Di seguito, il saluto che il Cardinale Gualtiero Bassetti, Arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e Presidente della CEI, ha pronunciato in occasione della proiezione del docufilm sul giudice Rosario Livatino, alla presenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
Signor Presidente della Repubblica, Signori Magistrati, Autorità,
è per me motivo di grande gioia essere presente qui a Roma in occasione della presentazione del docufilm sulla vita di Rosario Livatino. Tra pochi giorni, domenica 9 maggio, il giovane magistrato assassinato dalla stidda agrigentina il 20 settembre 1990 verrà proclamato beato perché ucciso in “odio alla fede”. Una beatificazione che avviene, come è noto, in una ricorrenza di grande significato: il 9 maggio del 1993 papa Giovanni Paolo II nella messa celebrata nella Valle dei Templi lanciò un durissimo monito contro la mafia colpevole di “calpestare il diritto santissimo di Dio” e di “uccidere” vite innocenti. Ancora oggi sento vibrare nel mio cuore quel grido rivolto ai mafiosi con cui concluse la sua omelia: “Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!”.
Le parole che sono state pronunciate dai pontefici sulle organizzazioni malavitose sono chiarissime. E a quelle di papa Wojtyla vorrei aggiungere le parole magisteriali di Francesco che a Sibari, nel 2014, disse non solo che la malavita “è adorazione del male e disprezzo del bene comune” ma che, soprattutto, quegli uomini che “vivono di malaffare e di violenza” non sono in comunione con Dio e quindi “sono scomunicati”.
La malavita organizzata – la possiamo chiamare mafia, camorra, stidda – non è quindi una criminalità comune ma è un’organizzazione feroce e, al tempo stesso, una forma di ateismo che si colora di tinte neopagane e di blasfeme citazioni cristiane. La malavita è inequivocabilmente fonte di morte: morte della società, morte del territorio, morte dell’anima delle persone.
Le organizzazioni criminali per realizzare i loro progetti creano un clima di paura che sfrutta la miseria e la disoccupazione, la disperazione sociale e l’assenza della certezza del diritto. Proprio per questo è assolutamente necessaria la presenza dello Stato. Una presenza forte, autorevole e soprattutto educativa. Come quella di Rosario Livatino. Ho letto alcune cronache dei giornali del 1990 che raccontano la morte del “giudice ragazzino”. Egli viene definito come “un giovane e minuto magistrato di 38 anni” che da “dieci anni faceva il suo dovere”: in definitiva era “un giudice incorruttibile”.
Rosario Livatino è stato un appassionato difensore della legalità e della libertà di questo Paese. Un autentico rappresentante delle istituzioni che è riuscito a incarnare la certezza del diritto e anche la cultura morale dell’Italia profonda: di quell’Italia che non si arrende alle ingiustizie e alle prevaricazioni, e che non cede agli ignavi e a coloro che si adeguano allo status quo: anche quando lo status quo è rappresentato dalla mafia.
Senza alcun dubbio, Rosario Livatino è stato un piccolo e giovane uomo ma, al tempo stesso, è stato un gigante della verità. Un uomo che ha incarnato il Vangelo delle Beatitudini perché egli aveva “fame e sete di giustizia”.
Livatino ci lascia dunque una preziosa eredità civile e un altrettanto importante eredità spirituale. Il suo martirio parla alla Chiesa e all’Italia intera. Ma soprattutto parla alle giovani generazioni: a coloro che non sono ancora compromessi e che possono, anzi, devono resistere, con tutta l’energia e il coraggio della gioventù, alle false lusinghe malavitose.
Vorrei riassumere l’eredità di Livatino con la stessa frase che ho utilizzato per ricordare don Pino Puglisi: con la mafia non si convive! Fra la mafia e il Vangelo non può esserci alcuna convivenza o tantomeno connivenza. Non può esserci alcun contatto né alcun deprecabile inchino.