19Relazione che terrà il nostro parroco, don Emilio Rocchi, il prossimo 25 aprile a Velletri.

Dalla fraternità presbiterale alla costruzione delle comunità
FORMAZIONE PERMANENTE DEL PRESBITERIO – RITIRI DEL CLERO
(“Santa Maria dell’Acero” di Velletri – 20 aprile 2018)

Introduzione

Vorrei fare riferimento all’inizio della riflessione ad alcune affermazioni di Papa Francesco. Le troviamo nelle catechesi delle udienze generali dello scorso 11 e 18 aprile; parlando del Battesimo, ha affermato: «Siamo cristiani nella misura in cui lasciamo vivere Gesù Cristo in noi. […] Attraverso il lavacro battesimale, chi crede in Cristo viene immerso nella vita stessa della Trinità. […] Noi battezzati non siamo isolati: siamo membra del Corpo di Cristo. La vitalità che scaturisce dal fonte battesimale è illustrata da queste parole di Gesù: Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto (cf. Gv 15, 5). Una stessa vita, quella dello Spirito Santo, scorre dal Cristo ai battezzati, unendoli in un solo Corpo (cf. 1Cor 12, 13), crismato dalla santa unzione e alimentato alla mensa eucaristica. Il Battesimo permette a Cristo di vivere in noi e a noi di vivere uniti a Lui, per collaborare nella Chiesa, ciascuno secondo la propria condizione, alla trasformazione del mondo».
E ha proseguito la riflessione il 18 aprile, dicendo: «Considerando i gesti e le parole della liturgia possiamo cogliere la grazia e l’impegno di questo Sacramento, che è sempre da riscoprire. […] Infatti, quanto avviene nella celebrazione del Battesimo suscita una dinamica spirituale che attraversa tutta la vita dei battezzati; è l’avvio di un processo che permette di vivere uniti a Cristo nella Chiesa. […] La croce è il distintivo che manifesta chi siamo: il nostro parlare, pensare, guardare, operare sta sotto il segno della croce, ossia sotto il segno dell’amore di Gesù fino alla fine. […] Cristiani si diventa nella misura in cui la croce si imprime in noi come un marchio “pasquale” (cf. Ap 14, 1; 22, 4), rendendo visibile, anche esteriormente, il modo cristiano di affrontare la vita».

Mi sembra importante cominciare da queste affermazioni perché quanto abbiamo ascoltato tiene presente la duplice prospettiva nella quale cercherò di muovermi nella nuova tappa evangelizzatrice; per quanto riguarda la fraternità presbiterale, cercherò di tener presenti e di integrare visione individuale e personale (cf. mistero dell’unità e trinità di Dio) e per quanto riguarda la costruzione delle comunità, mi sembra indispensabile rilanciare la centralità dell’amore pasquale nella vita e nella missione della persona e della Chiesa, valorizzando il tesoro del magistero, in particolare postconciliare, in una continuità che mi sembra prezioso che cogliamo, anche per il servizio che siamo chiamati a svolgere nella Chiesa.

Inseriti nella Chiesa, per il Battesimo.
Inseriti nel presbiterio diocesano, per l’Ordine

La prima lettura della liturgia odierna ci fa ascoltare i primi 20 versetti del capitolo 9° degli Atti degli Apostoli. L’episodio ci mostra il momento in cui Saulo intuisce il legame tra Gesù e quanti appartengono alla Via (cf. At 9, 3). Nei pressi di Damasco, avvolto da una luce dal cielo: «e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Rispose: “Chi sei, o Signore?” Ed egli: “Io sono Gesù, che tu perseguiti! Ma tu alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare”» (At 9, 4-6). Perseguitava i seguaci di Gesù, non Lui: c’è quindi un legame tra loro! Una convinzione questa che viene rafforzata da quanto poi fanno Anania, prima, e gli altri discepoli di Damasco, poi.
Il testo fa capire quale salto Dio faccia fare ad Anania. Egli infatti va da lui e imponendogli le mani giunge a chiamarlo fratello: «”Saulo, fratello, mi ha mandato a te il Signore, quel Gesù che ti è apparso sulla strada che percorrevi, perché tu riacquisti la vista e sia colmato di Spirito Santo”. E subito gli caddero dagli occhi come delle squame e recuperò la vista. Si alzò e venne battezzato» (v. 17s).
A Damasco Saulo diventa discepolo e subito missionario: annuncia infatti nelle sinagoghe che Gesù è il Figlio di Dio (v. 20)!
Anche per quanto sperimentato, Paolo parla della Chiesa usando l’immagine del corpo e delle membra, le quali vivono l’una per l’altra, secondo l’ordine che vi ha iscritto Dio (cf. 1Cor 12-14).

Cosa accade a molti?

Con le scelte che si operano e il tipo di vita che si conduce, mi sembra che si sia portati ad esprimere il nostro-Io più che la Chiesa-Noi, facendo prevalere la autonomia delle parti rispetto alla comunione che lega “a filo doppio” i ministri ordinati; quando non sperimentiamo, la conflittualità con gli altri, che sarebbero – e sarebbe da ribadire fortemente – nostri fratelli e sorelle.

E, come mai?

Spesso si vive come preti una donazione anche eroica verso fratelli e sorelle, ma (è la mia ipotesi, ovviamente) non si dà uno spazio adeguato alla condivisione e alla comunione tra ministri ordinati, viviamo e esercitiamo il ministero come se Gesù avesse agito da solo e non avesse tenuto conto né del Padre né dello Spirito Santo (pensiamo al tempo che Egli dedicava alla preghiera e si ritirava dalla gente, per essere con il Padre e lo Spirito Santo). Ci diamo da fare, in molti casi con grande zelo per le persone – si va a dormire stanchi, soprattutto psicologicamente –, ma il frutto non è pari all’impegno, quando non lo portiamo proprio, a differenza del detto di Gesù citato all’inizio (cf. Gv 15, 5). Non pochi cadono nella tipica delusione dei dipendenti di un’azienda che era florida, ma ora sono in cassa integrazione – forse, conoscete anche voi queste situazioni visto che le difficoltà nel mondo del lavoro persistono dovunque –, non si capacitano di ciò che è accaduto e vivono nella frustrazione, mentre non sarebbe proprio il caso di abbattersi, ma anzi di reagire.
Ma, in che modo?

Le circostanze sia interne che esterne alla Chiesa richiedono non un richiamo alla conversione generico ma mettersi con decisione in uno stato di conversione, individuale e comunitario, permanente e profondo, che incida non in modo estetico o verbale (quante volte ci si accorge che mutano nel nostro parlare dei termini, se ne aggiungono di nuovi nel modo di esprimersi), ma non cambia nulla né in noi né attorno a noi. Si tratta di una conversione profonda “nella mente, nel cuore e nelle mani”. È quanto accadde nel Vaticano II ai padri conciliari. Essi per una speciale azione dello Spirito Santo si accorsero che non solo non avrebbero potuto più celebrare la liturgia né parlare della Chiesa scrivendo la costituzione dogmatica come si era fatto da secoli (anche con buoni risultati e veri esempi di santità), ma che era indispensabile renderne esplicito il mistero nella vita come nella missione della Chiesa.

Conversione della mente:
Dio e la Chiesa valgono più del mio io

Dobbiamo dire a noi stessi che la realtà creata, così come la Chiesa, è comunitaria. Tutto ciò che Dio ha creato, infatti, non può che avere la sua impronta: la vita di Dio uno e trino, e tutto ciò che è e che desidera esprimere la Chiesa non può che manifestare il Mistero della Trinità che Gesù è venuto a portare a compimento e a svelare pienamente; mistero che siamo chiamati a vivere, ad annunciare e a celebrare nella Parola e nei Sacramenti.

Il Battesimo ci ha inseriti in un unico corpo per l’azione dello Spirito Santo e il sacerdozio ministeriale – quando si vive ciò che si celebra e si celebra quanto si vive cioè la Pasqua del Signore – dà un contributo decisivo, preziosissimo, alla vita della Chiesa-Gesù. Egli è il Vivente che ha assicurato la continuità della presenza nel momento stesso in cui saliva al cielo alla destra del Padre (cf. Mt 28, 20). Il ministero ordinato, potremmo dire, che è al servizio della visibilità di Gesù nella Chiesa. E ciascuno deve decidersi se vuole essere nel presbiterio guidato dal vescovo che la Chiesa gli ha donato, sacramentalmente, o anche esistenzialmente, cioè chiedendo la Grazia di poter testimoniare e annunciare con gli altri la luce della Pasqua. E coloro che accettano consapevolmente questa seconda dimensione, si accorgono che non solo fanno parte del popolo che Dio ha costituito profetico, regale e sacerdotale ma ne contribuiscono in una maniera speciale alla vitalità e all’irradiazione.

Conversione del cuore e delle mani:
il primato dell’amore …

Siamo sollecitati ad avere presente il mistero di Dio, Uno in tre Persone, Tre Persone che sono un solo Dio, nella liturgia e nella vita della Chiesa: corpo nel quale le persone, diverse ma non separate tra loro, si impegnano (con la grazia di Cristo) a mettere l’amore, al posto giusto, e a vivere la fraternità nella reciprocità – che “ab aeterno” caratterizza Padre e Figlio e Spirito Santo: l’amore reciproco è il debito che hanno (cf. Rm 13, 8), perché è il Comandamento nuovo di Gesù (cf. Gv 13, 34s) – sino a vedere l’azione dello Spirito Santo.
Egli infatti può trasformare il nostro cuore dilatandolo sulla misura di quello del Crocifisso: egli può aprire le nostre mani e spalancarle come quelle del Crocifisso.
Egli può allargare l’interiorità del singolo.
Egli può portare le persone alla fraternità mistica.
Non si può eliminare quello che caratterizza l’ascesi – è infatti necessaria –, per gioire del dono ineffabile della mistica e della contemplazione!

Mi sembrano quanto mai attuali le indicazioni di Giovanni Paolo II all’inizio del terzo millennio; esse tengono presente sicuramente ciò che scrisse Paolo VI circa la necessità di ridare il giusto posto alla virtù teologale della carità:
«“Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 35). Se abbiamo veramente contemplato il volto di Cristo, carissimi Fratelli e Sorelle, la nostra programmazione pastorale non potrà non ispirarsi al “comandamento nuovo” che egli ci ha dato: “Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13, 34).
È l’altro grande ambito in cui occorrerà esprimere un deciso impegno programmatico, a livello di Chiesa universale e di Chiese particolari: quello della comunione (koinonìa) che incarna e manifesta l’essenza stessa del mistero della Chiesa. La comunione è il frutto e la manifestazione di quell’amore che, sgorgando dal cuore dell’eterno Padre, si riversa in noi attraverso lo Spirito che Gesù ci dona (cf. Rm 5, 5), per fare di tutti noi “un cuore solo e un’anima sola” (At 4, 32). È realizzando questa comunione di amore che la Chiesa si manifesta come “sacramento”, ossia “segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 1).
Le parole del Signore, a questo proposito, sono troppo precise per poterne ridurre la portata. Tante cose, anche nel nuovo secolo, saranno necessarie per il cammino storico della Chiesa; ma se mancherà la carità (agape), tutto sarà inutile. È lo stesso apostolo Paolo a ricordarcelo nell’inno alla carità: se anche parlassimo le lingue degli uomini e degli angeli, e avessimo una fede “da trasportare le montagne”, ma poi mancassimo della carità, tutto sarebbe “nulla” (cf. 1Cor 13, 2). La carità è davvero il “cuore” della Chiesa, come aveva ben intuito santa Teresa di Lisieux, che ho voluto proclamare Dottore della Chiesa proprio come esperta della scientia amoris: “Capii che la Chiesa aveva un Cuore e che questo Cuore era acceso d’Amore. Capii che solo l’Amore faceva agire le membra della Chiesa […] Capii che l’Amore racchiudeva tutte le Vocazioni, che l’Amore era tutto” (MsB 3vo, Opere complete, Città del Vaticano, 1997, 223)».

… e dell’amore ai poveri

Giovanni Paolo II ha fortemente invitato a scommettere sulla carità:
«Dalla comunione intra-ecclesiale, la carità si apre per sua natura al servizio universale, proiettandoci nell’impegno di un amore operoso e concreto verso ogni essere umano. È un ambito, questo, che qualifica in modo ugualmente decisivo la vita cristiana, lo stile ecclesiale e la programmazione pastorale. Il secolo e il millennio che si avviano dovranno ancora vedere, ed anzi è auspicabile che lo vedano con forza maggiore, a quale grado di dedizione sappia arrivare la carità verso i più poveri. Se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi” (Mt 25, 35-36). Questa pagina non è un semplice invito alla carità: è una pagina di cristologia, che proietta un fascio di luce sul mistero di Cristo. Su questa pagina, non meno che sul versante dell’ortodossia, la Chiesa misura la sua fedeltà di Sposa di Cristo. Certo, non va dimenticato che nessuno può essere escluso dal nostro amore, dal momento che “con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo” (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 22). Ma stando alle inequivocabili parole del Vangelo, nella persona dei poveri c’è una sua presenza speciale, che impone alla Chiesa un’opzione preferenziale per loro.
Dobbiamo per questo fare in modo che i poveri si sentano, in ogni comunità cristiana, come “a casa loro”. Non sarebbe, questo stile, la più grande ed efficace presentazione della buona novella del Regno? Senza questa forma di evangelizzazione, compiuta attraverso la carità e la testimonianza della povertà cristiana, l’annuncio del Vangelo, che pur è la prima carità, rischia di essere incompreso o di affogare in quel mare di parole a cui l’odierna società della comunicazione quotidianamente ci espone. La carità delle opere assicura una forza inequivocabile alla carità delle parole».

I nostri presbitèri sono pienamente coinvolti in tutto ciò, perché la prima carità che possiamo vivere è quella che siamo chiamati ad esercitare tra noi ministri ordinati e vescovo, tra noi ministri ordinati e le persone che la divina Provvidenza ci fa incontrare. I primi poveri da servire sono i ministri ordinati più deboli e fragili; quelli desiderosi di tornare a casa, ma forse intimoriti dal “fratello maggiore” che pensa di non sbagliare o si vanta con poca verità di non averlo mai fatto!

Con la grazia di Dio, siamo chiamati a combattere la “cultura del single” imposta dal mondo in modo pervasivo e rilanciare la cultura della famiglia di Dio e della famiglia presbiterale (la famiglia che c’è e non quella che desidererei!). Allora – proprio come fa il buon pastore – sapremo custodire e difendere le persone alle quali siamo stati inviati.
Sì, con la grazia di Dio possiamo vincere la “cultura dell’efficienza” se e quando poniamo il nostro sguardo e la nostra fiducia nel Crocifisso, anche nel suo stare appeso e immobile. Se lo imitiamo, ci saranno dati occhi per riconoscere le opere meravigliose che Dio continua a compiere, anche al di là di noi; quelle opere che siamo chiamati a celebrare in mezzo al popolo, santo ma portato a perderne la memoria grata.
Sì, con la grazia di Dio possiamo vincere la “cultura del merito del singolo” se e quando ci decidiamo a scegliere sinodalità e, se possibile, la vita in comune tra preti al vivere da soli, più comodo e meno gratificante, in non pochi casi. Anche qui si tratta di scegliere la croce ma di farlo per la vita comunitaria tra preti. Scegliamo la croce quando non diciamo sempre l’ultima parola, pur sapendo forse più di altri; ci inchiodiamo alla croce quando decidiamo di dare tempo ai nostri confratelli, magari andando a visitarli o ascoltandoli in modo profondo (senza far capire che abbiamo tante altre cose più importanti da fare); amiamo la croce quando decidiamo di lasciar fare agli altri (sia giovani che anziani) e non pensare che è fatto bene solto quando lo facciamo noi e come lo avremmo fatto noi. Come è difficile imparare a stare bene accanto agli altri, a stare con semplicità dietro e stare con umiltà davanti! Atteggiamenti che Papa Francesco indica per la missione del vescovo e anche per quanti come noi ne sono collaboratori.
Gesù che è il Maestro, nel Vangelo non si pone sempre al centro dell’attenzione; preferisce parlare del regno di Dio, del Padre, dello Spirito Santo… Pensiamo, a quando dice addirittura che è bene per gli apostoli che egli se ne vada perché altrimenti non potrebbe venire lo Spirito Santo (cf. Gv 16, 7). Egli ci insegna a fare bene la nostra parte, ma anche a fare spazio all’azione di altri. Essi possono dare il loro contributo, se glielo permettiamo lasciando spazio e se non siamo di ostacolo o di impedimento, magari in buona fede. MI sembra tanto interesante per i nostri presbiteri quanto l’Evangelii gaudium dice sul rapporto tra giovani e anziani: «Come ho già detto, non ho voluto offrire un’analisi completa, ma invito le comunità a completare ed arricchire queste prospettive a partire dalla consapevolezza delle sfide che le riguardano direttamente o da vicino. Spero che quando lo faranno tengano conto che, ogni volta che cerchiamo di leggere nella realtà attuale i segni dei tempi, è opportuno ascoltare i giovani e gli anziani. Entrambi sono la speranza dei popoli. Gli anziani apportano la memoria e la saggezza dell’esperienza, che invita a non ripetere stupidamente gli stessi errori del passato. I giovani ci chiamano a risvegliare e accrescere la speranza, perché portano in sé le nuove tendenze dell’umanità e ci aprono al futuro, in modo che non rimaniamo ancorati alla nostalgia di strutture e abitudini che non sono più portatrici di vita nel mondo attuale. Le sfide esistono per essere superate. Siamo realisti, ma senza perdere l’allegria, l’audacia e la dedizione piena di speranza! Non lasciamoci rubare la forza missionaria!».

Come ministri ordinati possiamo mostrare a fedeli laici e “consacrati” che è bello e necessario vivere la «comunione nelle differenze», rendendo visibile quanto la liturgia ci fa dire nella preghiera eucaristica seconda: Ti preghiamo umilmente: per la comunione al corpo e sangue di Cristo lo Spirito santo ci riunisca in un solo corpo. Scegliere la fraternità presbiterale nella forma della vita comune chiede presenza e invocazione costanti dello Spirito Santo, Colui che è la fantasia dell’amore, il Solo che possa offrirci le categorie per annunciare il mistero di Gesù e della Chiesa, sua Sposa e suo Corpo!
E se è vero che «l’unità è superiore al conflitto», bisogna precisare che ciò si attua ed è vero per quanti vivono morti a se stessi e viventi in Cristo Gesù (cf. Rm 6, 11). Questo è il modo di pensare e agire secondo lo Spirito, non quello del mondo. Chi persegue questo stile di vita, quando parla di conversione si accorgerà di una particolare efficacia e concretezza; infatti non fa altro che dire con semplicità il vivere la Pasqua: mistero di morte (a se stessi come singoli) e di risurrezione (come popolo sacerdotale che esalta le opere meravigliose di Dio).

Lo Spirito Santo fa vivere Gesù in potenza in noi e attorno a noi; insegna come si coltivano le persone affinché abbiano la misericordia di Gesù (cf. Mt 9, 13; 12, 7) e il Suo modo di esercitare l’autorità (cf. Lc 22, 24-32; Gv 13, 1-17). Ci ispira a rimanere con Lui e la sua Chiesa (cf. Gv 15, 1-10); ci fa amare sino alla fine, qualsiasi cosa accada: fa credere alla fecondità della Croce (cf. Gv 12, 32).
La centralità della Pasqua nella vita del singolo e della Chiesa: «Ma come Cristo ha compiuto l’opera della redenzione in povertà e nella persecuzione, così la Chiesa è chiamata ad incamminarsi per la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. […] Dalla potenza del Signore risorto viene corroborata per vincere con pazienza e carità le sue afflizioni e difficoltà interne ed esterne e per svelare al mondo con fedeltà, anche se in immagine, il mistero di lui, fin quando alla fine sarà manifestato in piena luce».

La percezione che abbiamo della nostra vita

Invocare spesso lo Spirito Santo ci dà la grazia di scoprirci parte eletta del popolo di Dio e, di esserlo, in un atteggiamento riconoscente. Infatti, potremmo anche noi, come accade a diversi che hanno celebrato il sacramento del matrimonio, “sopportare” la nostra condizione o la nostra scelta, e farlo ricadere sugli altri!
Se e quando ci si riconosce uomini che sperimentano la misericordia di Dio, dei fortunati a essere stati chiamati in questa strada di santità, scaturisce quella gioia pasquale – anche nelle difficoltà e nelle contraddizioni della vita –, che non si può che comunicare! Anche da questa percezione di sé, sorge l’esigenza di ringraziare Dio nella preghiera sia essa personale che comunitaria.
In fondo, è ciò che accadde al lebbroso che decise di tornare sui propri passi per rendere gloria a Dio, contravvenendo all’invito esplicito di Gesù. S’era accorto di ciò che gli era accaduto, e non poteva proseguire per andare a presentarsi dai sacerdoti. «Gesù osservò: “Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?” E gli disse: “Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!”» (Lc 17, 17-19).
Non si può frenare la gioia che si esprime quando si è vista la potenza di Dio!

… incide nella qualità della preghiera e nell’annuncio della Parola

Preghiera e Annuncio della Parola, sono tra le priorità indicate da Giovanni Paolo II al termine del Grande Giubileo dell’anno duemila; la preghiera è al secondo posto (nn. 32-34) e l’Annuncio della Parola al settimo (nn. 40s). Al primo posto, La santità (n. 30s); le altre sono: L’Eucaristia domenicale (nn. 35s), Il sacramento della Riconciliazione (n. 37), Il primato della grazia (n. 38) e Ascolto della Parola (n. 39).

Di seguito inserisco alcuni passaggi di quanto si dice della preghiera e dello annuncio della Parola che dall’inizio caratterizzano gli apostoli (cf. At 6, 4).
«Nella preghiera si sviluppa quel dialogo con Cristo che ci rende suoi intimi: “Rimanete in me e io in voi” (Gv 15, 4). Questa reciprocità è la sostanza stessa, l’anima della vita cristiana ed è condizione di ogni autentica vita pastorale. Realizzata in noi dallo Spirito Santo, essa ci apre, attraverso Cristo ed in Cristo, alla contemplazione del volto del Padre. Imparare questa logica trinitaria della preghiera cristiana, vivendola pienamente innanzitutto nella liturgia, culmine e fonte della vita ecclesiale (Cf. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, 10), ma anche nell’esperienza personale, è il segreto di un cristianesimo veramente vitale, che non ha motivo di temere il futuro, perché continuamente torna alle sorgenti e in esse si rigenera. […] Sì, carissimi Fratelli e Sorelle, le nostre comunità cristiane devono diventare autentiche “scuole” di preghiera, dove l’incontro con Cristo non si esprima soltanto in implorazione di aiuto, ma anche in rendimento di grazie, lode, adorazione, contemplazione, ascolto, ardore di affetti, fino ad un vero “invaghimento” del cuore. Una preghiera intensa, dunque, che tuttavia non distoglie dall’impegno nella storia: aprendo il cuore all’amore di Dio, lo apre anche all’amore dei fratelli, e rende capaci di costruire la storia secondo il disegno di Dio (Cf. Congr. per la Dottrina della Fede, Lett. su alcuni aspetti della meditazione cristiana Orationis formas [15 ottobre 1989]: AAS 82 [1990], 362-379). […] Certo alla preghiera sono in particolare chiamati quei fedeli che hanno avuto il dono della vocazione ad una vita di speciale consacrazione: questa li rende, per sua natura, più disponibili all’esperienza contemplativa, ed è importante che essi la coltivino con generoso impegno. Ma ci si sbaglierebbe a pensare che i comuni cristiani si possano accontentare di una preghiera superficiale, incapace di riempire la loro vita. Specie di fronte alle numerose prove che il mondo d’oggi pone alla fede, essi sarebbero non solo cristiani mediocri, ma “cristiani a rischio”. Correrebbero, infatti, il rischio insidioso di veder progressivamente affievolita la loro fede, e magari finirebbero per cedere al fascino di “surrogati”, accogliendo proposte religiose alternative e indulgendo persino alle forme stravaganti della superstizione».

«È ormai tramontata, anche nei Paesi di antica evangelizzazione, la situazione di una “società cristiana”, che, pur tra le tante debolezze che sempre segnano l’umano, si rifaceva esplicitamente ai valori evangelici. Oggi si deve affrontare con coraggio una situazione che si fa sempre più varia e impegnativa, nel contesto della globalizzazione e del nuovo e mutevole intreccio di popoli e culture che la caratterizza. Ho tante volte ripetuto in questi anni l’appello della nuova evangelizzazione. Lo ribadisco ora, soprattutto per indicare che occorre riaccendere in noi lo slancio delle origini, lasciandoci pervadere dall’ardore della predicazione apostolica seguita alla Pentecoste. Dobbiamo rivivere in noi il sentimento infuocato di Paolo, il quale esclamava: “Guai a me se non predicassi il Vangelo!” (1Cor 9, 16). Questa passione non mancherà di suscitare nella Chiesa una nuova missionarietà, che non potrà essere demandata ad una porzione di “specialisti”, ma dovrà coinvolgere la responsabilità di tutti i membri del Popolo di Dio. Chi ha incontrato veramente Cristo, non può tenerselo per sé, deve annunciarlo. Occorre un nuovo slancio apostolico che sia vissuto quale impegno quotidiano delle comunità e dei gruppi cristiani. Ciò tuttavia avverrà nel rispetto dovuto al cammino sempre diversificato di ciascuna persona e nell’attenzione per le diverse culture in cui il messaggio cristiano deve essere calato, così che gli specifici valori di ogni popolo non siano rinnegati, ma purificati e portati alla loro pienezza».

In conclusione

Papa Francesco evidenzia i pericoli dello gnosticismo e del pelagianesimo; l’aveva fatto al Convegno ecclesiale di Firenze e l’ha ribadito in questi giorni. «Sono due eresie sorte nei primi secoli cristiani, ma che continuano ad avere un’allarmante attualità. Anche oggi i cuori di molti cristiani, forse senza esserne consapevoli, si lasciano sedurre da queste proposte ingannevoli. In esse si esprime un immanentismo antropocentrico travestito da verità cattolica». Infatti, le nostre, come la chiamata di Pietro descritta da Luca (cf. Lc 5, 1-11), non dipendono da uno stato di perfezione iniziale. Infatti, Pietro dice: “Signore, allontanati da me” (v. 8).
La chiamata chiede la disponibilità a lasciare tutto per stare con Gesù e seguirlo in uno stato di conversione e di sequela permanenti. A chi avesse il desiderio di misurarne il livello, mi sentirei di consigliare alcuni esercizi:
– scrivere su un foglio, da un lato, quanto pensiamo di aver dato e, dall’altro, quanto ricevuto: da Dio, dalla Chiesa o dalle persone che cerchiamo di servire. In genere, si riceve molto più di quanto si dà, ma si dovrebbe anche gustare, nell’esame di coscienza, la gioia d’aver dato senza ricevere,
– verificare la nostra capacità di scegliere, per quanto dipenda da noi, gli ultimi posti, quelli preferiti da Gesù,
– accorgerci se amiamo le persone che ci sono state affidate dal vescovo o dalle circostanze con l’umiltà e la gioia di chi non ha altro da fare che cantare la gloria di Dio. Nel libro di Tobia, troviamo questo invito rivolto da Raffaele a Tobia e Tobi: «Benedite Dio e proclamate davanti a tutti i viventi il bene che vi ha fatto, perché sia benedetto e celebrato il suo nome. Fate conoscere a tutti gli uomini le opere di Dio, come è giusto, e non esitate a ringraziarlo. È bene tenere nascosto il segreto del re, ma è motivo di onore manifestare e lodare le opere di Dio. […] Quando ero con voi, io stavo con voi non per bontà mia, ma è per la volontà di Dio: lui dovete benedire sempre, a lui cantate inni» (Tb 12, 6b-7a. 18).

Rocchi don Emilio

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