Alle 9 di venerdì 15 e venerdì 22 dicembre, nell’Aula Paolo VI, il Card. Padre Raniero Cantalamessa (O.F.M. Cap.), Predicatore della Casa Pontificia, presente Francesco, ha tenuto due prediche di Avvento: “Preparate le vie del Signore”. Verso il Natale in compagnia del Precursore e della Madre di Cristo:Voce di uno che grida nel deserto. Giovanni Battista, il moralista e il profeta (15 dicembre) e Beata te che hai creduto (22 dicembre). Di seguito, i testi.

Prima Predica di Avvento

“Preparate le vie del Signore”. 

Verso il Natale in compagnia del Precursore e della Madre di Cristo.

(Venerdì 15 dicembre 2023)

Voce di uno che grida nel deserto.

Giovanni Battista, il moralista e il profeta

Nella liturgia dell’Avvento si nota una progressione. Nella prima settimana, la figura di spicco è il profeta Isaia, colui che annuncia da lontano la venuta del Salvatore; nella seconda e terza domenica, la guida è Giovanni Battista, il precursore; nella quarta settimana, l’attenzione si concentra tutta su Maria. Avendo, quest’anno, due sole meditazioni a disposizione, ho pensato di dedicarle a loro due: al Precursore e alla Madre.

Nelle iconostasi dei fratelli Ortodossi, i due stanno uno a destra e l’altro a sinistra di Cristo e spesso sono rappresentati come due “uscieri” ai lati della porta che immette nel recinto sacro.

Giovanni Battista, predicatore di conversione

Nei Vangeli, il Precursore ci appare in due ruoli diversi: quello di predicatore di conversione e quello di profeta. Dedico la prima parte della riflessione a Giovanni  moralista, la seconda a Giovanni profeta.

Alcuni versetti del Vangelo di Luca sono sufficienti a darci una idea della predicazione del Battista:
Alle folle che andavano a farsi battezzare da lui, Giovanni diceva: “Razza di vipere, chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque frutti degni della conversione… Le folle lo interrogavano: “Che cosa dobbiamo fare?”. Rispondeva loro: “Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto”.

Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: “Maestro, che cosa dobbiamo fare?”. Ed egli disse loro: “Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato”. Lo interrogavano anche alcuni soldati: “E noi, che cosa dobbiamo fare?”. Rispose loro: “Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe” (Lc 3,7-14).
Il Vangelo permette di vedere cosa distingue, su questo punto, la predicazione del Battista da quella di Gesù. Il salto di qualità è espresso nel modo più chiaro dallo stesso Gesù:
La Legge e i Profeti fino a Giovanni: da allora in poi viene annunciato il regno di Dio e ognuno si sforza di entrarvi (Lc 16,16).


Dobbiamo guardarci da semplicistiche contrapposizioni tra Legge e Vangelo. Subito dopo l’affermazione appena citata, Gesù (o almeno l’evangelista) aggiunge: “È più facile che passino il cielo e la terra, anziché cada un solo trattino della Legge” (Lc 16, 17). Il Vangelo non abolisce la legge, cioè, concretamente, i comandamenti di Dio; ma inaugura una relazione nuova e diversa con essi, un modo nuovo di osservarli.

Ciò che è nuovo è l’ordine tra il comandamento e il dono, cioè tra la legge e la grazia. Alla base della predicazione del Battista c’è l’affermazione: “Convertitevi e così il regno di Dio verrà a voi!”; alla base della predicazione di Gesù c’è l’affermazione: “Convertitevi perché il regno di Dio è venuto a voi!” (Ricordiamo l’affermazione di Gesù appena citata: “La Legge e i Profeti fino a Giovanni: da allora in poi viene annunciato il regno di Dio e ognuno si sforza di entrarvi”).

Non è una differenza solo cronologica, come tra un prima e un dopo; si tratta di una differenza anche assiologica, cioè di valore. Vuole dire che non è l’osservanza dei comandamenti che permette al regno di Dio di venire; ma è la venuta del regno di Dio che permette l’osservanza dei comandamenti. Gli uomini non sono improvvisamente cambiati e diventati migliori, sicché il Regno è potuto venire sulla terra. No, essi sono quelli di sempre, ma è Dio che, nella pienezza dei tempi, ha inviato il suo Figlio, dando loro così la possibilità di cambiare e vivere una vita nuova.

“La legge, infatti, fu data per mezzo di Mosè, ma la grazia [s’intende, di osservarla] viene da Gesù Cristo”, scrive l’evangelista Giovanni (Gv 1, 17). Amare Dio con tutto il cuore è “il primo e più grande comandamento”; ma l’ordine dei comandamenti non è il primo ordine, o il primo livello: al di sopra di esso c’è l’ordine del dono: “Noi amiamo perché egli ci ha amato per primo” (1Gv 4, 19).

È interessante vedere come questa novità di Cristo si riflette nel diverso atteggiamento del Battista e di Gesù nei confronti dei cosiddetti “peccatori”. Giovanni, abbiamo sentito, investe i peccatori che vanno da lui con parole di fuoco. È Gesù stesso che fa notare la differenza, su questo punto, tra lui e il Precursore: “È venuto Giovanni, che non mangia e non beve, e dicono: “È indemoniato”. È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: “Ecco, è un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori” (Mt 11, 18-19, cf. Lc7, 34). “Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?”, dicevano i farisei ai suoi discepoli” (Mt 9,11).

Gesù non aspetta che i peccatori cambino vita per poterli accogliere; ma li accoglie e questo porta i peccatori a cambiare vita. Tutti e quattro i Vangeli – Sinottici e Giovanni – sono unanimi su ciò. Gesù non aspetta che la Samaritana metta in ordine la sua vita privata, prima di intrattenersi con lei e chiederle addirittura di dargli da bere. Ma così facendo ha cambiato il cuore di quella donna che diventa una evangelizzatrice tra la sua gente. La stessa cosa avviene con Zaccheo, con Matteo il pubblicano, e con la peccatrice anonima che gli bacia i piedi in casa di Simone e con l’adultera.

Non possiamo trarre da questi esempi una norma assoluta. (Gesù era Gesù e leggeva nei cuori; noi non siamo Gesù!). La Chiesa non può prescindere, tuttavia, dal suo stile, senza ritrovarsi al fianco di Giovanni Battista, anziché a quello di Cristo. Gesù disapprova il peccato infinitamente di più di quanto possano fare i più rigidi moralisti, ma ha proposto nel Vangelo un rimedio nuovo: non l’allontanamento, ma l’accoglienza. Il cambiamento di vita non è la condizione per accostarsi a Gesù nei Vangeli; deve però essere il risultato (o almeno il proposito) dopo essersi accostati a lui. La misericordia di Dio, infatti, è senza condizioni, ma non è senza conseguenze!

Su questo punto la Santa Madre Chiesa ha molto da imparare dalle madri e dai padri di famiglia di oggi. Conosciamo tutti i drammi che lacerano tanti genitori di oggi: figli che, nonostante il loro buon esempio di vita cristiana e i loro buoni consigli, prendono una strada diversa dalla loro, distruggendo se stessi con droga, abuso del sesso, scelte precoci che si rivelano sbagliate e spesso tragiche…Forse che per questo essi chiudono loro la porta in faccia e li scacciano di casa? Non possono fare altro che rispettare la loro scelta, come la rispetta Dio prima di loro, e continuare ad amarli. Questa situazione drammatica della società si riflette in quella della Chiesa. Siamo chiamati a scegliere tra il modello di Giovanni Battista e il modello di Gesù, tra il dare la preminenza alla legge, o darla alla grazia e alla misericordia.

C’è un punto sul quale non c’è da scegliere, perché Giovanni e Gesù sono perfettamente d’accordo. Su di esso anche noi dovremmo alzare la voce. Si tratta di quello che Giovanni esprime con le parole: “Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto” (Lc 3, 11) e che Gesù inculca con la parabola del ricco epulone e con la descrizione del giudizio finale in Matteo 25.

Giovanni Battista, “più che un profeta”

Adesso passiamo al secondo ruolo, o titolo, di Giovanni Battista. Egli – dicevo – non è solo un moralista e un predicatore di penitenza; è anche e soprattutto un profeta: “Tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo”, dice di lui suo padre Zaccaria (Lc 1, 75). Gesù lo definisce addirittura “più che un profeta” (Lc 7, 26).

In che senso, potremmo chiederci, Giovanni Battista è un profeta? Dove risiede la profezia nel suo caso? I profeti annunciavano una salvezza futura. Ma Giovanni Battista non annuncia una salvezza futura; egli addita uno che è presente. In che senso allora si può chiamare profeta? Isaia, Geremia, Ezechiele aiutavano il popolo a superare e oltrepassare la barriera del tempo; Giovanni Battista, aiuta il popolo ad oltrepassare la barriera, ancora più spessa, delle apparenze contrarie. Il Messia tanto atteso, quello annunciato dai profeti, promesso nei Salmi, sarebbe dunque quell’uomo dalle apparenze così dimesse?

È facile credere a qualcosa di grandioso, di divino, quando si prospetta in un futuro indefinito – “in quei giorni”, “negli ultimi giorni”… –, in una cornice cosmica, con i cieli che stillano dolcezza e la terra che si apre per fare germogliare il Salvatore. Più difficile è quando si deve dire: “Ora! È qui! È questo!” L’uomo è immediatamente tentato di dire: “Tutto qui? “Da Nazareth – dicevano – può venire qualcosa di buono?”.

È lo scandalo dell’umiltà di Dio che si rivela “sotto apparenze contrarie”, per confondere l’orgoglio e “la volontà di potenza” degli uomini. Credere che quell’uomo che hanno visto poco prima mangiare, dormire, forse perfino sbadigliare al risveglio, è il Messia, l’atteso da tutti; credere che si è giunti al dunque della storia: questo richiedeva un coraggio profetico più grande di quello di Isaia. Si tratta di un compito sovrumano; si capisce la grandezza del precursore e perché è definito “più che un profeta”.

Tutti e quattro i Vangeli mettono in rilievo la duplice veste di Giovanni Battista, quella di moralista e quella di profeta. Ma mentre i Sinottici insistono di più sulla prima, il Quarto Vangelo insiste di più sulla seconda. Giovanni Battista è l’uomo dell’“Eccolo!”. “Ecco l’uomo di cui io dissi…Ecco l’Agnello di Dio!” (Gv 1, 15.29). Che brivido dovette correre per il corpo di coloro che, con queste o altre parole simili, ricevettero per primi la rivelazione.

Era come un corto circuito: passato e futuro, attesa e compimento si toccavano.

Che cosa insegna a noi Giovanni Battista come profeta? Io credo che egli ci ha lasciato in eredità il suo compito profetico. Dicendo: “In mezzo a voi c’è uno che voi non conoscete!” (Gv 1, 26), ha inaugurato la nuova profezia cristiana che non consiste nell’annunciare una salvezza futura, ma nel rivelare una presenza nascosta, la presenza di Cristo nel mondo e nella storia, nello strappare il velo dagli occhi della gente, quasi gridando, con parole che riecheggiano quelle di Isaia: ” Dio ha fatto una cosa nuova. Non ve ne accorgete?” (cf. Is 43, 19).

Gesù ha detto: “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”. Egli è in mezzo a noi; è nel mondo e il mondo anche oggi, dopo duemila anni, non lo riconosce. C’è una frase di Cristo che ha sempre inquietato i credenti. “Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18, 8). Ma Gesù non parla qui della sua venuta alla fine del mondo.

Nei discorsi cosiddetti escatologici, si intrecciano due prospettive: quella della venuta finale di Cristo e quella della sua venuta come risorto e glorificato dal Padre: la sua venuta “con potenza secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione” (Rom 1, 4), come la definisce san Paolo, in contrasto con la venuta precedente “secondo la carne”. È riferendosi a questa venuta secondo lo Spirito, che Gesù può dire: “Non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga” (Mt 24, 34).

Quella frase inquietante di Gesù non interpella perciò i nostri posteri, quelli che si troveranno a vivere al momento del suo ritorno finale; interpella i nostri antenati e interpella i nostri contemporanei, noi compresi. Nonostante la sua risurrezione e i prodigi che accompagnarono l’inizio della Chiesa, trovò fede, Gesù, tra i suoi? Nonostante due mila anni della sua presenza nel mondo e tutte le conferme della storia, trova ancora fede sulla terra, specie tra i cosiddetti “intellettuali”? Il compito profetico della Chiesa sarà lo stesso di Giovanni Battista, fino alla fine del mondo: scuotere ogni generazione dalla sua terribile distrazione e cecità che impedisce di riconoscere e vedere la luce del mondo.
Al tempo di Giovanni lo scandalo derivava dal corpo fisico di Gesù; dalla sua carne così simile alla nostra, eccetto il peccato. Anche oggi è il suo corpo, la sua carne a scandalizzare: il suo corpo mistico, la Chiesa, così simile al resto dell’umanità, non escluso neppure il peccato. Come Giovanni Battista fece riconoscere Cristo sotto l’umiltà della carne ai suoi contemporanei, così è necessario oggi farlo riconoscere nella povertà della Chiesa e della nostra stessa vita.

Un’evangelizzazione nuova nel fervore

San Giovanni Paolo II ha caratterizzato la nuova evangelizzazione come un’evangelizzazione – cito – “nuova nel fervore, nuova nei metodi e nuova nelle espressioni”. Giovanni Battista ci è maestro soprattutto nella prima di queste tre cose, il fervore. Egli non è un grande teologo; ha una cristologia assai rudimentale. Non conosce ancora i titoli più alti di Gesù: Figlio di Dio, Verbo, e neppure quello di Figlio dell’uomo.
Usa immagini semplicissime. “Non sono degno – dice – di sciogliergli i legacci dei sandali…“. Ma, nonostante la povertà della sua teologia, come riesce a fare sentire la grandezza e unicità di Cristo! Il mondo e l’umanità appaiono, dalle sue parole, contenuti tutti come dentro un ventilabro, o un vaglio, che egli, il Messia, regge e scuote nelle sue mani. Davanti a lui si decide chi sta e chi cade, chi è grano buono e chi è pula che il vento disperde. Alla maniera di Giovanni Battista, tutti possono essere evangelizzatori!

Commentando le parole di san Giovanni Paolo II che ho ricordato, qualcuno, a suo tempo, fece notare che la nuova evangelizzazione può e deve essere, sì, nuova “nel fervore, nel metodo e nell’espressione”, ma non nei contenuti che restano quelli di sempre e che derivano dalla rivelazione. In altre parole: che ci può e deve essere una nuova evangelizzazione, ma non un nuovo Vangelo.

Tutto ciò è vero. Non ci possono essere contenuti veramente e totalmente nuovi. Ci possono, però, essere contenuti nuovi, nel senso che in passato non erano messi abbastanza in luce, che erano rimasti nell’ombra, poco valorizzati. San Gregorio Magno diceva: “Scriptura cum legentibus crescit” (Moralia in Job, 20, 1, 1), la Scrittura cresce con chi la legge. E in un altro passo spiega anche il perché. “Infatti – dice – uno comprende [le Scritture] tanto più profondamente quanto più profonda è l’attenzione che ad essi rivolge” (Hom in Ez. I, 7,8). Questa crescita si realizza anzitutto a livello personale nella crescita in santità; ma si realizza anche a livello universale, a misura che la Chiesa avanza nella storia.

Quello che rende così difficile talvolta accettare la “crescita” di cui parla Gregorio Magno, è la scarsa attenzione che si dà alla storia dello sviluppo della dottrina cristiana dalle origini ad oggi, o una conoscenza assai superficiale di essa. Tale storia dimostra, infatti, che la crescita c’è sempre stata, come dimostrò in un suo famoso saggio il cardinale John Newman.

La Rivelazione – Scrittura e Tradizione insieme – cresce a seconda delle istanze e provocazioni che le sono poste nel corso della storia. Gesù ha promesso agli apostoli che il Paraclito li avrebbe guidati “alla verità tutta intera” (Gv 16, 13), ma non ha precisato in quanto tempo: se in una o due generazioni, o, invece – come tutto sembra indicare – per tutto il tempo che la Chiesa è pellegrina sulla terra.

La predicazione di Giovanni Battista ci offre l’occasione per una osservazione attuale e importante proprio a proposito di questa “crescita” della parola di Dio che lo Spirito Santo opera nella storia. La tradizione liturgica e teologica ha raccolto, di lui, soprattutto il grido: “Ecco l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo!”. La Liturgia ce lo ripropone a ogni Messa prima della comunione, dopo che per ben tre volte il popolo ha cantato per conto suo: “Agnello di Dio che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi”.

In realtà, però, questa è solo metà della profezia del Battista su Cristo. Egli definisce il Cristo, quasi d’un sol fiato, e in tutti e quattro i Vangeli, come colui “che battezza in Spirito Santo!” (cf. Gv 1, 33; cf. Mt 3, 11). La salvezza cristiana non è, dunque, solo qualcosa di negativo, un “togliere il peccato”. È soprattutto qualcosa di positivo: è un “dare”, un infondere vita nuova, vita dello Spirito. È una rinascita.

La distruzione del peccato appare la via e la condizione per il dono dello Spirito che è lo scopo ultimo, il dono supremo. Il capitolo terzo della Lettera ai Romani sulla giustificazione dell’empio, non deve mai essere disgiunto dal capitolo ottavo sul dono dello Spirito, con quel messaggio liberante che dovrebbe risuonare più spesso nella nostra predicazione: “Non c’è più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù, poiché la legge dello Spirito che dà la vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rom 8, 1-2).

Certo, questo aspetto positivo non è stato mai dimenticato. Ma forse non sempre si è insistito abbastanza su di esso. Abbiamo corso il rischio, nella spiritualità occidentale, di vedere il cristianesimo, soprattutto in chiave “negativa”, come la soluzione del problema del peccato originale; come qualcosa, perciò, di tetro e di deprimente. Si spiega così, almeno in parte, il suo rigetto da parte di larghi settori della cultura, come quelli rappresentati, in filosofia, da Nietzsche e, in letteratura, dal drammaturgo norvegese Ibsen. La maggiore attenzione all’azione dello Spirito Santo e ai suoi carismi che da qualche tempo è in atto in tutte le Chiese cristiane è un esempio concreto della Scrittura che “cresce con chi la legge”.

I santi amano continuare, dal cielo, la missione che svolsero da vivi sulla terra. Santa Teresa di Gesù Bambino – di cui ricorre quest’anno il 150° anniversario della nascita – pose ciò come una specie di condizione a Dio per andare in cielo. San Giovanni Battista ama, anche lui, fare ancora il precursore di Cristo, ama preparargli le strade. Prestiamogli la nostra voce!

Contemplando, nella Deesis, l’icona del Precursore con le mani protese verso il Cristo e lo sguardo supplice, la Chiesa Ortodossa rivolge a lui questa preghiera che possiamo fare nostra:
Quella mano che ha toccato il capo del Signore e con la quale ci hai indicato il Salvatore, stendila ora, o Battista, verso di lui in nostro favore, in virtù di quella sicurezza di cui godi largamente, poiché, secondo la sua stessa testimonianza, tu fosti il più grande di tutti i profeti; gli occhi che hanno visto lo Spirito Santo disceso in forma di colomba, volgili a lui, o Battista affinché egli ci manifesti la sua grazia.

Seconda Predica di Avvento

“Preparate le vie del Signore”. 

Verso il Natale in compagnia del Precursore e della Madre di Cristo.

(Venerdì 22 dicembre 2023)

BEATA COLEI CHE HA CREDUTO

Dopo il Precursore Giovanni Battista, oggi ci facciamo prendere per mano dalla Madre di Gesù per “entrare” nel mistero del Natale. Nel Vangelo della scorsa Domenica, la Quarta di Avvento, abbiamo ascoltato il racconto dell’Annunciazione. Esso ci ricorda come Maria concepì e diede alla luce il Cristo e come possiamo concepirlo e darlo alla luce noi, e cioè mediante la fede! Riferendosi a questo momento, Elisabetta, di lì a poco esclamerà: “Beata colei che ha creduto” (Lc 1, 45).

Si è ripetuto, purtroppo, circa la fede di Maria, quello che era avvenuto con la persona di Gesù. Siccome gli eretici ariani cercavano ogni pretesto per mettere in dubbio la piena divinità di Cristo, per togliere loro ogni appiglio, i Padri diedero a volte una spiegazione “pedagogica” di tutti quei testi del Vangelo che sembravano ammettere un progresso di Gesù nella conoscenza della volontà del Padre e nell’obbedienza ad essa. Uno di questi testi era quello della Lettera agli Ebrei, secondo cui Gesù “imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb5, 8), un altro la preghiera di Gesù nel Getsemani. In Gesù, tutto doveva essere dato e perfetto in partenza. Da buoni Greci, pensavano che il divenire non può incidere sull’essere delle cose.

Qualcosa di simile, dicevo, si è ripetuto, tacitamente, per la fede di Maria. Si dava per scontato che lei avesse compiuto il suo atto di fede al momento dell’Annunciazione e in esso fosse rimasta stabile per tutta la vita, come chi, con la sua voce, ha raggiunto di slancio la nota più acuta e la mantiene poi interrottamente per tutto il resto del canto. Si dava una spiegazione rassicurante di tutte le parole che sembravano dire il contrario.
Il dono che lo Spirito Santo ha fatto alla Chiesa, con il rinnovamento della Mariologia, è stato la scoperta di una dimensione nuova della fede di Maria. La Madre di Dio – ha affermato il Concilio Vaticano II – ”avanzò nella peregrinazione della fede” (LG, 58). Non ha creduto una volta per tutte, ma ha camminato nella fede e progredito in essa. L’affermazione è stata ripresa e resa più esplicita da san Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris Mater:

Le parole di Elisabetta: “E beata colei che ha creduto” non si applicano solo a quel particolare momento dell’annunciazione. Certamente questa rappresenta il momento culminante della fede di Maria in attesa di Cristo, ma è anche il punto di partenza, da cui inizia tutto il suo itinerario verso Dio, tutto il suo cammino di fede. (RM, 14).

In questo cammino Maria è giunta, scriveva il papa, fino alla “notte della fede” (RM, 18).

Sono note e spesso ripetute le parole di sant’Agostino sulla fede di Maria:
“La Vergine Maria partorì credendo, quel che aveva concepito credendo (“quem credendo peperit, credendo concepit”)…. Dopo che l’angelo ebbe parlato, ella, piena di fede, concependo Cristo prima nel cuore che nel grembo, rispose: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me secondo la tua parola”[1].

Dobbiamo completare la lista con quello che accadde dopo l’Annunciazione e il Natale: per fede Maria presentò il Bambino al tempio, per fede lo seguì, tenendosi in disparte, nella sua vita pubblica, per fede stette sotto la croce, per fede attese la sua risurrezione.

Riflettiamo su alcuni momenti del cammino di fede della Madre di Dio. Ci sono fatti apparentemente contrastanti che Maria confronta dentro di sé, senza comprendere. È “il Figlio di Dio” e giace in una mangiatoia! Lei conserva tutto nel suo cuore e lascia che fermenti nell’attesa. Sentirà la profezia di Simeone e presto si accorgerà di quanto fosse vera! Tutti gli alti e bassi della vita del figlio, tutte le incomprensioni, le progressive diserzioni intorno a lui, hanno avuto una profonda ripercussione nel suo cuore di Madre.

Incomincia a farne esperienza dolorosa nello smarrimento di Gesù al tempio: “Disse loro: ‘Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?’ Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro” (Lc 2, 49-50).

Infine c’è la croce. È là, impotente davanti al martirio del figlio, ma acconsente all’amore. È una replica del dramma di Abramo, ma quanto immensamente più esigente! Con Abramo Dio si ferma all’ultimo momento, con lei no. Accetta che il figlio sia immolato, lo consegna al Padre, col cuore affranto, ma in piedi, forte della sua fede incrollabile. È qui che la voce di Maria tocca la nota più alta. Di Maria si deve dire con ben maggiore ragione ciò che l’Apostolo dice di Abramo: Maria credette, sperando contro ogni speranza, e così divenne madre di molti popoli (Rm 4, 18).

C’è stato un tempo in cui la grandezza di Maria era vista soprattutto nei privilegi che si faceva a gara nel moltiplicare, con il risultato di distanziarla, anziché “associarla”, a Cristo, il quale si era fatto “in tutto simile a noi”, nulla escluso, neppure la tentazione, ma solo il peccato. Il Concilio ci ha orientato a vedere la sua grandezza soprattutto nella sua fede, speranza e carità. Dice la Lumen gentium:

“Concependo Cristo, generandolo, nutrendolo, presentandolo al Padre nel tempio, soffrendo col Figlio suo morente in croce, ella cooperò in modo tutto speciale all’opera del Salvatore, con l’obbedienza, la fede, la speranza e l’ardente carità, per restaurare la vita soprannaturale delle anime. Per questo ella è diventata per noi madre nell’ordine della grazia” (LG, 61).

“Crediamo anche noi!”

Il rinnovamento della Mariologia operato dal Vaticano II deve molto (forse l’essenziale) a sant’Agostino. Fu la sua autorità che spinse alcuni teologi e poi l’assemblea conciliare a inserire il discorso su Maria all’interno della costituzione sulla Chiesa, la Lumen gentium, anziché fare su di lei un discorso a parte. Partendo dal principio che “il tutto è superiore a una parte”, Agostino aveva scritto:

“Santa è Maria, beata è Maria, ma più importante è la Chiesa che non la Vergine Maria. Perché? Perché Maria è una parte della Chiesa, un membro santo, eccellente, superiore a tutti gli altri, ma tuttavia un membro di tutto il corpo. Se è un membro di tutto il corpo, senza dubbio più importante d’un membro è il corpo”[2].

Adesso è lo stesso sant’Agostino a suggerirci, la risoluzione da prendere dopo aver ripercorso a brevi tratti il cammino di fede della Madre di Dio. Alla fine del suo discorso sulla fede di Maria, egli rivolge ai suoi ascoltatori una vibrante esortazione che vale anche per noi: “Maria credette, e in lei quel che credette si avverò. Crediamo anche noi, perché quel che si avverò in lei possa giovare anche a noi!”[3].

Il Quarto centenario della nascita di Blaise Pascal – che il Santo Padre ha voluto ricordare alla Chiesa con la sua Lettera Apostolica del 19 Giugno scorso – ci aiuta a dare un contenuto attuale all’esortazione: “Crediamo anche a noi”. Tra i “Pensieri” più famosi di Pascal c’è il seguente:

“Le coeur a ses raisons que la raison ne connaît point. Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce […] C’est le coeur qui sent Dieu et non la raison. Il cuore, e non la ragione, sente Dio”[4]. Ecco cos’è la fede: Dio sentito dal cuore e non dalla ragione.

Questa affermazione è ardita, ma ha il più autorevole fondamento possibile, quello della Sacra Scrittura! L’apostolo Paolo conosce e usa spesso la parola nous, che corrisponde al moderno concetto di mente, intelligenza o ragione; ma, parlando della fede, non dice “mente creditur”, con la mente si crede; dice corde creditur (kardia gar pisteùetai), con il cuore si crede (Rom 10, 19).

Dio “è sentito dal cuore e non dalla ragione”, come dice Pascal, per il semplice motivo che “Dio è amore” e l’amore non si percepisce con l’intelletto, ma con il cuore. È vero che Dio è anche verità (“Dio è luce”, scrive Giovanni nella stessa sua Prima Lettera) e la verità si percepisce con l’intelletto; ma mentre l’amore suppone la conoscenza, la conoscenza non suppone necessariamente l’amore. Non si può amare senza conoscere, ma si può conoscere senza amare! Lo sa bene una civiltà come la nostra, orgogliosa di aver inventato l’intelligenza artificiale, ma così povera di amore e di compassione.

Non sono, purtroppo, “le ragioni del cuore” di Pascal che hanno plasmato il pensare laico e teologico degli ultimi tre secoli, ma piuttosto il “penso, perciò esisto” (cogito ergo sum) del suo compatriota Cartesio, anche se contro l’intenzione di quest’ultimo che era e rimase sempre un pio cristiano e un credente. (Ricordo di aver letto il suo nome nella lista dei pellegrini famosi al santuario della Madonna di Loreto).

La conseguenza è stata che il razionalismo ha dominato e dettato legge, prima di approdare all’attuale nichilismo. Tutti i discorsi e i dibattiti che si fanno, anche oggi, vertono su “Fede e Ragione”, mai, che io sappia, su “Fede e cuore”, o “Fede e volontà”. Lo stesso Pascal, tuttavia, in un altro suo pensiero, dice che la fede è abbastanza chiara per chi vuole credere, e abbastanza oscura per chi non vuole credere[5]. Essa, in altre parole, è una questione di volontà, più che di ragione e intelletto.

Vorrei, a questo punto, accennare a una seconda lezione lasciataci da Pascal e che il Santo Padre mette fortemente in luce nella sua Lettera Apostolica: la centralità di Cristo per la fede cristiana: “Conosciamo Dio – scrive il filosofo – solo per mezzo di Gesù Cristo. Senza questo mediatore è esclusa ogni comunicazione con Dio”. E nel cosiddetto Memoriale, eco di una memorabile notte di luce, egli esclama: “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti…Lo si trova soltanto per le vie insegnate dal Vangelo”[6].
Pascal è spesso citato a proposito del “rischio calcolato”, o della scommessa vantaggiosa. Nell’incertezza, scrive, scommetti sull’esistenza di Dio, perché “se vinci hai vinto tutto, se perdi, non hai perso nulla”: “Si vous gagnez, vous gagnez tout; si vous perdez, vous ne perdez rien”[7]. Ma il vero rischio della fede – anche lui lo sa – è un altro: è quello di mettere tra parentesi Gesù Cristo. Un rischio di lunga data! Ripensiamo a quello che avvenne ad Atene, in occasione del memorabile discorso tenuto dall’apostolo Paolo all’Areopago (Atti17,16-33).

L’Apostolo comincia parlando del Dio unico che ha creato l’universo e di cui “noi stessi siamo progenie”. I presenti colgono l’allusione al verso di un loro poeta e lo seguono con attenzione. Ma ecco che Paolo arriva al punto. Parla di un uomo che Dio ha designato come giudice universale, dandone prova con il risuscitarlo dai morti. Finito l’incantesimo! “Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo deridevano, altri dicevano:’Su questo ti sentiremo un’altra volta’ ” (At 17, 32).

Che cosa li ha tanto disturbati? Certo, l’idea della risurrezione dai morti, così contraria a quello che, nello stesso luogo, aveva insegnato Platone: il corpo è “la tomba dell’anima”, non vale, perciò, la pena di portarselo dietro anche dopo la morte. Ma forse ancora di più li ha sconcertati il fatto di far dipendere il destino dell’umanità da un singolo evento storico e da un uomo concreto. Un secolo dopo, il filosofo platonico Celso getterà in faccia ai cristiani i motivi dello scandalo dei greci: “Figlio di Dio un uomo vissuto pochi anni fa? Uno di ieri o avantieri? Un uomo nato in un borgo della Giudea da una povera filatrice?”[8].

Il vero rischio della fede è quello di scandalizzarsi dell’umanità e umiltà di Cristo. Fu lo scoglio maggiore che Agostino dovette superare per aderire alla fede: “Non essendo umile, non riuscivo ad accettare come mio Dio l’umile Gesù”, scrive nelle Confessioni[9].

Gesù aveva parlato della possibilità di “scandalizzarsi” di lui, a motivo della sua distanza dall’idea che gli uomini si erano fatti del Messia, e aveva concluso dicendo: “Beato è colui che non trova in me motivo di scandalo” (Mt 11, 2-6).

Lo scandalo è oggi meno ostentato di quello degli areopagiti, ma non meno presente tra gli intellettuali. L’effetto – più dannoso del rifiuto – è il silenzio su di lui. Ho seguito, in Internet, molti dibattiti ad alto livello sull’esistenza o meno di Dio: quasi mai in essi veniva pronunciato il nome di Gesù Cristo. Come se egli non rientrasse nel discorso su Dio!

Deve essere questo il nostro impegno principale nello sforzo per l’evangelizzazione. Il mondo e i suoi media – dicevo in altra occasione in questo stesso luogo – fanno del tutto (e purtroppo ci riescono!) per tenere separato, o taciuto, il nome di Cristo in ogni loro discorso sulla Chiesa. Noi dobbiamo fare del tutto per tenerlo ostinatamente presente. Non per ripararci dietro di esso e tacere dei nostri fallimenti, ma perché è lui “la luce delle genti”, il “nome che è al disopra di ogni altro nome”, “la pietra angolare” del mondo e della storia.

Tornare al cuore!

Torniamo, per finire, alla parola di Pascal su Dio che “si sente con il cuore”. Non più per farne oggetto di considerazioni storiche e teologiche, ma personali e pratiche. Pascal fu un fervente discepolo di sant’Agostino, fino, purtroppo, a condividerne anche qualche eccesso ed errore, come quello, rilanciato dagli Giansenisti, della duplice predestinazione divina, alla gloria o alla dannazione! Anche l’appello di Pascal al cuore risente (positivamente, questa volta) dell’influenza del dottore d’Ippona. Commentando il versetto di Isaia: “Tornate, o prevaricatori, al cuore (redite, praevaricatores ad cor)” (Is 46, 8, Volgata), in un discorso al popolo sant’Agostino diceva:

“Rientrate nel vostro cuore!… Rientrate dal vostro vagabondaggio che vi ha portato fuori strada; ritornate al Signore. Egli è pronto. Prima rientra nel tuo cuore, tu che sei diventato estraneo a te stesso, a forza di vagabondare fuori: non conosci te stesso, e cerchi colui che ti ha creato! Torna, torna al cuore, distaccati dal corpo… Rientra nel cuore: lì esamina quel che forse percepisci di Dio, perché lì si trova l’immagine di Dio; nell’interiorità dell’uomo abita Cristo”[10].

L’uomo invia le sue sonde fino alla periferia del sistema solare ed oltre, ma ignora quello che avviene poche migliaia di metri sotto la crosta terrestre, da cui la difficoltà di prevenire i terremoti. È una immagine di quello che avviene anche nell’ambito dello spirito, nella nostra stessa vita. Viviamo tutti proiettati all’esterno, a quello che avviene intorno a noi, disattenti a ciò che avviene dentro di noi. Il silenzio fa paura.

Greccio 1223

Nel Natale di quest’anno ricorre l’ottavo centenario della prima realizzazione del presepio a Greccio. È il primo dei tre centenari francescani, Ad esso seguirà, nel 2024, quello delle Stimmate del santo e, nel 2026, quello della sua morte. Anche questa circostanza ci può aiutare a ritornare al cuore. Il suo primo biografo, Tommaso da Celano, riporta le parole con cui il Poverello spiegava la sua iniziativa: “Vorrei, diceva, rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva tra il bue e l’asinello”[11].

Purtroppo, con il passare del tempo, il presepio si è allontanato da quello che esso rappresentava per Francesco. È diventato spesso una forma d’arte o di spettacolo di cui si ammira l’allestimento esterno, più che il significato mistico. Anche così, tuttavia, esso assolve la sua funzione di segno e sarebbe stolto rinunciarvi. Nel nostro Occidente si moltiplicano le iniziative per eliminare dalle solennità natalizie ogni riferimento evangelico e religioso, riducendolo a una pura e semplice festa umana e familiare, con tante fiabe e personaggi inventati al posto dei personaggi veri del Natale. Qualcuno vorrebbe cambiare perfino il nome della festa.

Uno dei pretesti è di favorire, in questo modo, la convivenza pacifica con credenti di altre religioni, in pratica con gli islamici. In realtà questo è il pretesto di un certo mondo laicista che non vuole questi simboli, non dei musulmani. Nel Corano c’è una Sura dedicata alla nascita di Gesù che vale la pena conoscere. Dice:

Gli angeli dissero: “O Maria, Iddio ti dà la lieta novella di un Verbo da Lui. Il suo nome sarà Gesù [‘Isà] figlio di Maria. Sarà illustre in questo mondo e nell’altro… Parlerà agli uomini dalla culla e da uomo maturo, e sarà dei Santi”. Disse Maria: “Signore mio, come potrò avere un figlio, quando nessun uomo mi ha toccata?”. Rispose: “Proprio così: Iddio crea ciò che Egli vuole, e quando ha deciso una cosa, le dice soltanto ‘sii’, ed essa è[12].

Una volta, al tempo in cui, il sabato sera, spiegavo il Vangelo domenicale nella rubrica RAI “A Sua Immagine”, feci leggere questa Sura da un islamico che si disse felice di contribuire in tal modo a dissipare un equivoco che li danneggia, con il pretesto di favorirli.

La venerazione con cui il Corano ricorda la nascita di Gesù e il posto che occupa in essa la vergine Maria ha avuto qualche anno fa un riconoscimento inatteso e clamoroso.

L’emiro di Abu Dhabi ha deciso di dedicare a Mariam, Umm Eisa, ”Maria Madre di Gesù”, una bellissima moschea dell’emirato che prima portava il nome del suo fondatore, lo sceicco Mohammad Bin Zayed.

Il presepio è dunque una tradizione utile e bella, ma non possiamo accontentarci dei presepi esterni tradizionali. Dobbiamo allestire a Gesù un presepio diverso, un presepio del cuore. Corde creditur: con il cuore si crede. Christum habitare per fidem in cordibus vestris: Che Cristo venga ad abitare mediante la fede nei vostri cuori (Ef 3,17), ci esorta l’Apostolo. Maria e il suo Sposo continuano, misticamente, a bussare alle porte, come fecero quella notte a Betlemme. Nell’Apocalisse è il Risorto in persona che dice: “Io sto alla porta e busso” (Ap 3, 20). Apriamogli la porta del nostro cuore. Facciamo, di esso, una culla per Gesù Bambino. Che senta, nel gelo del mondo, il calore del nostro amore e della nostra infinita gratitudine di redenti!

Questa non è una bella e poetica finzione mentale; è l’impresa più ardua della vita. Nel nostro cuore c’è posto infatti per molti ospiti, ma per un solo padrone. Far nascere Gesù significa far morire il proprio “io”, o almeno rinnovare la decisione di non vivere più per noi stessi, ma per Colui che è nato, morto e risorto per noi” (cf. Rom 14, 7-9). “Dove nasce Dio, muore l’uomo”, ha affermato l’esistenzialismo ateo. È vero! Muore, però, l’uomo vecchio, corrotto e destinato, in ogni caso, a finire con la morte, e nasce l’uomo nuovo “creato nella giustizia e nella vera santità” (Ef 4, 24), destinato alla vita eterna. È una impresa che non finirà con il Natale, ma può cominciare con esso.

Che la Madre di Dio che “concepì Cristo nel suo cuore prima che nel suo corpo” – ci aiuti a realizzare questo proposito.

Buon compleanno a Gesù! E a tutti voi – Santo e amato Padre papa Francesco, venerati Padri, fratelli e sorelle- Buon Natale!


[1] Agostino, Discorsi, 215, 4.

[2] Agostino, Discorso 72,7 (Miscellanea Agostiniana, I, Roma 1930, p.163).

[3] Agostino, Discorsi, 215,4.

[4] Pensieri, 277-278, ed. Brunschvicg.

[5] Cf. Pensieri, 430, ed. Br

[6] Pensieri, n. 221, Br.

[7] Pensieri, 233, Br.

[8] In OrigeneContro Celso, I, 26.28; VI, 10.

[9] Agostino, Confessioni, VII, 18,24.

[10] Agostino, Trattati sul Vangelo di Giovanni, 18,10.

[11] Tommaso da Celano, Vita Prima, 84-86.

[12] Corano, Sura III, 46-47.