Prima Predica di Quaresima
padre Raniero Cantalamessa
Come al solito, dedichiamo questa prima meditazione a una introduzione generale al tempo quaresimale, prima di entrare nel tema specifico in programma, una volta terminati gli esercizi spirituali della Curia. Nel Vangelo della Prima Domenica di Quaresima dell’Anno B abbiamo ascoltato l’annuncio programmatico con cui Gesù inizia il suo ministero pubblico: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1, 15). Vogliamo meditare su questo appello sempre attuale di Cristo.
Di conversione si parla in tre momenti o contesti diversi del Nuovo Testamento. Ogni volta viene messa in luce una sua componente nuova. Insieme, i tre passaggi ci danno un’idea completa su che cosa è la metanoia evangelica. Non è detto che dobbiamo sperimentarle tutte e tre insieme, con la stessa intensità. C’è una conversione per ogni stagione della vita. L’importante è che ognuno di noi scopra quella che fa per lui in questo momento.
Convertitevi, cioè credete!
La prima conversione è quella che risuona all’inizio della predicazione di Gesù e che è riassunta nelle parole: “Convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1, 15). Cerchiamo di capire cosa significa qui la parola conversione. Prima di Gesù, convertirsi significava sempre un “tornare indietro” (il termine ebraico, shub, significa invertire rotta, tornare sui propri passi). Indicava l’atto di chi, a un certo punto della vita, si accorge di essere “fuori strada”. Allora si ferma, ha un ripensamento; decide di tornare all’osservanza della legge e di rientrare nell’alleanza con Dio. La conversione, in questo caso, ha un significato fondamentalmente morale e suggerisce l’idea di qualcosa di penoso da compiere: cambiare i costumi, smettere di fare questo e quest’altro….
Sulle labbra di Gesù questo significato cambia. Non perché egli si diverta a cambiare i significati delle parole, ma perché, con la sua venuta, sono cambiate le cose. “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è venuto!”. Convertirsi non significa più tornare indietro, all’antica alleanza e all’osservanza della legge, ma significa piuttosto fare un balzo in avanti ed entrare nel Regno, afferrare la salvezza che è venuta agli uomini gratuitamente, per libera e sovrana iniziativa di Dio.
“Convertitevi e credete” non significa due cose diverse e successive, ma la stessa azione fondamentale: convertitevi, cioè credete! “Prima conversio fit per fidem”, ha scritto san Tommaso d‘Aquino: la prima conversione consiste nel credere. Tutto questo richiede una vera “conversione”, un cambiamento profondo nel modo di concepire i nostri rapporti con Dio. Esige di passare dall’idea di un Dio che chiede, che ordina, che minaccia, alla idea di un Dio che viene a mani piene per darci lui tutto. È la conversione dalla “legge” alla “grazia” che stava tanto a cuore a S. Paolo.
“Se non vi convertirete e non diventerete come bambini…”
Ascoltiamo ora il secondo passaggio in cui, nel Vangelo, si torna a parlare di conversione: “In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli? Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18, 1-3). Questa volta, sì, che convertirsi significa tornare indietro, addirittura a quando si era bambini! Il verbo stesso usato, strefo, indica inversione di marcia. Questa è la conversione di chi è entrato già nel Regno, ha creduto al vangelo, è da tempo al servizio di Cristo. È la nostra conversione! Cosa suppone la discussione su chi è il più grande? Che la preoccupazione maggiore non è più il regno, ma il proprio posto in esso, il proprio io. Ognuno degli apostoli aveva qualche titolo per aspirare a essere il più grande: Pietro aveva ricevuto la promessa del primato, Giuda la cassa, Matteo poteva dire che lui aveva lasciato più degli altri, Andrea che era stato il primo a seguirlo, Giacomo e Giovanni che erano stati con lui sul Tabor…I frutti di questa situazione sono evidenti: rivalità, sospetti, confronti, frustrazione.
Gesù di colpo toglie il velo. Altro che primi, in questo modo nel regno non ci si entra affatto! Il rimedio? Convertirsi, cambiare completamente prospettiva e direzione. Quella che Gesù propone è una vera rivoluzione copernicana. Bisogna “decentrarsi da se stessi e ricentrarsi su Cristo”. Gesù parla più semplicemente di un diventare bambini. Tornare bambini, per gli apostoli, significava tornare a come erano al momento della chiamata sulle rive del lago o al telonio: senza pretese, senza titoli, senza confronti tra di loro, senza invidie, senza rivalità. Ricchi solo di una promessa (“Vi farò pescatori di uomini”) e di una presenza, quella di Gesù. A quando erano ancora compagni di avventura, non concorrenti per il primo posto. Anche per noi tornare bambini significa tornare al momento in cui scoprimmo di essere chiamati, al momento dell’ordinazione sacerdotale, della professione religiosa, o del primo vero incontro personale con Gesù. Quando dicevamo: “Dio solo basta!” e ci credevamo.
“Tu non sei né freddo né caldo”
Il terzo contesto in cui ricorre, martellante, l’invito alla conversione è dato dalle sette lettere alle Chiese dell’Apocalisse. Le sette lettere sono rivolte a persone e comunità che, come noi, vivono da tempo la vita cristiana e, anzi, esercitano in esse un ruolo-guida. Sono indirizzate all’angelo delle diverse Chiese: “All’angelo della chiesa che è in Efeso scrivi”. Non si spiega questo titolo se non in riferimento, diretto o indiretto, al pastore della comunità. Non si può pensare che lo Spirito Santo attribuisca a degli angeli la responsabilità delle colpe e delle deviazioni che sono denunciate nelle diverse Chiese, tanto meno che l’invito alla conversione sia rivolto a degli angeli anziché a degli uomini.
Delle sette lettere dell’Apocalisse, quella che deve farci riflettere più di tutte è la lettera alla Chiesa di Laodicea. Ne conosciamo il tono severo: “Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo…Poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca…Sii zelante e convertiti” (Ap 3, 15s). Qui si tratta della conversione dalla mediocrità e dalla tiepidezza al fervore dello spirito. Nella storia della santità cristiana l’esempio più famoso della prima conversione, quella dal peccato alla grazia, è sant’Agostino; l’esempio più istruttivo della seconda conversione, quella dalla tiepidezza al fervore, è santa Teresa d’Avila.
Quello che ella dice di sé nella Vita è certamente esagerato e dettato dalla delicatezza della sua coscienza, ma, in ogni caso, può servire a tutti noi per un utile esame di coscienza. “Di passatempo in passatempo, di vanità in vanità, di occasione in occasione, cominciai a mettere di nuovo in pericolo la mia anima […]. Le cose di Dio mi davano piacere e non sapevo svincolarmi da quelle del mondo. Volevo conciliare questi due nemici tra loro tanto contrari: la vita dello spirito con i gusti e i passatempi dei sensi”. Il risultato di questo stato era una profonda infelicità:
“Cadevo e mi rialzavo, e mi rialzavo così male che ritornavo a cadere. Ero così in basso in fatto di perfezione che non facevo quasi più conto dei peccati veniali, e non temevo i mortali come avrei dovuto, perché non ne fuggivo i pericoli. Posso dire che la mia vita era delle più penose che si possano immaginare, perché non godevo di Dio, né mi sentivo contenta del mondo. Quando ero nei passatempi mondani, il pensiero di quello che dovevo a Dio me li faceva trascorrere con pena; e quando ero con Dio, mi venivano a disturbare gli affetti del mondo”.
Molti di noi potrebbero scoprire in questa analisi il vero motivo della propria insoddisfazione e scontentezza.
Parliamo dunque di conversione dalla tiepidezza. San Paolo esortava i cristiani di Roma con le parole: “Non siate pigri nel fare il bene, siate invece ferventi nello Spirito” (Rom 12, 11). Verrebbe da obiettare: “Ma, caro Paolo, proprio qui sta il problema! Come passare dalla tiepidezza al fervore, se uno malauguratamente vi è scivolato?” Noi possiamo a poco a poco cadere nella tiepidezza, come si cade nelle sabbie mobili, ma non possiamo tirarci su da soli, quasi tirandoci per capelli.
Questa nostra obiezione nasce dal fatto che si trascura o si interpreta male l’aggiunta “nello Spirito” (en pneumati) che l’Apostolo fa seguire all’esortazione: “Siate ferventi”. In Paolo la parola “Spirito” indica quasi sempre – e sicuramente nel presente testo – un riferimento allo Spirito Santo. Non si tratta mai esclusivamente del nostro spirito o la nostra volontà, eccetto in 1 Tessalonicesi 5, 23, dove indica una componente dell’uomo, accanto al corpo e all’anima. Noi siamo eredi di una spiritualità che concepiva il cammino di perfezione secondo le tre tappe classiche: via purgativa, via illuminativa e via unitiva. In altre parole, bisogna esercitarsi a lungo nella rinuncia e nella mortificazione, prima di poter sperimentare il fervore. C’è una grande sapienza e una secolare esperienza alla base di tutto ciò e guai a credere che sia ormai superato. No, non è superato, ma non è l’unica via che segue la grazia di Dio. Uno schema così rigido denota un lento e progressivo spostamento dell’accento dalla grazia allo sforzo dell’uomo. Secondo il Nuovo Testamento c’è una circolarità e una simultaneità, per cui, se è vero che la mortificazione è necessaria per giungere al fervore dello Spirito, è anche vero che il fervore dello Spirito è necessario per giungere a praticare la mortificazione. San Paolo lo dice con chiarezza: “Se mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete” (Rom 8, 13).
Un’ascesi intrapresa senza una forte spinta iniziale dello Spirito sarebbe morta fatica, e non produrrebbe altro che “vanto della carne”. Lo Spirito ci è dato per essere in grado di mortificarci, più che come premio per esserci mortificati. Questa seconda via che va dal fervore all’ascesi e alla pratica delle virtù fu la via che Gesù fece seguire ai suoi apostoli. Scrive il grande teologo bizantino Cabasilas:
“Gli apostoli e padri della nostra fede ebbero il vantaggio di essere istruiti in ogni dottrina e per di più dal Salvatore in persona. […] Tuttavia, pur avendo conosciuto tutto questo, finché non furono battezzati [a Pentecoste, con lo Spirito], non mostrarono nulla di nuovo, di nobile, di spirituale, di migliore dell’antico. Ma quando venne per essi il battesimo e il Paraclito irruppe nelle loro anime, allora divennero nuovi e abbracciarono una vita nuova, furono guida agli altri e fecero ardere la fiamma dell’amore per Cristo in sé e negli altri. […] Allo stesso modo Dio conduce alla perfezione tutti i santi venuti dopo di loro”.
I Padri della Chiesa esprimevano tutto ciò con l’immagine suggestiva della “sobria ebbrezza”. Ciò che spinse molti di loro a riprendere questo tema, già sviluppato da Filone Alessandrino, furono le parole di Paolo agli Efesini: “Non ubriacatevi di vino, il quale porta alla sfrenatezza, ma siate ricolmi dello Spirito, intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore” (Ef 5,18-19).
A partire da Origene, non si contano i testi dei Padri che illustrano questo tema, giocando ora sull’analogia, ora sul contrasto tra ebbrezza materiale ed ebbrezza spirituale. Quelli che, a Pentecoste, scambiarono gli apostoli per ubriachi avevano ragione – scrive san Cirillo di Gerusalemme -; sbagliavano solo nell’attribuire tale ebbrezza al vino ordinario, mentre si trattava del “vino nuovo”, spremuto dalla “vite vera” che è Cristo; gli apostoli erano, sì, ebbri, ma di quella sobria ebbrezza che mette a morte il peccato e dà vita al cuore.
Come fare per riprendere questo ideale della sobria ebbrezza e incarnarlo nella presente situazione storica ed ecclesiale? Dove sta scritto infatti che un modo così “forte” di sperimentare lo Spirito era appannaggio esclusivo dei Padri e dei primi tempi della Chiesa, ma che non lo è più per noi? Il dono di Cristo non è limitato a un’epoca particolare, ma offerto a ogni epoca. È proprio il ruolo dello Spirito quello di rendere universale la redenzione di Cristo, disponibile a ogni persona, in ogni punto del tempo e dello spazio.
Una vita cristiana piena di sforzi ascetici e di mortificazione, ma senza il tocco vivificante dello Spirito, somiglierebbe – diceva un antico Padre – a una Messa nella quale si leggessero tante letture, si compissero tutti i riti e si portassero tante offerte, ma nella quale non avvenisse la consacrazione delle specie da parte del sacerdote. Tutto rimarrebbe quello che era prima, pane e vino.
“Così – concludeva quel Padre – è anche per il cristiano. Se anche egli ha compiuto perfettamente il digiuno e la veglia, la salmodia e l’intera ascesi e ogni virtù, ma non si è compiuta, per la grazia, nell’altare del suo cuore, la mistica operazione dello Spirito, tutto questo processo ascetico è incompiuto e quasi vano, perché egli non ha l’esultanza dello Spirito misticamente operante nel cuore”.
Quali sono i “luoghi” dove lo Spirito agisce oggi in questa maniera pentecostale? Ascoltiamo la voce di sant’Ambrogio che è stato il cantore per eccellenza, tra i Padri latini, della sobria ebbrezza dello Spirito. Dopo aver ricordato i due “luoghi” classici in cui attingere lo Spirito – l’Eucaristia e le Scritture -, egli accenna a una terza possibilità. Dice:
“C’è anche un’altra ebbrezza che si opera tramite la penetrante pioggia dello Spirito Santo. Fu così che, negli Atti degli apostoli, quelli che parlavano in lingue diverse apparvero agli ascoltatori come se fossero pieni di vino”.
Dopo aver ricordato i mezzi “ordinari”, sant’Ambrogio, con queste parole, accenna a un mezzo diverso, “straordinario”, nel senso che non è fissato in anticipo, non è qualcosa di istituito. Esso consiste nel rivivere l’esperienza che gli apostoli fecero il giorno di Pentecoste. Ambrogio non intendeva certamente additare questa terza possibilità, per dire agli ascoltatori che essa era preclusa per loro, essendo riservata solo agli apostoli e alla prima generazione di cristiani. Al contrario, egli intende invogliare i suoi fedeli a fare l’esperienza di quella “pioggia penetrante dello Spirito” che si verificò a Pentecoste. È quello che San Giovanni XXIII si riprometteva con il Concilio Vaticano II: una “nuova Pentecoste” per la Chiesa.
C’è dunque anche per noi la possibilità di attingere lo Spirito per questa via nuova, dipendente unicamente dalla sovrana e libera iniziativa di Dio. Uno dei modi in cui si manifesta ai nostri giorni questo modo di agire dello Spirito al di fuori dei canali istituzionali della grazia è il cosiddetto “battesimo nello Spirito”. Accenno ad esso in questa sede senza alcun intento di proselitismo, solo per rispondere all’esortazione che papa Francesco rivolge spesso agli aderenti al Rinnovamento Carismatico Cattolico di condividere con tutto il popolo di Dio questa “corrente di grazia” che si sperimenta nel battesimo dello Spirito.
L’espressione “Battesimo nello Spirito” non è nuova. Cabasilas, abbiamo sentito, la usava già, tra gli ortodossi, per indicare l’evento della Pentecoste. Essa viene da Gesù stesso. Riferendosi alla prossima Pentecoste, prima di salire al cielo, egli disse ai suoi apostoli: “Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo” (At 1, 5). Si tratta di un rito che non ha nulla di esoterico, ma è fatto piuttosto di gesti di grande semplicità, calma e gioia, accompagnati da atteggiamenti di umiltà, di pentimento, di disponibilità a diventare bambini.
È un rinnovamento e un’attualizzazione non solo del battesimo e della cresima, ma di tutta la vita cristiana: per gli sposati, del sacramento del matrimonio, per i sacerdoti, della loro ordinazione, per i consacrati, della loro professione religiosa. L’interessato vi si prepara, oltre che attraverso una buona confessione, partecipando a incontri di catechesi nei quali è rimesso in un contatto vivo e gioioso con le principali verità e realtà della fede: l’amore di Dio, il peccato, la salvezza, la vita nuova, la trasformazione in Cristo, i carismi, i frutti dello Spirito. Il frutto più frequente e più importante è la scoperta di che cosa significa avere “un rapporto personale” con Gesù risorto e vivo. Nella comprensione cattolica, il battesimo nello Spirito non è un punto di arrivo, ma un punto di partenza verso la maturità cristiana e l’impegno ecclesiale.
È giusto aspettarsi che tutti passino attraverso questa esperienza? È essa l’unico modo possibile per sperimentare la grazia di una rinnovata Pentecoste auspicata dal Concilio? Se per battesimo nello Spirito intendiamo un certo rito, in un certo contesto, dobbiamo rispondere no; non è certo l’unico modo per fare un’esperienza forte dello Spirito. Ci sono stati e ci sono innumerevoli cristiani che hanno fatto una esperienza analoga, senza nulla sapere del battesimo nello Spirito, ricevendo un evidente incremento di grazia e una nuova unzione dello Spirito in seguito a un ritiro, un incontro, una lettura. Anche un corso di esercizi spirituali può benissimo concludersi con una speciale invocazione dello Spirito Santo, se chi li guida ne ha fatto l’esperienza e i partecipanti lo desiderano. Se qualcuno non ama l’espressione “battesimo dello Spirito”, può benissimo lasciarla da parte e anziché chiedere il battesimo dello Spirito chiedere lo Spirito del battesimo, Cioè un riaccendersi dello Spirito Santo ricevuto nel battesimo.
Il segreto è dire una volta “Vieni, Santo Spirito”, ma dirlo con tutto il cuore, lasciando libero lo Spirito di venire nel modo che vuole lui, non come noi vorremmo che venisse, cioè senza cambiare nulla del nostro modo di vivere e di pregare. Ricordiamo la solenne promessa di Gesù nel Vangelo della Messa di ieri: “Se voi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone [in Luca: “darà lo Spirito Santo”] a quelli che gliele chiedono!” (Mt 7, 11).
Il “battesimo nello Spirito” si è rivelato un mezzo semplice e potente per rinnovare la vita di milioni di credenti in quasi tutte le Chiese cristiane. Non si contano le persone che erano cristiani soltanto di nome e, grazie a quella esperienza, sono diventate cristiani di fatto, dediti alla preghiera di lode e ai sacramenti, attivi nell’evangelizzazione e pronti ad assumersi compiti pastorali nella parrocchia. Una vera conversione dalla tiepidezza al fervore! È il caso di dire a noi stessi quello che Agostino ripeteva, quasi con sdegno, a se stesso nell’ascoltare storie di uomini e donne che, a suo tempo, abbandonavano il mondo per dedicarsi a Dio: “Si isti et istae, cur non ego?”: Se questi e queste, perché non anch’io?
Chiediamo alla Madre di Dio che ci ottenga la grazia che ottenne dal Figlio a Cana di Galilea. Per la sua preghiera, in quella occasione, l’acqua si convertì in vino. Chiediamo che per sua intercessione l’acqua della nostra tiepidezza si converta nel vino di un rinnovato fervore. Il vino che a Pentecoste provocò negli apostoli l’ebbrezza dello Spirito e li rese “ferventi nello Spirito”.