e confronto intorno alla verità dell’uomo». Ciò potrebbe sembrare poco realistico, dal momento che non è facile proteggersi dall’invasione culturale. Per questo, l’interesse ad avere cura dei valori culturali dei gruppi indigeni dovrebbe appartenere a tutti, perché la loro ricchezza è anche la nostra. Se non progrediamo in questo senso di corresponsabilità nei confronti della diversità che abbellisce la nostra umanità, non si può pretendere che i gruppi della foresta interna si aprano ingenuamente alla “civiltà”.
38. In Amazzonia, anche tra i vari popoli originari, è possibile sviluppare «relazioni interculturali nelle quali la diversità non rappresenta una minaccia, non giustifica gerarchie di potere esercitato dagli uni sugli altri, ma significa un dialogo, a partire da visioni culturali differenti, fatto di celebrazione, di interrelazioni, di rivitalizzazione della speranza».
Culture minacciate, popoli a rischio
39. L’economia globalizzata danneggia senza pudore la ricchezza umana, sociale e culturale. La disintegrazione delle famiglie, che si verifica a partire da migrazioni forzate, intacca la trasmissione di valori, perché «la famiglia è ed è sempre stata l’istituzione sociale che più ha contribuito a mantenere vive le nostre culture». Inoltre, «di fronte all’invasione colonizzatrice dei mezzi di comunicazione di massa», occorre promuovere per i popoli originari «comunicazioni alternative a partire dalle [loro] proprie lingue e culture» e che «gli stessi soggetti indigeni siano presenti nei mezzi di comunicazione già esistenti».
40. In qualsiasi progetto per l’Amazzonia, «è necessario assumere la prospettiva dei diritti dei popoli e delle culture, e in tal modo comprendere che lo sviluppo di un gruppo sociale […] richiede il costante protagonismo degli attori sociali locali a partire dalla loro propria cultura. Neppure la nozione di qualità della vita si può imporre, ma dev’essere compresa all’interno del mondo di simboli e consuetudini propri di ciascun gruppo umano». E se le culture ancestrali dei popoli originari sono nate e si sono sviluppate in intimo contatto con l’ambiente naturale circostante, difficilmente potranno conservarsi indenni quando tale ambiente si deteriora.
Con ciò si fa strada il sogno successivo.
CAPITOLO TERZO – UN SOGNO ECOLOGICO
41. In una realtà culturale come l’Amazzonia, dove esiste una relazione così stretta dell’essere umano con la natura, l’esistenza quotidiana è sempre cosmica. Liberare gli altri dalle loro schiavitù implica certamente prendersi cura dell’ambiente e proteggerlo, ma ancor più aiutare il cuore dell’uomo ad aprirsi con fiducia a quel Dio che non solo ha creato tutto ciò che esiste, ma ci ha anche donato sé stesso in Gesù Cristo. Il Signore, che per primo ha cura di noi, ci insegna a prenderci cura dei nostri fratelli e sorelle e dell’ambiente che ogni giorno Egli ci regala. Questa è la prima ecologia di cui abbiamo bisogno. In Amazzonia si comprendono meglio le parole di Benedetto XVI quando diceva che «accanto all’ecologia della natura c’è un’ecologia che potremmo dire “umana”, la quale a sua volta richiede un’“ecologia sociale”. E ciò comporta che l’umanità […] debba tenere sempre più presenti le connessioni esistenti tra l’ecologia naturale, ossia il rispetto della natura, e l’ecologia umana». L’insistenza sul fatto che «tutto è connesso» vale in modo speciale per un territorio come l’Amazzonia.
42. Se la cura delle persone e la cura degli ecosistemi sono inseparabili, ciò diventa particolarmente significativo lì dove «la foresta non è una risorsa da sfruttare, è un essere, o vari esseri con i quali relazionarsi». La saggezza dei popoli originari dell’Amazzonia «ispira cura e rispetto per il creato, con una chiara consapevolezza dei suoi limiti, proibendone l’abuso. Abusare della natura significa abusare degli antenati, dei fratelli e delle sorelle, della creazione e del Creatore, ipotecando il futuro». Gli indigeni, «quando rimangono nei loro territori, sono quelli che meglio se ne prendono cura», sempre che non si lascino ingannare dai canti di sirena e dalle offerte interessate di gruppi di potere. I danni alla natura li affliggono in modo molto diretto e constatabile, perché – dicono –: «Siamo acqua, aria, terra e vita dell’ambiente creato da Dio. Pertanto, chiediamo che cessino i maltrattamenti e lo sterminio della Madre terra. La terra ha sangue e si sta dissanguando, le multinazionali hanno tagliato le vene alla nostra Madre terra».
43. In Amazzonia l’acqua è la regina, i fiumi e i ruscelli sono come vene, e ogni forma di vita origina da essa:
«Lì, nel pieno delle estati ardenti, quando svaniscono, morte nell’aria immobile, le ultime folate di vento orientale, il termometro viene sostituito dall’igrometro nella definizione del clima. Le esistenze dipendono da un alternarsi doloroso di abbassamenti e innalzamenti dei grandi fiumi. Questi si elevano sempre in una maniera impressionante. Il Rio delle Amazzoni, gonfio, esce dal suo letto, accresce in pochi giorni il livello delle sue acque […]. La piena del fiume è un arresto della vita. Prigioniero nelle maglie dei “sentieri delle canoe”, l’uomo attende perciò, con singolare stoicismo nei confronti della fatalità ineludibile, la fine di quell’inverno paradossale, dalle temperature elevate. L’abbassamento delle acque è l’estate. È la risurrezione dell’attività primordiale di coloro che da quelle parti si dibattono, dell’unica forma di vita compatibile con la natura che si impegna al massimo in manifestazioni disparate, rendendo impossibile il prolungamento di qualsiasi sforzo».
44. L’acqua abbaglia nel gran Rio delle Amazzoni, che raccoglie e vivifica tutto all’intorno:
«Rio delle Amazzoni
capitale delle sillabe dell’acqua,
padre patriarca, sei
l’eternità segreta
delle fecondazioni,
a te scendono fiumi come uccelli».
45. È inoltre la colonna vertebrale che armonizza e unisce: «Il fiume non ci separa, ci unisce, ci aiuta a convivere tra diverse culture e lingue». Per quanto sia vero che in questo territorio ci siano molte “Amazzonie”, il suo asse principale è il grande fiume, figlio di molti altri fiumi:
«Dalle vette più alte della cordigliera, dove le nevi sono eterne, l’acqua scorre e traccia un solco vibrante nella pelle antica della pietra: il Rio delle Amazzoni è appena nato. Nasce ad ogni istante. Discende lenta, sinuosa luce, per crescere nella terra. Scacciando il verde, inventa il suo corso e cresce. Acque sotterranee affiorano per abbracciarsi con l’acqua che scende dalle Ande. Dal ventre delle nubi bianchissime, scosse dal vento, cade l’acqua celeste. Avanzano riunite, moltiplicate in percorsi infiniti, bagnando l’immensa pianura […]. È la Grande Amazzonia, tutta nel tropico umido, con la sua foresta compatta e stupefacente, dove ancora palpita, intatta e in vaste zone mai sorpresa dall’uomo, la vita che venne tessendo il suo ordito nelle intimità dell’acqua […]. Da quando l’uomo la abita, si leva dalle profondità delle sue acque, e scorre dai luoghi alti della sua foresta un tremendo timore: che questa vita, a poco a poco, stia prendendo la direzione della fine».
46. I poeti popolari, che si sono innamorati della sua immensa bellezza, hanno cercato di esprimere quanto il fiume faceva loro percepire, e la vita che dona al suo passaggio, in una danza di delfini, anaconda, alberi e canoe. Ma pure deplorano i pericoli che lo minacciano. Questi poeti, contemplativi e profetici, ci aiutano a liberarci dal paradigma tecnocratico e consumista che soffoca la natura e ci priva di un’esistenza realmente dignitosa:
«Il mondo soffre per la trasformazione dei piedi in gomma, delle gambe in cuoio, del corpo in tessuto e della testa in acciaio […]. Il mondo soffre per la trasformazione della pala in fucile, dell’aratro in carro armato, dell’immagine del seminatore che sparge semi in quella dell’automa con i suoi lanciafiamme, dalla cui semina germogliano deserti. Solo la poesia, con l’umiltà della sua voce, potrà salvare questo mondo».
47. La poesia aiuta ad esprimere una dolorosa sensazione che oggi in molti condividiamo. La verità ineludibile è che, nelle attuali condizioni, con questo modo di trattare l’Amazzonia, tanta vita e tanta bellezza stiano “prendendo la direzione della fine”, benché molti vogliano continuare a credere che non è successo nulla:
«Quelli che credevano che il fiume fosse una corda per giocare si sbagliavano.
Il fiume è una vena sottile sulla faccia della terra. […]
Il fiume è una fune a cui si aggrappano animali e alberi.
Se tirano troppo forte, il fiume potrebbe esplodere.
Potrebbe esplodere e lavarci la faccia con l’acqua e con il sangue».
48. L’equilibrio planetario dipende anche dalla salute dell’Amazzonia. Assieme al bioma del Congo e del Borneo, impressiona per la diversità delle sue foreste, dalle quali dipendono anche i cicli delle piogge, l’equilibrio del clima e una grande varietà di esseri viventi. Funziona come un grande filtro del diossido di carbonio, che aiuta ad evitare il surriscaldamento della terra. In gran parte, il suo suolo è povero di humus, motivo per cui la foresta «cresce realmente sopra il terreno e non dal terreno». Quando si elimina la foresta, questa non viene rimpiazzata, perché rimane un terreno con poche sostanze nutritive che si trasforma in un’area desertica o povera di vegetazione. Questo è grave, perché nelle viscere della foresta amazzonica sussistono innumerevoli risorse che potrebbero essere indispensabili per la cura di malattie. I suoi pesci, i frutti, e gli altri doni sovrabbondanti arricchiscono l’alimentazione umana. Inoltre, in un ecosistema come quello amazzonico, l’apporto di ogni singola parte nella conservazione dell’insieme si rivela indispensabile. Anche le terre costiere e la vegetazione marina hanno bisogno di essere fertilizzate da quanto trascina il Rio delle Amazzoni. Il grido dell’Amazzonia raggiunge tutti, perché «l’aspetto di conquista e di sfruttamento delle risorse […] è giunto oggi a minacciare la stessa capacità ospitale dell’ambiente: l’ambiente come “risorsa” rischia di minacciare l’ambiente come “casa”». L’interesse di poche imprese potenti non dovrebbe esser messo al di sopra del bene dell’Amazzonia e dell’intera umanità.
49. Non è sufficiente prestare attenzione alla conservazione delle specie più visibili a rischio di estinzione. È cruciale tener conto che «per il buon funzionamento degli ecosistemi sono necessari anche i funghi, le alghe, i vermi, i piccoli insetti, i rettili e l’innumerevole varietà di microorganismi. Alcune specie poco numerose, che di solito passano inosservate, giocano un ruolo critico fondamentale per stabilizzare l’equilibrio di un luogo». Ciò è facilmente ignorato nella valutazione dell’impatto ambientale dei progetti economici di industrie estrattive, energetiche, del legname e altre che distruggono e inquinano. Inoltre, l’acqua, abbondante in Amazzonia, è un bene essenziale per la sopravvivenza umana, ma le fonti di inquinamento sono in costante crescita.
50. In realtà, oltre agli interessi economici di imprenditori e politici locali, ci sono anche «gli enormi interessi economici internazionali». La soluzione non sta, dunque, in una “internazionalizzazione” dell’Amazzonia, ma diventa più grave la responsabilità dei governi nazionali. Per questa stessa ragione, «è lodevole l’impegno di organismi internazionali e di organizzazioni della società civile che sensibilizzano le popolazioni e cooperano in modo critico, anche utilizzando legittimi sistemi di pressione, affinché ogni governo adempia il proprio e non delegabile dovere di preservare l’ambiente e le risorse naturali del proprio Paese, senza vendersi a ambigui interessi locali o internazionali».
51. Per avere cura dell’Amazzonia è bene coniugare la saggezza ancestrale con le conoscenze tecniche contemporanee, sempre però cercando di intervenire sul territorio in modo sostenibile, preservando nello stesso tempo lo stile di vita e i sistemi di valori degli abitanti. Ad essi, e in modo speciale ai popoli originari, spetta ricevere – oltre alla formazione di base – l’informazione completa e trasparente circa i progetti, la loro portata, gli effetti e i rischi, per poter confrontare questa informazione con i loro interessi e la loro conoscenza del luogo, e poter così dare o negare il proprio consenso, oppure proporre alternative.
52. I più potenti non si accontentano mai dei profitti che ottengono, e le risorse del potere economico si accrescono di molto con lo sviluppo scientifico e tecnologico. Per questo dovremmo tutti insistere sull’urgenza di «creare un sistema normativo che includa limiti inviolabili e assicuri la protezione degli ecosistemi, prima che le nuove forme di potere derivate dal paradigma tecno-economico finiscano per distruggere non solo la politica ma anche la libertà e la giustizia». Se la chiamata di Dio esige un ascolto attento del grido dei poveri e, nello stesso tempo, della terra, per noi «il grido che l’Amazzonia eleva al Creatore è simile al grido del Popolo di Dio in Egitto (cf. Es 3,7). È un grido di schiavitù e di abbandono, che invoca la libertà».
La profezia della contemplazione
53. Molte volte lasciamo che la coscienza diventi insensibile, perché «la distrazione costante ci toglie il coraggio di accorgerci della realtà di un mondo limitato e finito». Se si guarda alla superficie forse sembra «che le cose non siano tanto gravi e che il pianeta potrebbe rimanere per molto tempo nelle condizioni attuali. Questo comportamento evasivo ci serve per mantenere i nostri stili di vita, di produzione e di consumo. È il modo in cui l’essere umano si arrangia per alimentare tutti i vizi autodistruttivi: cercando di non vederli, lottando per non riconoscerli, rimandando le decisioni importanti, facendo come se nulla fosse».
54. Oltre a tutto ciò, desidero ricordare che ciascuna delle diverse specie ha valore in sé stessa, e però «ogni anno scompaiono migliaia di specie vegetali e animali che non potremo più conoscere, che i nostri figli non potranno vedere, perse per sempre. La stragrande maggioranza si estingue per ragioni che hanno a che fare con qualche attività umana. Per causa nostra, migliaia di specie non daranno gloria a Dio con la loro esistenza né potranno comunicarci il proprio messaggio. Non ne abbiamo il diritto».
55. Imparando dai popoli originari, possiamo contemplare l’Amazzonia e non solo analizzarla, per riconoscere il mistero prezioso che ci supera. Possiamo amarla e non solo utilizzarla, così che l’amore risvegli un interesse profondo e sincero. Di più, possiamo sentirci intimamente uniti ad essa e non solo difenderla, e allora l’Amazzonia diventerà nostra come una madre. Perché «il mondo non si contempla dal di fuori ma dal di dentro, riconoscendo i legami con i quali il Padre ci ha unito a tutti gli esseri».
56. Risvegliamo il senso estetico e contemplativo che Dio ha posto in noi e che a volte lasciamo si atrofizzi. Ricordiamo che, «quando non si impara a fermarsi ad ammirare ed apprezzare il bello, non è strano che ogni cosa si trasformi in oggetto di uso e abuso senza scrupoli». Per contro, se entriamo in comunione con la foresta, facilmente la nostra voce si unirà alla sua e si trasformerà in preghiera: «Coricati all’ombra di un vecchio eucalipto, la nostra preghiera di luce s’immerge nel canto di fronde eterne». Tale conversione interiore è ciò che potrà permetterci di piangere per l’Amazzonia e di gridare con essa al Signore.
57. Gesù ha detto: «Cinque passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio» (Lc 12,6). Dio Padre, che ha creato ogni essere dell’universo con infinito amore, ci chiama ad essere suoi strumenti per ascoltare il grido dell’Amazzonia. Se noi accorriamo a tale richiamo straziante, potrà rendersi manifesto che le creature dell’Amazzonia non sono state dimenticate dal Padre del cielo. Per noi cristiani, è Gesù stesso che ci implora attraverso di loro, «perché il Risorto le avvolge misteriosamente e le orienta a un destino di pienezza. Gli stessi fiori del campo e gli uccelli che Egli contemplò ammirato con i suoi occhi umani, ora sono pieni della sua presenza luminosa». Per queste ragioni, noi credenti troviamo nell’Amazzonia un luogo teologico, uno spazio dove Dio stesso si manifesta e chiama i suoi figli.
Educazione e abitudini ecologiche
58. Possiamo così compiere un passo ulteriore e ricordare che un’ecologia integrale non si accontenta di accomodare questioni tecniche o di decisioni politiche, giuridiche e sociali. La grande ecologia comprende sempre un aspetto educativo che sollecita lo sviluppo di nuove abitudini nelle persone e nei gruppi umani. Purtroppo molti abitanti dell’Amazzonia hanno acquisito usanze tipiche delle grandi città, dove il consumismo e la cultura dello scarto sono già molto radicati. Non ci sarà ecologia sana e sostenibile, in grado di cambiare qualcosa, se non cambiano le persone, se non le si sollecita ad adottare un altro stile di vita, meno vorace, più sereno, più rispettoso, meno ansioso, più fraterno.
59. Infatti, «più il cuore della persona è vuoto, più ha bisogno di oggetti da comprare, possedere e consumare. In tale contesto non sembra possibile che qualcuno accetti che la realtà gli ponga un limite. […] Non pensiamo solo alla possibilità di terribili fenomeni climatici o grandi disastri naturali, ma anche a catastrofi derivate da crisi sociali, perché l’ossessione per uno stile di vita consumistico, soprattutto quando solo pochi possono sostenerlo, potrà provocare soltanto violenza e distruzione reciproca».
60. La Chiesa, con la sua lunga esperienza spirituale, con la sua rinnovata consapevolezza circa il valore del creato, con la sua preoccupazione per la giustizia, con la sua scelta per gli ultimi, con la sua tradizione educativa e con la sua storia di incarnazione in culture tanto diverse del mondo intero, desidera a sua volta offrire il proprio contributo alla cura e alla crescita dell’Amazzonia.
Con ciò prende avvio un ulteriore sogno, che intendo condividere più direttamente con i pastori e i fedeli cattolici.
CAPITOLO QUARTO – UN SOGNO ECCLESIALE
61. La Chiesa è chiamata a camminare con i popoli dell’Amazzonia. In America Latina questo cammino ha avuto espressioni privilegiate come la Conferenza di Vescovi a Medellín (1968) e la sua applicazione all’Amazzonia a Santarem (1972); e poi a Puebla (1979), Santo Domingo (1992) e Aparecida (2007). La strada prosegue e il compito missionario, se vuole sviluppare una Chiesa dal volto amazzonico, deve crescere in una cultura dell’incontro verso una «pluriforme armonia». Ma perché sia possibile questa incarnazione della Chiesa e del Vangelo deve risuonare, sempre nuovamente, il grande annuncio missionario.
L’annuncio indispensabile in Amazzonia
62. Di fronte a tanti bisogni e tante angosce che gridano dal cuore dell’Amazzonia, possiamo rispondere a partire da organizzazioni sociali, risorse tecniche, spazi di dibattito, programmi politici, e tutto ciò può far parte della soluzione. Ma come cristiani non rinunciamo alla proposta di fede che abbiamo ricevuto dal Vangelo. Pur volendo impegnarci con tutti, fianco a fianco, non ci vergogniamo di Gesù Cristo. Per coloro che lo hanno incontrato, vivono nella sua amicizia e si identificano con il suo messaggio, è inevitabile parlare di Lui e portare agli altri la sua proposta di vita nuova: «Guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1 Cor 9,16).
63. L’autentica scelta per i più poveri e dimenticati, mentre ci spinge a liberarli dalla miseria materiale e a difendere i loro diritti, implica che proponiamo ad essi l’amicizia con il Signore che li promuove e dà loro dignità. Sarebbe triste che ricevessero da noi un codice di dottrine o un imperativo morale, ma non il grande annuncio salvifico, quel grido missionario che punta al cuore e dà senso a tutto il resto. Né possiamo accontentarci di un messaggio sociale. Se diamo la nostra vita per loro, per la giustizia e la dignità che meritano, non possiamo nascondere ad essi che lo facciamo perché riconosciamo Cristo in loro e perché scopriamo l’immensa dignità concessa loro da Dio Padre che li ama infinitamente.
64. Essi hanno diritto all’annuncio del Vangelo, soprattutto a quel primo annuncio che si chiama kerygma e che «è l’annuncio principale, quello che si deve sempre tornare ad ascoltare in modi diversi e che si deve sempre tornare ad annunciare durante la catechesi in una forma o nell’altra».[81] È l’annuncio di un Dio che ama infinitamente ogni essere umano, che ha manifestato pienamente questo amore in Cristo crocifisso per noi e risorto nella nostra vita. Propongo di rileggere un breve riassunto su tale tema contenuto nel capitolo IV dell’Esortazione Christus vivit. Questo annuncio deve risuonare costantemente in Amazzonia, espresso in molte modalità diverse. Senza questo annuncio appassionato, ogni struttura ecclesiale diventerà un’altra ONG, e quindi non risponderemo alla richiesta di Gesù Cristo: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15).
65. Qualsiasi proposta di maturazione nella vita cristiana deve avere come cardine permanente questo annuncio, perché «tutta la formazione cristiana è prima di tutto l’approfondimento del kerygma che va facendosi carne sempre più e sempre meglio». La reazione fondamentale a questo annuncio, quando riesce a provocare un incontro personale con il Signore, è la carità fraterna, quel «nuovo comandamento che è il primo, il più grande, quello che meglio ci identifica come discepoli». Pertanto, il kerygma e l’amore fraterno costituiscono la grande sintesi dell’intero contenuto del Vangelo che non si può fare a meno di proporre in Amazzonia. È quello che hanno vissuto i grandi evangelizzatori dell’America Latina come San Toribio de Mogrovejo o San José de Anchieta.
66. La Chiesa, mentre annuncia sempre di nuovo il kerygma, deve crescere in Amazzonia. Per questo, riconfigura sempre la propria identità nell’ascolto e nel dialogo con le persone, le realtà e le storie del suo territorio. In tal modo, potrà svilupparsi sempre di più un necessario processo di inculturazione, che non disprezza nulla di quanto di buono già esiste nelle culture amazzoniche, ma lo raccoglie e lo porta a pienezza alla luce del Vangelo. E nemmeno disprezza la ricchezza di sapienza cristiana trasmessa lungo i secoli, come se si pretendesse di ignorare la storia in cui Dio ha operato in molti modi, perché la Chiesa ha un volto pluriforme «non solo da una prospettiva spaziale […], ma anche dalla sua realtà temporale». Si tratta dell’autentica Tradizione della Chiesa, che non è un deposito statico né un pezzo da museo, ma la radice di un albero che cresce. È la millenaria Tradizione che testimonia l’azione divina nel suo Popolo e «ha la missione di mantenere vivo il fuoco più che di conservare le ceneri».
67. San Giovanni Paolo II ha insegnato che, nel presentare la sua proposta evangelica, «la Chiesa non pretende negare l’autonomia della cultura. Anzi al contrario, nutre per essa il maggior rispetto», perché la cultura «non è solo soggetto di redenzione e di elevazione; ma può essere anche fautrice di mediazione e di collaborazione». Rivolgendosi agli indigeni del Continente americano ha ricordato che «una fede che non diviene cultura è una fede non pienamente accolta, né totalmente pensata né fedelmente vissuta». Le sfide delle culture invitano la Chiesa a «un atteggiamento di vigile senso critico, ma anche di attenzione fiduciosa».
68. Si può riprendere qui ciò che ho affermato nell’Esortazione Evangelii gaudium a proposito dell’inculturazione, sulla base della convinzione che «la grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve». Avvertiamo che ciò implica un doppio movimento. Da un lato, una dinamica di fecondazione che consente di esprimere il Vangelo in un luogo, poiché «quando una comunità accoglie l’annuncio della salvezza, lo Spirito Santo ne feconda la cultura con la forza trasformante del Vangelo». D’altra parte, la Chiesa stessa vive un percorso ricettivo, che la arricchisce di ciò che lo Spirito aveva già misteriosamente seminato in quella cultura. In tal modo, «lo Spirito Santo abbellisce la Chiesa, mostrandole nuovi aspetti della Rivelazione e regalandole un nuovo volto». Si tratta, in definitiva, di permettere e incoraggiare che l’annuncio del Vangelo inesauribile, comunicato «con categorie proprie della cultura in cui è annunciato, provochi una nuova sintesi con tale cultura».
69. Pertanto, «come possiamo vedere nella storia della Chiesa, il cristianesimo non dispone di un unico modello culturale» e «non renderebbe giustizia alla logica dell’incarnazione pensare ad un cristianesimo monoculturale e monocorde». Tuttavia, il rischio per gli evangelizzatori che arrivano in un luogo è credere di dover comunicare non solo il Vangelo ma anche la cultura in cui essi sono cresciuti, dimenticando che non si tratta di «imporre una determinata forma culturale, per quanto bella e antica». Occorre accettare con coraggio la novità dello Spirito, capace di creare sempre qualcosa di nuovo con l’inesauribile tesoro di Gesù Cristo, perché «l’inculturazione impegna la Chiesa su un cammino difficile ma necessario». È vero che «benché questi processi siano sempre lenti, a volte la paura ci paralizza troppo» e finiamo per essere «spettatori di una sterile stagnazione della Chiesa». Non abbiamo timore, non tagliamo le ali allo Spirito Santo!
Vie di inculturazione in Amazzonia
70. Per ottenere una rinnovata inculturazione del Vangelo in Amazzonia, la Chiesa ha bisogno di ascoltare la sua saggezza ancestrale, tornare a dare voce agli anziani, riconoscere i valori presenti nello stile di vita delle comunità originarie, recuperare in tempo le preziose narrazioni dei popoli. In Amazzonia abbiamo già ricevuto ricchezze che provengono dalle culture precolombiane, «come l’apertura all’azione di Dio, il senso di gratitudine per i frutti della terra, il carattere sacro della vita umana e la stima per la famiglia, il senso di solidarietà e la corresponsabilità nel lavoro comune, l’importanza della dimensione cultuale, la fede in una vita al di là di quella terrena, e tanti altri valori».
71. In questo contesto, i popoli indigeni amazzonici esprimono l’autentica qualità della vita come un “buon vivere” che implica un’armonia personale, familiare, comunitaria e cosmica e si manifesta nel loro modo comunitario di pensare l’esistenza, nella capacità di trovare gioia e pienezza in una vita austera e semplice, come pure nella cura responsabile della natura che preserva le risorse per le generazioni future. I popoli aborigeni potrebbero aiutarci a scoprire che cos’è una felice sobrietà e in questo senso «hanno molto da insegnarci». Sanno essere felici con poco, godono dei piccoli doni di Dio senza accumulare tante cose, non distruggono senza necessità, custodiscono gli ecosistemi e riconoscono che la terra, mentre si offre per sostenere la loro vita, come una fonte generosa, ha un senso materno che suscita rispettosa tenerezza. Tutto ciò dev’essere valorizzato e tenuto in conto nell’evangelizzazione.
72. Mentre lottiamo per loro e con loro, siamo chiamati «ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro». Gli abitanti delle città hanno bisogno di apprezzare questa saggezza e lasciarsi “rieducare” di fronte al consumismo ansioso e all’isolamento urbano. La Chiesa stessa può essere un veicolo in grado di aiutare questo recupero culturale in una valida sintesi con l’annuncio del Vangelo. Inoltre, essa diventa strumento di carità nella misura in cui le comunità urbane sono non solo missionarie nel loro ambiente, ma anche accoglienti verso i poveri che arrivano dall’interno spinti dalla miseria. E ugualmente lo è nella misura in cui le comunità sono vicine ai giovani migranti per aiutarli a integrarsi nella città senza cadere nelle sue reti di degrado. Tali azioni ecclesiali, che nascono dall’amore, sono percorsi preziosi all’interno di un processo di inculturazione.
73. D’altra parte, l’inculturazione eleva e conferisce pienezza. Certamente va apprezzato lo spirito indigeno dell’interconnessione e dell’interdipendenza di tutto il creato, spirito di gratuità che ama la vita come dono, spirito di sacra ammirazione davanti alla natura che ci oltrepassa con tanta vita. Tuttavia, si tratta anche di far sì che questa relazione con Dio presente nel cosmo diventi sempre più la relazione personale con un Tu che sostiene la propria realtà e vuole darle un senso, un Tu che ci conosce e ci ama:
«Galleggiano ombre di me, legni morti.
Ma la stella nasce senza rimprovero
sopra le mani di questo bambino, esperte,
che conquistano le acque e la notte.
Mi basti conoscere
che Tu mi conosci
interamente, prima dei miei giorni».
74. Allo stesso modo, il rapporto con Cristo, vero Dio e vero uomo, liberatore e redentore, non è nemico di questa visione del mondo marcatamente cosmica che caratterizza questi popoli, perché Egli è anche il Risorto che penetra tutte le cose. Per l’esperienza cristiana, «tutte le creature dell’universo materiale trovano il loro vero senso nel Verbo incarnato, perché il Figlio di Dio ha incorporato nella sua persona parte dell’universo materiale, dove ha introdotto un germe di trasformazione definitiva». Egli è gloriosamente e misteriosamente presente nel fiume, negli alberi, nei pesci, nel vento, in quanto è il Signore che regna sul creato senza perdere le sue ferite trasfigurate, e nell’Eucaristia assume gli elementi del mondo conferendo a ciascuno il senso del dono pasquale.
Inculturazione sociale e spirituale
75. Questa inculturazione, vista la situazione di povertà e abbandono di tanti abitanti dell’Amazzonia, dovrà necessariamente avere un timbro fortemente sociale ed essere caratterizzata da una ferma difesa dei diritti umani, facendo risplendere il volto di Cristo che «ha voluto identificarsi con speciale tenerezza con i più deboli e i più poveri». Perché «dal cuore del Vangelo riconosciamo l’intima connessione tra evangelizzazione e promozione umana», e ciò implica per le comunità cristiane un chiaro impegno per il Regno di giustizia nella promozione delle persone scartate. A tale scopo è di estrema importanza un’adeguata formazione degli operatori pastorali nella dottrina sociale della Chiesa.
76. Allo stesso tempo, l’inculturazione del Vangelo in Amazzonia deve integrare meglio la dimensione sociale con quella spirituale, così che i più poveri non abbiano bisogno di andare a cercare fuori dalla Chiesa una spiritualità che risponda al desiderio della loro dimensione trascendente. Pertanto, non si tratta di una religiosità alienante e individualista che mette a tacere le esigenze sociali di una vita più dignitosa, ma nemmeno si tratta di tagliare la dimensione trascendente e spirituale come se all’essere umano bastasse lo sviluppo materiale. Questo ci chiama non solo a combinare le due cose, ma a collegarle intimamente. Così risplenderà la vera bellezza del Vangelo, che è pienamente umanizzante, che dà piena dignità alle persone e ai popoli, che riempie il cuore e la vita intera.
Punti di partenza per una santità amazzonica
77. Così potranno nascere testimonianze di santità con volto amazzonico, che non siano copie di modelli da altri luoghi, santità fatta di incontro e dedizione, di contemplazione e di servizio, di solitudine accogliente e di vita comune, di gioiosa sobrietà e di lotta per la giustizia. A questa santità si arriva «ciascuno a modo suo», e ciò vale anche per i popoli, dove la grazia si incarna e brilla con tratti distintivi. Immaginiamo una santità dai lineamenti amazzonici, chiamata a interpellare la Chiesa universale.
78. Un processo di inculturazione, che implica percorsi non solo individuali ma anche comunitari, richiede per la gente un amore pieno di rispetto e comprensione. In gran parte dell’Amazzonia questo processo è già stato avviato. Più di quarant’anni fa i Vescovi dell’Amazzonia del Perù hanno rilevato che in molti dei gruppi sociali presenti in quella regione «il soggetto evangelizzatore, modellato da una propria cultura multiforme e mutevole, è inizialmente evangelizzato», poiché possiede «alcuni tratti di cattolicesimo popolare che, sebbene forse in un primo tempo siano stati promossi da operatori pastorali, attualmente sono una realtà che la gente ha fatto propria e persino ne ha mutato il significato e li trasmette di generazione in generazione». Non abbiamo fretta di qualificare come superstizione o paganesimo alcune espressioni religiose che nascono spontaneamente dalla vita della gente. Piuttosto, bisogna saper riconoscere il grano che cresce in mezzo alla zizzania, perché «nella pietà popolare si può cogliere la modalità in cui la fede ricevuta si è incarnata in una cultura e continua a trasmettersi».
79. È possibile recepire in qualche modo un simbolo indigeno senza necessariamente qualificarlo come idolatrico. Un mito carico di senso spirituale può essere valorizzato e non sempre considerato un errore pagano. Alcune feste religiose contengono un significato sacro e sono spazi di riunione e di fraternità, sebbene si richieda un lento processo di purificazione e maturazione. Un vero missionario cerca di scoprire quali legittime aspirazioni passano attraverso le manifestazioni religiose a volte imperfette, parziali o sbagliate, e cerca di rispondere a partire da una spiritualità inculturata.
80. Sarà senza dubbio una spiritualità centrata sull’unico Dio e Signore, ma al tempo stesso capace di entrare in contatto con i bisogni quotidiani delle persone che cercano una vita dignitosa, che vogliono godere le belle realtà dell’esistenza, trovare la pace e l’armonia, risolvere le crisi familiari, curare le loro malattie, vedere i loro bambini crescere felici. Il peggior pericolo sarebbe allontanarli dall’incontro con Cristo presentandolo come un nemico della gioia, o come uno che è indifferente alle aspirazioni e alle angosce umane. Oggi è indispensabile mostrare che la santità non priva le persone di «forze, vita e gioia».
L’inculturazione della liturgia
81. L’inculturazione della spiritualità cristiana nelle culture dei popoli originari trova nei Sacramenti una via di particolare valore, perché in essi si incontrano il divino e il cosmico, la grazia e il creato. In Amazzonia essi non dovrebbero essere intesi come una separazione rispetto al creato. Infatti, «sono un modo privilegiato in cui la natura viene assunta da Dio e trasformata in mediazione della vita soprannaturale». Sono un compimento del creato, in cui la natura è elevata per essere luogo e strumento della grazia, per «abbracciare il mondo su un piano diverso».
82. Nell’Eucaristia, Dio «al culmine del mistero dell’Incarnazione, volle raggiungere la nostra intimità attraverso un frammento di materia. […] [Essa] unisce il cielo e la terra, abbraccia e penetra tutto il creato». Per questo motivo può essere «motivazione per le nostre preoccupazioni per l’ambiente, e ci orienta ad essere custodi di tutto il creato». Quindi «non fuggiamo dal mondo né neghiamo la natura quando vogliamo incontrarci con Dio». Questo ci consente di raccogliere nella liturgia molti elementi propri dell’esperienza degli indigeni nel loro intimo contatto con la natura e stimolare espressioni native in canti, danze, riti, gesti e simboli. Già il Concilio Vaticano II aveva richiesto questo sforzo di inculturazione della liturgia nei popoli indigeni, ma sono trascorsi più di cinquant’anni e abbiamo fatto pochi progressi in questa direzione.
83. Nella domenica «la spiritualità cristiana integra il valore del riposo e della festa. L’essere umano tende a ridurre il riposo contemplativo all’ambito dello sterile e dell’inutile, dimenticando che così si toglie all’opera che si compie la cosa più importante: il suo significato. Siamo chiamati a includere nel nostro operare una dimensione ricettiva e gratuita». I popoli originari conoscono questa gratuità e questo sano ozio contemplativo. Le nostre celebrazioni dovrebbero aiutarli a vivere questa esperienza nella liturgia domenicale e incontrare la luce della Parola e dell’Eucaristia che illumina le nostre vite concrete.
84. I Sacramenti mostrano e comunicano il Dio vicino che viene con misericordia a guarire e fortificare i suoi figli. Pertanto devono essere accessibili, soprattutto ai poveri, e non devono mai essere negati per motivi di denaro. Neppure è ammissibile, di fronte ai poveri e ai dimenticati dell’Amazzonia, una disciplina che escluda e allontani, perché in questo modo essi alla fine vengono scartati da una Chiesa trasformata in dogana. Piuttosto, «nelle difficili situazioni che vivono le persone più bisognose, la Chiesa deve avere una cura speciale per comprendere, consolare, integrare, evitando di imporre loro una serie di norme come se fossero delle pietre, ottenendo con ciò l’effetto di farle sentire giudicate e abbandonate proprio da quella Madre che è chiamata a portare loro la misericordia di Dio». Per la Chiesa, la misericordia può diventare una mera espressione romantica se non si manifesta concretamente nell’impegno pastorale.
L’inculturazione della ministerialità
85. L’inculturazione deve anche svilupparsi e riflettersi in un modo incarnato di attuare l’organizzazione ecclesiale e la ministerialità. Se si incultura la spiritualità, se si incultura la santità, se si incultura il Vangelo stesso, come fare a meno di pensare a una inculturazione del modo in cui si strutturano e si vivono i ministeri ecclesiali? La pastorale della Chiesa ha in Amazzonia una presenza precaria, dovuta in parte all’immensa estensione territoriale con molti luoghi di difficile accesso, alla grande diversità culturale, ai gravi problemi sociali, come pure alla scelta di alcuni popoli di isolarsi. Questo non può lasciarci indifferenti ed esige dalla Chiesa una risposta specifica e coraggiosa.
86. Occorre far sì che la ministerialità si configuri in modo tale da essere al servizio di una maggiore frequenza della celebrazione dell’Eucaristia, anche nelle comunità più remote e nascoste. Ad Aparecida si invitò ad ascoltare il lamento di tante comunità dell’Amazzonia «private dell’Eucaristia domenicale per lunghi periodi di tempo». Ma nello stesso tempo c’è bisogno di ministri che possano comprendere dall’interno la sensibilità e le culture amazzoniche.
87. Il modo di configurare la vita e l’esercizio del ministero dei sacerdoti non è monolitico e acquista varie sfumature in luoghi diversi della terra. Perciò è importante determinare ciò che è più specifico del sacerdote, ciò che non può essere delegato. La risposta consiste nel sacramento dell’Ordine sacro, che lo configura a Cristo sacerdote. E la prima conclusione è che tale carattere esclusivo ricevuto nell’Ordine abilita lui solo a presiedere l’Eucaristia. Questa è la sua funzione specifica, principale e non delegabile. Alcuni pensano che ciò che distingue il sacerdote è il potere, il fatto di essere la massima autorità della comunità. Ma San Giovanni Paolo II ha spiegato che, sebbene il sacerdozio sia considerato “gerarchico”, questa funzione non equivale a stare al di sopra degli altri, ma «è totalmente ordinata alla santità delle membra di Cristo». Quando si afferma che il sacerdote è segno di “Cristo capo”, il significato principale è che Cristo è la fonte della grazia: Egli è il capo della Chiesa «perché ha il potere di comunicare la grazia a tutte le membra della Chiesa».
88. Il sacerdote è segno di questo Capo che effonde la grazia anzitutto quando celebra l’Eucaristia, fonte e culmine di tutta la vita cristiana. Questa è la sua grande potestà, che può essere ricevuta soltanto nel sacramento dell’Ordine sacerdotale. Per questo lui solo può dire: «Questo è il mio corpo». Ci sono altre parole che solo lui può pronunciare: «Io ti assolvo dai tuoi peccati». Perché il perdono sacramentale è al servizio di una degna celebrazione eucaristica. In questi due Sacramenti c’è il cuore della sua identità esclusiva.
89. Nelle circostanze specifiche dell’Amazzonia, specialmente nelle sue foreste e luoghi più remoti, occorre trovare un modo per assicurare il ministero sacerdotale. I laici potranno annunciare la Parola, insegnare, organizzare le loro comunità, celebrare alcuni Sacramenti, cercare varie espressioni per la pietà popolare e sviluppare i molteplici doni che lo Spirito riversa su di loro. Ma hanno bisogno della celebrazione dell’Eucaristia, perché essa «fa la Chiesa», e arriviamo a dire che «non è possibile che si formi una comunità cristiana se non assumendo come radice e come cardine la celebrazione della sacra Eucaristia». Se crediamo veramente che è così, è urgente fare in modo che i popoli amazzonici non siano privati del Cibo di nuova vita e del Sacramento del perdono.
90. Questa pressante necessità mi porta ad esortare tutti i Vescovi, in particolare quelli dell’America Latina, non solo a promuovere la preghiera per le vocazioni sacerdotali, ma anche a essere più generosi, orientando coloro che mostrano una vocazione missionaria affinché scelgano l’Amazzonia. Nello stesso tempo, è opportuno rivedere a fondo la struttura e il contenuto sia della formazione iniziale sia della formazione permanente dei presbiteri, in modo che acquisiscano gli atteggiamenti e le capacità necessari per dialogare con le culture amazzoniche. Questa formazione dev’essere eminentemente pastorale e favorire la crescita della misericordia sacerdotale.
91. L’Eucaristia, al tempo stesso, è il grande Sacramento che significa e realizza l’unità della Chiesa, e si celebra «perché da estranei, dispersi e indifferenti gli uni agli altri, noi diventiamo uniti, eguali ed amici». Chi presiede l’Eucaristia deve curare la comunione, che non è un’unità impoverita, ma che accoglie la molteplice ricchezza dei doni e dei carismi che lo Spirito riversa nella Comunità.
92. Pertanto, l’Eucaristia, come fonte e culmine, richiede che si sviluppi questa multiforme ricchezza. C’è necessità di sacerdoti, ma ciò non esclude che ordinariamente i diaconi permanenti – che dovrebbero essere molti di più in Amazzonia –, le religiose e i laici stessi assumano responsabilità importanti per la crescita delle comunità e che maturino nell’esercizio di tali funzioni grazie ad un adeguato accompagnamento.
93. Dunque, non si tratta solo di favorire una maggiore presenza di ministri ordinati che possano celebrare l’Eucaristia. Questo sarebbe un obiettivo molto limitato se non cercassimo anche di suscitare una nuova vita nelle comunità. Abbiamo bisogno di promuovere l’incontro con la Parola e la maturazione nella santità attraverso vari servizi laicali, che presuppongono un processo di maturazione – biblica, dottrinale, spirituale e pratica – e vari percorsi di formazione permanente.
94. Una Chiesa con volti amazzonici richiede la presenza stabile di responsabili laici maturi e dotati di autorità, che conoscano le lingue, le culture, l’esperienza spirituale e il modo di vivere in comunità dei diversi luoghi, mentre lasciano spazio alla molteplicità di doni che lo Spirito Santo semina in tutti. Infatti, lì dove c’è una necessità particolare, lo Spirito ha già effuso carismi che permettano di rispondervi. Ciò richiede nella Chiesa una capacità di aprire strade all’audacia dello Spirito, di avere fiducia e concretamente di permettere lo sviluppo di una cultura ecclesiale propria, marcatamente laicale. Le sfide dell’Amazzonia esigono dalla Chiesa uno sforzo speciale per realizzare una presenza capillare che è possibile solo attraverso un incisivo protagonismo dei laici.
95. Molte persone consacrate hanno speso le loro energie e buona parte della loro vita per il Regno di Dio in Amazzonia. La vita consacrata, capace di dialogo, di sintesi, di incarnazione e di profezia, occupa un posto speciale in questa configurazione plurale e armonica della Chiesa amazzonica. Le manca, però, un nuovo sforzo di inculturazione, che metta in gioco la creatività, l’audacia missionaria, la sensibilità e la forza peculiare della vita comunitaria.
96. Le comunità di base, quando hanno saputo integrare la difesa dei diritti sociali con l’annuncio missionario e la spiritualità, sono state vere esperienze di sinodalità nel cammino evangelizzatore della Chiesa in Amazzonia. Molte volte «hanno aiutato a formare cristiani impegnati nella fede, discepoli e missionari del Signore, come testimonia la dedizione generosa, fino a versare il proprio sangue, di tanti loro membri».
97. Incoraggio l’approfondimento del compito comune che si realizza attraverso la REPAM e altre associazioni, con l’obiettivo di consolidare ciò che già chiedeva Aparecida: «Stabilire, tra le Chiese locali dei diversi Paesi sudamericani che fanno parte del bacino amazzonico, una pastorale d’insieme differenziata nelle rispettive priorità». Questo vale specialmente per le relazioni tra le Chiese limitrofe.
98. Infine, desidero ricordare che non sempre possiamo pensare a progetti per comunità stabili, perché in Amazzonia c’è una grande mobilità interna, una costante migrazione molte volte pendolare, e «la regione è diventata di fatto un corridoio migratorio». La «transumanza amazzonica non è stata ben compresa né sufficientemente analizzata dal punto di vista pastorale». Perciò occorre pensare a gruppi missionari itineranti e «sostenere l’inserimento e l’itineranza delle persone consacrate vicino ai più poveri ed esclusi». D’altra parte, questo mette alla prova le nostre comunità urbane, che dovrebbero coltivare con intelligenza e generosità, specialmente nelle periferie, diverse forme di vicinanza e di accoglienza nei confronti delle famiglie e dei giovani che arrivano dall’interno.
La forza e il dono delle donne
99. In Amazzonia ci sono comunità che si sono sostenute e hanno trasmesso la fede per lungo tempo senza che alcun sacerdote passasse da quelle parti, anche per decenni. Questo è stato possibile grazie alla presenza di donne forti e generose: donne che hanno battezzato, catechizzato, insegnato a pregare, sono state missionarie, certamente chiamate e spinte dallo Spirito Santo. Per secoli le donne hanno tenuto in piedi la Chiesa in quei luoghi con ammirevole dedizione e fede ardente. Loro stesse, nel Sinodo, hanno commosso tutti noi con la loro testimonianza.
100. Questo ci invita ad allargare la visione per evitare di ridurre la nostra comprensione della Chiesa a strutture funzionali. Tale riduzionismo ci porterebbe a pensare che si accorderebbe alle donne uno status e una partecipazione maggiore nella Chiesa solo se si desse loro accesso all’Ordine sacro. Ma in realtà questa visione limiterebbe le prospettive, ci orienterebbe a clericalizzare le donne, diminuirebbe il grande valore di quanto esse hanno già dato e sottilmente provocherebbe un impoverimento del loro indispensabile contributo.
101. Gesù si presenta come Sposo della comunità che celebra l’Eucaristia, attraverso la figura di un uomo che la presiede come segno dell’unico Sacerdote. Questo dialogo tra lo Sposo e la sposa che si eleva nell’adorazione e santifica la comunità, non dovrebbe rinchiuderci in concezioni parziali sul potere nella Chiesa. Perché il Signore ha voluto manifestare il suo potere e il suo amore attraverso due volti umani: quello del suo Figlio divino fatto uomo e quello di una creatura che è donna, Maria. Le donne danno il loro contributo alla Chiesa secondo il modo loro proprio e prolungando la forza e la tenerezza di Maria, la Madre. In questo modo non ci limitiamo a una impostazione funzionale, ma entriamo nella struttura intima della Chiesa. Così comprendiamo radicalmente perché senza le donne essa crolla, come sarebbero cadute a pezzi tante comunità dell’Amazzonia se non ci fossero state le donne, a sostenerle, a sorreggerle e a prendersene cura. Ciò mostra quale sia il loro potere caratteristico.
102. Non possiamo omettere di incoraggiare i doni di stampo popolare che hanno dato alle donne tanto protagonismo in Amazzonia, sebbene oggi le comunità siano sottoposte a nuovi rischi che non esistevano in altre epoche. La situazione attuale ci richiede di stimolare il sorgere di altri servizi e carismi femminili, che rispondano alle necessità specifiche dei popoli amazzonici in questo momento storico.
103. In una Chiesa sinodale le donne, che di fatto svolgono un ruolo centrale nelle comunità amazzoniche, dovrebbero poter accedere a funzioni e anche a servizi ecclesiali che non richiedano l’Ordine sacro e permettano di esprimere meglio il posto loro proprio. È bene ricordare che tali servizi comportano una stabilità, un riconoscimento pubblico e il mandato da parte del Vescovo. Questo fa anche sì che le donne abbiano un’incidenza reale ed effettiva nell’organizzazione, nelle decisioni più importanti e nella guida delle comunità, ma senza smettere di farlo con lo stile proprio della loro impronta femminile.
Ampliare orizzonti al di là dei conflitti
104. Accade spesso che, in un determinato luogo, gli operatori pastorali intravedano soluzioni molto diverse per i problemi che affrontano, e perciò propongano forme di organizzazione ecclesiale apparentemente opposte. Quando succede questo, è probabile che la vera risposta alle sfide dell’evangelizzazione stia nel superare tali proposte, cercando altre vie migliori, forse non immaginate. Il conflitto si supera ad un livello superiore dove ognuna delle parti, senza smettere di essere fedele a sé stessa, si integra con l’altra in una nuova realtà. Tutto si risolve «su di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in contrasto». Altrimenti il conflitto ci blocca, «perdiamo la prospettiva, gli orizzonti si limitano e la realtà stessa resta frammentata».
105. In nessun modo questo significa relativizzare i problemi, fuggire da essi o lasciare le cose come stanno. Le autentiche soluzioni non si raggiungono mai annacquando l’audacia, sottraendosi alle esigenze concrete o cercando colpe esterne. Al contrario, la via d’uscita si trova per “traboccamento”, trascendendo la dialettica che limita la visione per poter riconoscere così un dono più grande che Dio sta offrendo. Da questo nuovo dono, accolto con coraggio e generosità, da questo dono inatteso che risveglia una nuova e maggiore creatività, scaturiranno, come da una fonte generosa, le risposte che la dialettica non ci lasciava vedere. Ai suoi inizi, la fede cristiana si è diffusa mirabilmente seguendo questa logica, che le ha permesso, a partire da una matrice ebraica, di incarnarsi nelle culture greca e romana e di assumere al suo passaggio differenti modalità. Analogamente, in questo momento storico, l’Amazzonia ci sfida a superare prospettive limitate, soluzioni pragmatiche che rimangono chiuse in aspetti parziali delle grandi questioni, al fine di cercare vie più ampie e coraggiose di inculturazione.
La convivenza ecumenica e interreligiosa
106. In un’Amazzonia multi-religiosa, i credenti hanno bisogno di trovare spazi per dialogare e agire insieme per il bene comune e la promozione dei più poveri. Non si tratta di renderci tutti più light o di nascondere le convinzioni proprie, alle quali siamo più legati, per poterci incontrare con altri che pensano diversamente. Se uno crede che lo Spirito Santo può agire in chi è diverso, allora proverà a lasciarsi arricchire da quella luce, ma la accoglierà dall’interno delle sue convinzioni e dalla sua identità. Perché tanto più profonda, solida e ricca è un’identità, tanto più potrà arricchire gli altri con il suo peculiare contributo.
107. Come cattolici possediamo un tesoro nelle Sacre Scritture che altre religioni non accettano, benché a volte siano capaci di leggerle con interesse e anche di apprezzare alcuni dei loro contenuti. Qualcosa di simile cerchiamo di fare noi con i testi sacri di altre religioni e comunità religiose, dove si trovano «quei precetti e quelle dottrine che […] non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini». Abbiamo anche una grande ricchezza nei sette Sacramenti, che alcune comunità cristiane non accettano nella loro totalità o in un identico significato. Mentre crediamo fermamente in Gesù come unico Redentore del mondo, coltiviamo una profonda devozione verso sua Madre. Pur sapendo che ciò non avviene in tutte le confessioni cristiane, sentiamo il dovere di comunicare all’Amazzonia la ricchezza del caldo amore materno del quale ci sentiamo depositari. Infatti concluderò questa Esortazione con alcune parole rivolte a Maria.
108. Tutto questo non dovrebbe farci diventare nemici. In un vero spirito di dialogo si alimenta la capacità di comprendere il significato di ciò che l’altro dice e fa, pur non potendo assumerlo come una propria convinzione. Così diventa possibile essere sinceri, non dissimulare ciò in cui crediamo, senza smettere di dialogare, di cercare punti di contatto, e soprattutto di lavorare e impegnarsi insieme per il bene dell’Amazzonia. La forza di ciò che unisce tutti i cristiani ha un valore immenso. Prestiamo tanta attenzione a quello che ci divide che a volte non apprezziamo e non valorizziamo quello che ci unisce. E quanto ci unisce è ciò che ci permette di essere nel mondo senza che ci divorino l’immanenza terrena, il vuoto spirituale, il comodo egocentrismo, l’individualismo consumista e autodistruttivo.
109. Come cristiani, ci unisce tutti la fede in Dio, il Padre che ci dà la vita e ci ama tanto. Ci unisce la fede in Gesù Cristo, l’unico Redentore, che ci ha liberato con il suo sangue benedetto e la sua risurrezione gloriosa. Ci unisce il desiderio della sua Parola che guida i nostri passi. Ci unisce il fuoco dello Spirito che ci spinge alla missione. Ci unisce il comandamento nuovo che Gesù ci ha lasciato, la ricerca di una civiltà dell’amore, la passione per il Regno che il Signore ci chiama a costruire con Lui. Ci unisce la lotta per la pace e la giustizia. Ci unisce la convinzione che non si esaurisce tutto in questa vita, ma che siamo chiamati alla festa celeste dove Dio asciugherà ogni lacrima e raccoglierà quanto abbiamo fatto per coloro che soffrono.
110. Tutto questo ci unisce. Come non lottare insieme? Come non pregare insieme e lavorare fianco a fianco per difendere i poveri dell’Amazzonia, per mostrare il volto santo del Signore e prenderci cura della sua opera creatrice?
CONCLUSIONE – LA MADRE DELL’AMAZZONIA
111. Dopo aver condiviso alcuni sogni, esorto tutti a procedere su vie concrete che permettano di trasformare la realtà dell’Amazzonia e di liberarla dai mali che la affliggono. Ora eleviamo lo sguardo a Maria. La Madre che Cristo ci ha lasciato, pur essendo l’unica Madre di tutti, si manifesta in Amazzonia in diversi modi. Sappiamo che «gli indigeni hanno un incontro vivo con Cristo attraverso molte vie; ma la via mariana ha contribuito più di tutte a questo incontro». Di fronte alla bellezza dell’Amazzonia, che abbiamo scoperto sempre meglio durante la preparazione e lo svolgimento del Sinodo, credo che la cosa migliore sia concludere questa Esortazione rivolgendoci a lei:
Madre della vita,
nel tuo seno materno si è formato Gesù,
che è il Signore di tutto quanto esiste.
Risorto, Lui ti ha trasformato con la sua luce
e ti ha fatta regina di tutto il creato.
Per questo ti chiediamo, o Maria,
di regnare nel cuore palpitante dell’Amazzonia.
Mostrati come madre di tutte le creature,
nella bellezza dei fiori, dei fiumi,
del grande fiume che l’attraversa
e di tutto ciò che freme nelle sue foreste.
Proteggi col tuo affetto questa esplosione di bellezza.
Chiedi a Gesù che effonda tutto il suo amore
sugli uomini e sulle donne che vi abitano,
perché sappiano ammirarla e custodirla.
Fa’ che il tuo Figlio nasca nei loro cuori,
perché risplenda nell’Amazzonia,
nei suoi popoli e nelle sue culture,
con la luce della sua Parola, col conforto del suo amore,
col suo messaggio di fraternità e di giustizia.
Che in ogni Eucaristia
si elevi anche tanta meraviglia
per la gloria del Padre.
Madre, guarda i poveri dell’Amazzonia,
perché la loro casa viene distrutta
per interessi meschini.
Quanto dolore e quanta miseria,
quanto abbandono e quanta prepotenza
in questa terra benedetta,
traboccante di vita!
Tocca la sensibilità dei potenti
perché, se anche sentiamo che è già tardi,
tu ci chiami a salvare
ciò che ancora vive.
Madre del cuore trafitto,
che soffri nei tuoi figli oltraggiati
e nella natura ferita,
regna tu in Amazzonia
insieme al tuo Figlio.
Regna perché nessuno più si senta padrone
dell’opera di Dio.
In te confidiamo, Madre della vita,
non abbandonarci
in questa ora oscura.
Amen.
Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, il 2 febbraio, Festa della Presentazione del Signore, dell’anno 2020, settimo del mio Pontificato.