DISCORSO DI FRANCESCO
AI MEMBRI DEL CORPO DIPLOMATICO ACCREDITATO PRESSO LA SANTA SEDE
PER LA PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI PER IL NUOVO ANNO

(Sala Regia – Giovedì, 9 gennaio 2020)

Eccellenze, Signore e Signori, 

un nuovo anno si apre dinanzi a noi e, come il vagito di un bimbo appena nato, ci invita alla gioia e ad assumere un atteggiamento di speranza. Vorrei che questa parola – speranza –, che per i cristiani è una virtù fondamentale, animasse lo sguardo con cui ci addentriamo nel tempo che ci attende.

Certo, sperare esige realismo. Esige la consapevolezza delle numerose questioni che affliggono la nostra epoca e delle sfide all’orizzonte. Esige che si chiamino i problemi per nome e che si abbia il coraggio di affrontarli. Esige di non dimenticare che la comunità umana porta i segni e le ferite delle guerre succedutesi nel tempo, con crescente capacità distruttiva, e che non cessano di colpire specialmente i più poveri e i più deboli. Purtroppo, il nuovo anno non sembra essere costellato da segni incoraggianti, quanto piuttosto da un inasprirsi di tensioni e violenze.

È proprio alla luce di queste circostanze che non possiamo smettere di sperare. E sperare esige coraggio. Esige la consapevolezza che il male, la sofferenza e la morte non prevarranno e che anche le questioni più complesse possono e devono essere affrontate e risolte. La speranza «è la virtù che ci mette in cammino, ci dà le ali per andare avanti, perfino quando gli ostacoli sembrano insormontabili».

Con quest’animo, vi accolgo oggi, cari Ambasciatori, per porgervi gli auguri per il nuovo anno. Ringrazio in modo speciale il Decano del Corpo Diplomatico, S.E. il Signor George Poulides, Ambasciatore di Cipro, per le cordiali espressioni che mi ha indirizzato a nome di tutti voi e vi sono grato per la presenza, così numerosa e significativa, e per l’impegno che quotidianamente dedicate a consolidare le relazioni che legano la Santa Sede ai vostri Paesi e alle vostre Organizzazioni internazionali a vantaggio della pacifica convivenza tra i popoli.

La pace e lo sviluppo umano integrale sono infatti l’obiettivo principale della Santa Sede nell’ambito del suo impegno diplomatico. Ad essa sono orientati gli sforzi della Segreteria di Stato e dei Dicasteri della Curia Romana, come pure quelli dei Rappresentanti Pontifici, che ringrazio per la dedizione con cui compiono la duplice missione loro affidata di rappresentare il Papa sia presso le Chiese locali sia presso i vostri Governi.

In tale prospettiva si collocano pure gli Accordi di carattere generale, firmati o ratificati nel corso dell’anno appena trascorso, con la Repubblica del Congo, la cara Repubblica Centroafricana, il Burkina Faso e l’Angola, come pure l’Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica Italiana per l’applicazione della Convenzione di Lisbona sul riconoscimento dei titoli di studio relativi all’insegnamento superiore nella Regione Europea.

Anche i Viaggi Apostolici, oltre che essere una via privilegiata attraverso la quale il Successore dell’Apostolo Pietro conferma i fratelli nella fede, sono un’occasione per favorire il dialogo a livello politico e religioso. Nel 2019 ho avuto l’opportunità di visitare diverse realtà significative. Vorrei ripercorrere con voi le tappe che ho compiuto, cogliendo l’opportunità per uno sguardo più ampio su alcune questioni problematiche del nostro tempo.

All’inizio dello scorso anno, in occasione della XXXIV Giornata Mondiale della Gioventù, ho incontrato a Panama giovani provenienti dai cinque continenti, pieni di sogni e speranze, lì convenuti per pregare e ravvivare il desiderio e l’impegno di creare un mondo più umano. È sempre una gioia e una grande opportunità poter incontrare i giovani. Essi sono il futuro e la speranza delle nostre società, ma anche il presente.

Eppure, come è tristemente noto, non pochi adulti, compresi diversi membri del clero, si sono resi responsabili di delitti gravissimi contro la dignità dei giovani, bambini e adolescenti, violandone l’innocenza e l’intimità. Si tratta di crimini che offendono Dio, causano danni fisici, psicologici e spirituali alle vittime e ledono la vita di intere comunità. In seguito all’incontro con gli episcopati di tutto il mondo, che ho convocato in Vaticano nel febbraio scorso, la Santa Sede rinnova il suo impegno affinché si faccia luce sugli abusi compiuti e si assicuri la protezione dei minori, attraverso un ampio spettro di norme che consentano di affrontare detti casi nell’ambito del diritto canonico e attraverso la collaborazione con le autorità civili, a livello locale e internazionale.

Di fronte a così gravi ferite, risulta tuttavia ancora più urgente che gli adulti non abdichino al compito educativo che compete loro, anzi si facciano carico di tale impegno con maggior zelo per condurre i giovani alla maturità spirituale, umana e sociale.

Per questa ragione intendo promuovere, il 14 maggio prossimo, un evento mondiale che avrà per tema: Ricostruire il patto educativo globale. Si tratta di un incontro volto a «ravvivare l’impegno per e con le giovani generazioni, rinnovando la passione per un’educazione più aperta ed inclusiva, capace di ascolto paziente, dialogo costruttivo e mutua comprensione. Mai come ora, c’è bisogno di unire gli sforzi in un’ampia alleanza educativa per formare persone mature, capaci di superare frammentazioni e contrapposizioni e ricostruire il tessuto di relazioni per un’umanità più fraterna».

Ogni cambiamento, come quello epocale che stiamo attraversando, richiede un cammino educativo, la costituzione di un villaggio dell’educazione che generi una rete di relazioni umane e aperte. Tale villaggio deve mettere al centro la persona, favorire la creatività e la responsabilità per una progettualità di lunga durata e formare persone disponibili a mettersi al servizio della comunità.

Occorre dunque un concetto di educazione che abbracci l’ampia gamma di esperienze di vita e di processi di apprendimento e che consenta ai giovani, individualmente e collettivamente, di sviluppare le loro personalità. L’educazione non si esaurisce nelle aule delle scuole o delle Università, ma è assicurata principalmente rispettando e rafforzando il diritto primario della famiglia a educare, e il diritto delle Chiese e delle aggregazioni sociali a sostenere le famiglie e collaborare con esse nell’educazione dei figli.

Educare esige di entrare in un dialogo leale con i giovani. Sono anzitutto loro a richiamarci all’urgenza di quella solidarietà intergenerazionale, che purtroppo è venuta a mancare negli ultimi anni. C’è, infatti, una tendenza, in molte parti del mondo, a chiudersi in se stessi, a proteggere i diritti e i privilegi acquisiti, a concepire il mondo dentro un orizzonte limitato che tratta con indifferenza gli anziani e soprattutto non offre più spazio alla vita nascente. L’invecchiamento generale di parte della popolazione mondiale, specialmente nell’Occidente, ne è una triste ed emblematica rappresentazione.

Se da un lato non dobbiamo dimenticare che i giovani attendono la parola e l’esempio degli adulti, nello stesso tempo dobbiamo avere ben presente che essi hanno molto da offrire con il loro entusiasmo, con il loro impegno e con la loro sete di verità, attraverso la quale ci richiamano costantemente al fatto che la speranza non è un’utopia e la pace è un bene sempre possibile.

Lo abbiamo visto nel modo con cui molti giovani si stanno impegnando per sensibilizzare i leader politici sulla questione dei cambiamenti climatici. La cura della nostra casa comune dev’essere una preoccupazione di tutti e non oggetto di contrapposizione ideologica fra diverse visioni della realtà, né tantomeno fra le generazioni, poiché «a contatto con la natura – come ricordava Benedetto XVI –, la persona ritrova la sua giusta dimensione, si riscopre creatura, piccola ma al tempo stesso unica, “capace di Dio” perché interiormente aperta all’Infinito». La custodia del luogo che ci è stato donato dal Creatore per vivere non può dunque essere trascurata, né ridursi ad una problematica elitaria. I giovani ci dicono che non può essere così, poiché esiste una sfida urgente, a tutti i livelli, di proteggere la nostra casa comune e «di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale». Essi ci richiamano all’urgenza di una conversione ecologica, che «va intesa in maniera integrale, come una trasformazione delle relazioni che intratteniamo con le nostre sorelle e i nostri fratelli, con gli altri esseri viventi, con il creato nella sua ricchissima varietà, con il Creatore che è origine di ogni vita».

Purtroppo, l’urgenza di questa conversione ecologica sembra non essere acquisita dalla politica internazionale, la cui risposta alle problematiche poste da questioni globali come quella dei cambiamenti climatici è ancora molto debole e fonte di forte preoccupazione. La XXV Sessione della Conferenza degli Stati Parte della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (COP25), svoltasi a Madrid lo scorso dicembre, rappresenta un grave campanello di allarme circa la volontà della Comunità internazionale di affrontare con saggezza ed efficacia il fenomeno del riscaldamento globale, che richiede una risposta collettiva, capace di far prevalere il bene comune sugli interessi particolari.

Queste considerazioni riportano la nostra attenzione all’America Latina, in particolare all’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi per la regione amazzonica, svoltasi in Vaticano lo scorso mese di ottobre. Il Sinodo è stato un evento essenzialmente ecclesiale, mosso dalla volontà di mettersi in ascolto delle speranze e delle sfide della Chiesa in Amazzonia e di aprire nuove strade all’annuncio del Vangelo al Popolo di Dio, specialmente alle popolazioni indigene. Tuttavia, l’Assemblea sinodale non poteva esimersi dal toccare anche altre tematiche, a partire dall’ecologia integrale, che riguardano la vita stessa di quella Regione, così vasta e importante per tutto il mondo, poiché «la foresta amazzonica è un “cuore biologico” per la Terra, sempre più minacciata».

Oltre alla situazione nella regione amazzonica, desta preoccupazione il moltiplicarsi di crisi politiche in un crescente numero di Paesi del continente americano, con tensioni e insolite forme di violenza che acuiscono i conflitti sociali e generano gravi conseguenze socio-economiche e umanitarie. Le polarizzazioni sempre più forti non aiutano a risolvere i veri e urgenti problemi dei cittadini, soprattutto dei più poveri e vulnerabili, né tantomeno può farlo la violenza, che per nessun motivo può essere adottata come strumento per affrontare le questioni politiche e sociali. In questa sede desidero ricordare specialmente il Venezuela, affinché non venga meno l’impegno a cercare soluzioni.

In generale, i conflitti della regione americana, pur avendo radici diverse, sono accomunati dalle profonde disuguaglianze, dalle ingiustizie e dalla corruzione endemica, nonché dalle varie forme di povertà che offendono la dignità delle persone. Occorre, pertanto, che i leader politici si sforzino di ristabilire con urgenza una cultura del dialogo per il bene comune e per rafforzare le istituzioni democratiche e promuovere il rispetto dello stato di diritto, al fine di prevenire derive antidemocratiche, populiste ed estremiste.

Nel mio secondo viaggio del 2019, mi sono recato negli Emirati Arabi Uniti, prima visita di un Successore di Pietro nella Penisola arabica. Ad Abu Dhabi ho firmato con il Grande Imam di Al-Azhar Ahmad al-Tayyib il Documento sulla Fratellanza Umana per la pace mondiale e la convivenza comune. Si tratta di un testo importante, volto a favorire la mutua comprensione tra cristiani e musulmani e la convivenza in società sempre più multietniche e multiculturali, poiché nel condannare fermamente l’uso del «nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione», richiama l’importanza del concetto di cittadinanza, che «si basa sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia». Ciò esige il rispetto della libertà religiosa e che ci si adoperi per rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità e prepara il terreno alle ostilità e alla discordia, discriminando i cittadini in base all’appartenenza religiosa. A tal fine è particolarmente importante formare le generazioni future al dialogo interreligioso, quale via maestra per la conoscenza, la comprensione e il sostegno reciproco fra appartenenti a diverse religioni.

Pace e speranza sono stati anche al centro della mia visita in Marocco, dove con Sua Maestà il Re Mohammed VI ho sottoscritto un appello congiunto su Gerusalemme, «riconoscendo l’unicità e la sacralità di Gerusalemme / Al Qods Acharif e avendo a cuore il suo significato spirituale e la sua peculiare vocazione di Città della Pace». E da Gerusalemme, città cara ai fedeli delle tre religioni monoteiste, chiamata ad essere luogo-simbolo di incontro e di coesistenza pacifica, in cui si coltivano il rispetto reciproco e il dialogo, il mio pensiero non può che estendersi a tutta la Terra Santa per richiamare l’urgenza che l’intera Comunità internazionale, con coraggio e sincerità e nel rispetto del diritto internazionale, riconfermi il suo impegno a sostegno del processo di pace israelo-palestinese.

Un più assiduo ed efficace impegno da parte della Comunità internazionale è quanto mai urgente anche in altre parti dell’area mediterranea e del Medio Oriente. Mi riferisco anzitutto alla coltre di silenzio che rischia di coprire la guerra che ha devastato la Siria nel corso di questo decennio. È particolarmente urgente trovare soluzioni adeguate e lungimiranti che permettano al caro popolo siriano, stremato dalla guerra, di ritrovare la pace e avviare la ricostruzione del Paese. La Santa Sede accoglie con favore ogni iniziativa volta a porre le basi per la risoluzione del conflitto ed esprime ancora una volta la propria gratitudine alla Giordania e al Libano per aver accolto ed essersi fatti carico, con non pochi sacrifici, di migliaia di profughi siriani. Purtroppo, oltre alle fatiche provocate dall’accoglienza, altri fattori di incertezza economica e politica, in Libano e in altri Stati, stanno provocando tensioni tra la popolazione, mettendo ulteriormente a rischio la fragile stabilità del Medio Oriente.

Particolarmente preoccupanti sono i segnali che giungono dall’intera regione, in seguito all’innalzarsi della tensione fra l’Iran e gli Stati Uniti e che rischiano anzitutto di mettere a dura prova il lento processo di ricostruzione dell’Iraq, nonché di creare le basi di un conflitto di più vasta scala che tutti vorremmo poter scongiurare. Rinnovo dunque il mio appello perché tutte le parti interessate evitino un innalzamento dello scontro e mantengano «accesa la fiamma del dialogo e dell’autocontrollo», nel pieno rispetto della legalità internazionale.

Il mio pensiero va pure allo Yemen, che vive una delle più gravi crisi umanitarie della storia recente, in un clima di generale indifferenza della Comunità internazionale, e alla Libia, che da molti anni attraversa una situazione conflittuale, aggravata dalle incursioni di gruppi estremisti e da un ulteriore acuirsi di violenza nel corso degli ultimi giorni. Tale contesto è fertile terreno per la piaga dello sfruttamento e del traffico di essere umani, alimentato da persone senza scrupoli che sfruttano la povertà e la sofferenza di quanti fuggono da situazioni di conflitto o di povertà estrema. Tra questi, molti finiscono preda di vere e proprie mafie che li detengono in condizioni disumane e degradanti e ne fanno oggetto di torture, violenze sessuali, estorsioni.

In generale, occorre rilevare che nel mondo vi sono diverse migliaia di persone, con legittime richieste di asilo e bisogni umanitari e di protezione verificabili, che non vengono adeguatamente identificati. Molti rischiano la vita in viaggi pericolosi per terra e soprattutto per mare. È con dolore che si continua a constatare come il Mare Mediterraneo rimanga un grande cimitero. È sempre più urgente, dunque, che tutti gli Stati si facciano carico della responsabilità di trovare soluzioni durature.

Da parte sua, la Santa Sede guarda con grande speranza agli sforzi compiuti da numerosi Paesi per condividere il peso del reinsediamento e fornire agli sfollati, in particolare a causa di emergenze umanitarie, un posto sicuro in cui vivere, un’educazione, nonché la possibilità di lavorare e di ricongiungersi con le proprie famiglie.

Cari Ambasciatori, 

nei viaggi dello scorso anno ho avuto modo di toccare anche tre Paesi dell’Europa orientale, raggiungendo prima la Bulgaria e la Macedonia del Nord e, in un secondo momento, la Romania. Si tratta di tre Paesi diversi tra loro, accomunati tuttavia dal fatto di essere stati, nei secoli, ponti fra l’Oriente e l’Occidente e crocevia di culture, etnie e civiltà differenti. Visitandoli, ho potuto sperimentare ancora una volta quanto siano importanti il dialogo e la cultura dell’incontro per costruire società pacifiche, nelle quali ognuno possa liberamente esprimere la propria appartenenza etnica e religiosa.

Rimanendo nel contesto europeo, vorrei richiamare l’importanza di sostenere il dialogo e il rispetto della legalità internazionale per risolvere i “conflitti congelati” che persistono nel continente, alcuni dei quali ormai da decenni, e che esigono una soluzione, a cominciare dalle situazioni riguardanti i Balcani occidentali e il Caucaso meridionale, tra cui la Georgia. In questa sede vorrei, inoltre, esprimere l’incoraggiamento della Santa Sede ai negoziati per la riunificazione di Cipro, che incrementerebbero la cooperazione regionale, favorendo la stabilità di tutta l’area mediterranea, nonché l’apprezzamento per i tentativi volti a risolvere il conflitto nella parte orientale dell’Ucraina e porre fine alla sofferenza della popolazione.

Il dialogo – e non le armi – è lo strumento essenziale per risolvere le contese. A tale riguardo, desidero in questa sede menzionare il contributo offerto, ad esempio, in Ucraina dall’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), specialmente in quest’anno in cui  ricorre il 45° anniversario dell’Atto finale di Helsinki, che concluse la Conferenza sulla Sicurezza e sulla Cooperazione in Europa (CSCE), iniziata nel 1973 per favorire la distensione e la collaborazione tra i Paesi dell’Europa occidentale e quelli dell’Europa orientale, quando il continente era ancora diviso dalla cortina di ferro. Si è trattato di una tappa importante di un processo iniziato sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale e che ha visto nel consenso e nel dialogo uno strumento essenziale per risolvere le contese.

Già nel 1949, nell’Europa occidentale, con la creazione del Consiglio d’Europa e la successiva adozione della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, si gettarono le basi del processo d’integrazione europea, che videro nella Dichiarazione dell’allora Ministro degli Affari Esteri francese Robert Schuman, del 9 maggio 1950, un pilastro fondamentale. Schuman afferma che «la pace non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano». Nei Padri fondatori dell’Europa moderna c’era la consapevolezza che il continente si sarebbe potuto riprendere dalle lacerazioni della guerra e dalle nuove divisioni che sopravanzavano solo in un processo graduale di condivisione di ideali e di risorse.

Fin dai primi anni la Santa Sede ha guardato con interesse il progetto europeo, ricorrendo quest’anno il 50 anniversario della presenza della Santa Sede come Osservatore presso il Consiglio d’Europa, così come lo stabilimento delle relazioni diplomatiche con le allora Comunità Europee. Si tratta di un interesse che intende sottolineare un’idea di costruzione inclusiva, animata da uno spirito partecipativo e solidale, capace di fare dell’Europa un esempio di accoglienza ed equità sociale nel segno di quei valori comuni che ne sono alla base. Il progetto europeo continua ad essere una fondamentale garanzia di sviluppo per chi ne fa parte da tempo e un’opportunità di pace, dopo turbolenti conflitti e lacerazioni, per quei Paesi che ambiscono a parteciparvi.

L’Europa non perda dunque il senso di solidarietà che per secoli l’ha contraddistinta, anche nei momenti più difficili della sua storia. Non perda quello spirito che affonda le sue radici, tra l’altro, nella pietas romana e nella caritas cristiana, che ben descrivono l’animo dei popoli europei. L’incendio della Cattedrale di Notre Dame a Parigi ha mostrato quanto sia fragile e facile da distruggere anche ciò che sembra solido. I danni sofferti da un edificio, non solo caro ai cattolici ma significativo per tutta la Francia e l’umanità intera, hanno ridestato il tema dei valori storici e culturali dell’Europa e delle radici sulle quali essa si fonda. In un contesto in cui mancano valori di riferimento, diventa più facile trovare elementi di divisione più che di coesione.

Il trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino ci ha posto dinanzi agli occhi uno dei simboli più laceranti della storia recente del continente, rammentandoci quanto sia facile ergere barriere. Il Muro di Berlino rimane emblematico di una cultura della divisione che allontana le persone le une dalle altre e apre la strada all’estremismo e alla violenza. Lo vediamo sempre più nel linguaggio di odio diffusamente usato in internet e nei mezzi di comunicazione sociale. Alle barriere dell’odio, noi preferiamo i ponti della riconciliazione e della solidarietà, a ciò che allontana preferiamo ciò che avvicina, consapevoli che «nessuna pace [può] consolidarsi […] se contemporaneamente non si placano gli odi e i rancori per mezzo di una riconciliazione fondata sulla vicendevole carità»come scrisse cent’anni fa il mio predecessore Benedetto XV.

Cari Ambasciatori, 

Segni di pace e di riconciliazione ho potuto vedere nel corso del viaggio in Africa, dove appare evidente la gioia di chi insieme si sente popolo e affronta le fatiche quotidiane in uno spirito di condivisione. Ho sperimentato la concretezza della speranza attraverso numerosi gesti incoraggianti, a partire dagli ulteriori progressi compiuti in Mozambico, con la firma dell’Accordo per la cessazione definitiva delle ostilità il 1° agosto scorso.

In Madagascar ho potuto constatare che è possibile costruire sicurezza laddove c’era precarietà, vedere speranza dove si vedeva solo fatalità, scorgere vita dove tanti annunciavano morte e distruzione. A tal fine sono essenziali la famiglia e il senso della comunità che consente di stabilire la fiducia fondamentale che è alla base di ogni rapporto umano. A Mauritius ho notato come «le diverse religioni, con le loro rispettive identità, collaborano insieme per contribuire alla pace sociale e per ricordare il valore trascendente della vita contro ogni tipo di riduzionismo». Confido che l’entusiasmo che ho potuto toccare con mano nel corso del viaggio continui a concretizzarsi in gesti di accoglienza e in progetti capaci di promuovere la giustizia sociale, evitando dinamiche di chiusura.

Allargando lo sguardo ad altre parti del continente, duole, invece, constatare come continuino, in particolare in Burkina Faso, Mali, Niger e Nigeria, episodi di violenza contro persone innocenti, tra cui tanti cristiani perseguitati e uccisi per la loro fedeltà al Vangelo. Esorto la Comunità internazionale a sostenere gli sforzi che questi Paesi compiono nella lotta per sconfiggere la piaga del terrorismo, che sta insanguinando sempre più intere parti dell’Africa, come altre regioni del mondo. Alla luce di questi eventi, è necessario che si attuino strategie che comprendano interventi non solo nell’ambito della sicurezza, ma anche nella riduzione della povertà, nel miglioramento del sistema sanitario, nello sviluppo e nell’assistenza umanitaria, nella promozione del buon governo e dei diritti civili. Sono questi i pilastri di un reale sviluppo sociale.

Parimenti, occorre incoraggiare le iniziative che promuovono la fraternità tra tutte le espressioni culturali, etniche e religiose del territorio, specialmente nel Corno d’Africa, in Camerun, nonché nella Repubblica Democratica del Congo, dove, specialmente nelle regioni orientali del Paese, persistono violenze. Le conflittualità e le emergenze umanitarie, aggravate dagli sconvolgimenti climatici, aumentano il numero di sfollati e si ripercuotono sulle persone che già vivono in stato di grave povertà. Molti dei Paesi colpiti da queste situazioni mancano di strutture adeguate che consentano di venire incontro ai bisogni di quanti sono stati sfollati.

Al riguardo, vorrei qui sottolineare che, purtroppo, non esiste ancora una risposta internazionale coerente per affrontare il fenomeno dello sfollamento interno, poiché in gran parte esso non ha una definizione internazionale concordata, avvenendo all’interno di confini nazionali. Il risultato è che gli sfollati interni non ricevono sempre la protezione che meritano e dipendono dalla capacità di rispondere e dalle politiche dello Stato in cui si trovano.

Recentemente è stato avviato il lavoro dello United Nations High-Level Panel on Internal Displacement, che spero possa favorire l’attenzione e il sostegno globale per gli sfollati, sviluppando raccomandazioni concrete.

In tale prospettiva, guardo pure al Sudan, con l’auspicio che i suoi cittadini possano vivere nella pace e nella prosperità e collaborare alla crescita democratica ed economica del Paese; alla Repubblica Centrafricana, dove, nel febbraio scorso, è stato firmato un Accordo globale per porre fine a oltre cinque anni di guerra civile; e al Sud Sudan, che spero di poter visitare nel corso di quest’anno e al quale ho dedicato una giornata di ritiro lo scorso mese di aprile con la presenza dei leader del Paese e il prezioso contributo dell’Arcivescovo di Canterbury, Sua Grazia Justin Welby, e dell’ex Moderatore della Chiesa presbiteriana della Scozia, il Reverendo John Chalmers. Confido che, con l’aiuto della Comunità internazionale, quanti hanno responsabilità politiche proseguano il dialogo per attuare gli accordi raggiunti.

L’ultimo viaggio dell’anno appena concluso è stato nell’Asia orientale. In Tailandia ho potuto constatare l’armonia apportata dai numerosi gruppi etnici che costituiscono il Paese, con la loro diversità filosofica, culturale e religiosa. Si tratta di un richiamo importante nell’attuale contesto di globalizzazione che tende ad appiattire le differenze e considerarle primariamente in termini economico-finanziari, con il rischio di cancellare le note essenziali che contraddistinguono i vari popoli.

Infine, in Giappone ho toccato con mano il dolore e l’orrore che come esseri umani siamo in grado di infliggerci. Ascoltando le testimonianze di alcuni Hibakusha, i sopravvissuti ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, mi è parso evidente che non si può costruire una vera pace sulla minaccia di un possibile annientamento totale dell’umanità provocato dalle armi nucleari. Gli Hibakusha «mantengono viva la fiamma della coscienza collettiva, testimoniando alle generazioni successive l’orrore di ciò che accadde nell’agosto del 1945 e le sofferenze indicibili che ne sono seguite fino ad oggi. La loro testimonianza risveglia e conserva in questo modo la memoria delle vittime, affinché la coscienza umana diventi sempre più forte di fronte ad ogni volontà di dominio e di distruzione», specialmente quella provocata da ordigni a così alto potenziale distruttivo, come le armi nucleari. Esse non solo favoriscono un clima di paura, diffidenza e ostilità, ma distruggono la speranza. Il loro uso è immorale, «un crimine, non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune».

Un mondo «senza armi nucleari è possibile e necessario», ed è tempo che quanti hanno responsabilità politiche ne divengano pienamente consapevoli, poiché non è il possesso deterrente di potenti mezzi di distruzione di massa a rendere il mondo più sicuro, bensì il paziente lavoro di tutte le persone di buona volontà che si dedicano concretamente, ciascuno nel proprio ambito, a edificare un mondo di pace, solidarietà e rispetto reciproco.

Il 2020 offre un’opportunità importante in questa direzione, poiché dal 27 aprile al 22 maggio si svolgerà a New York la X Conferenza d’Esame del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari. Auspico vivamente che in quella occasione la Comunità internazionale riesca a trovare un consenso finale e proattivo sulle modalità di attuazione di questo strumento giuridico internazionale, che si rileva essere ancora più importante in un momento come quello attuale.

Nel terminare la rassegna dei luoghi che ho raggiunto nel corso dell’anno appena concluso, vorrei rivolgere un particolare pensiero a un Paese che non ho visitato, l’Australia, colpito duramente negli ultimi mesi da persistenti incendi, i cui effetti hanno raggiunto anche altre regioni dell’Oceania. Al popolo australiano, specialmente alle vittime e a quanti si trovano nelle regioni colpite dai roghi, desidero assicurare la mia vicinanza e preghiera.

Eccellenze, Signore e Signori, 

Quest’anno, la Comunità internazionale ricorda il 75° anniversario della fondazione delle Nazioni Unite. In seguito alle tragedie sperimentate nelle due guerre mondiali, con la Carta delle Nazioni Unite, firmata il 26 giugno 1945, quarantasei Paesi diedero vita ad una nuova forma di collaborazione multilaterale. Le quattro finalità dell’Organizzazione, delineate nell’articolo 1 della Carta, rimangono valide ancora oggi e possiamo dire che l’impegno delle Nazioni Unite in questi 75 anni è stato, in gran parte, un successo, specialmente nell’evitare un’altra guerra mondiale. I principi fondativi dell’Organizzazione – il desiderio della pace, la ricerca della giustizia, il rispetto della dignità della persona, la cooperazione umanitaria e l’assistenza – esprimono le giuste aspirazioni dello spirito umano e costituiscono gli ideali che dovrebbero sottostare alle relazioni internazionali.

In questo anniversario, vogliamo riaffermare il proposito di tutta quanta la famiglia umana a operare per il bene comune, quale criterio di orientamento dell’azione morale e prospettiva che deve impegnare ogni Paese a collaborare per garantire l’esistenza e la sicurezza nella pace di ogni altro Stato, in uno spirito di uguale dignità e di effettiva solidarietà, nell’ambito di un ordinamento giuridico fondato sulla giustizia e sulla ricerca di equi compromessi.

Una tale azione sarà tanto più efficace quanto più si cercherà di superare quell’approccio trasversale, utilizzato nel linguaggio e negli atti degli organi internazionali, che mira a legare i diritti fondamentali a situazioni contingenti, dimenticando che essi sono intrinsecamente fondati nella natura stessa dell’essere umano. Laddove al lessico delle Organizzazioni internazionali viene a mancare un chiaro ancoraggio oggettivo, si rischia di favorire l’allontanamento, anziché l’avvicinamento, dei membri della Comunità internazionale, con la conseguente crisi del sistema multilaterale, che è tristemente sotto gli occhi di tutti. In questo contesto, appare urgente riprendere il percorso verso una complessiva riforma del sistema multilaterale, a partire dal sistema onusiano, che lo renda più efficace, tenendo in debita considerazione l’attuale contesto geo-politico.

Cari Ambasciatori, 

Nel giungere alla conclusione di queste riflessioni, desidero menzionare ancora due anniversari che ricorrono quest’anno, apparentemente estranei al nostro incontro odierno. Il primo è il cinquecentenario della morte di Raffaello Sanzio, il grande artista di Urbino, deceduto a Roma il 6 aprile 1520. A Raffaello dobbiamo un ingente patrimonio di inestimabile bellezza. Come il genio dell’artista sa comporre armonicamente materie grezze, colori e suoni diversi rendendoli parte di un’unica opera d’arte, così la diplomazia è chiamata ad armonizzare le peculiarità dei vari popoli e Stati per edificare un mondo di giustizia e di pace, che è il bel quadro che vorremmo poter ammirare.

Raffaello è stato un figlio importante di un’epoca, quella del Rinascimento, che ha arricchito l’umanità intera. Un’epoca non priva di difficoltà, ma animata da fiducia e speranza. Attraverso questo insigne artista, desidero far giungere i miei più sentiti auguri al Popolo italiano, al quale auguro di riscoprire quello spirito di apertura al futuro che ha contraddistinto il Rinascimento e che ha reso questa penisola così bella e ricca di arte, storia e cultura.

Uno dei soggetti preferiti della pittura di Raffaello era Maria. A lei ha dedicato numerose tele che possono oggi essere ammirate in diversi musei del mondo. Per la Chiesa Cattolica, quest’anno ricorre il settantesimo anniversario della proclamazione dell’Assunzione di Maria Vergine al Cielo. Con lo sguardo a Maria, desidero rivolgere un pensiero particolare a tutte le donne, 25 anni dopo la IV Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla donna, svoltasi a Pechino nel 1995, auspicando che in tutto il mondo sia sempre più riconosciuto il ruolo prezioso delle donne nella società e cessi ogni forma di ingiustizia, disuguaglianza e violenza nei loro confronti. «Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio». Esercitare violenza contro una donna o sfruttarla non è un semplice reato, è un crimine che distrugge l’armonia, la poesia e la bellezza che Dio ha voluto dare al mondo.

L’Assunzione di Maria ci invita pure a guardare oltre, al compimento del nostro cammino terreno, al giorno in cui la giustizia e la pace saranno pienamente ristabilite. Ci sentiamo così incoraggiati, attraverso la diplomazia, che è il nostro tentativo umano, imperfetto ma pur sempre prezioso, a lavorare con zelo per anticipare i frutti di questo desiderio di pace, sapendo che la meta è possibile. Con questo impegno, rinnovo a tutti voi, cari Ambasciatori e distinti Ospiti qui convenuti, e ai vostri Paesi il mio cordiale augurio per un nuovo anno copioso di speranza e benedizioni.

Grazie!