Con la catechesi dell’udienza generale di mercoledì 4 aprile, Papa Francesco ha concluso il ciclo dedicato alla Messa, avviato lo scorso 8 novembre. In 15 catechesi ha spiegato come possiamo vivere la Passione e la Risurrezione di Gesù in modo da passare “dalla carne di Cristo alla carne dei fratelli, in cui egli attende di essere da noi riconosciuto, servito, onorato, amato (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, 1397)”. Ha incoraggiato, infine, a non stancarsi di tornare al “santo altare”. Infatti, portiamo il tesoro dell’unione con Cristo in vasi di creta (cf. 2Cor 4, 7) e perciò ne abbiamo bisogno per prepararci alla “beatitudine del banchetto di nozze dell’Agnello (cf. Ap 19, 9)”. In allegato, le 15 catechesi sulla Messa.
CATECHESI ALLE UDIENZE GENERALI SULLA SANTA MESSA
(da mercoledì 8 novembre 2017 a mercoledì 4 aprile 2018)
GLI ARGOMENTI
- Introduzione (8 novembre 2017)
- La Messa è preghiera (15 novembre 2017)
- La Messa è il memoriale del Mistero pasquale di Cristo (22 novembre 2017)
- Perché andare a Messa la domenica? (13 dicembre 2017)
- Riti di introduzione (20 dicembre 2017)
- L’atto penitenziale (3 gennaio 2018)
- 7. Il canto del “Gloria” e l’orazione colletta (10 gennaio 2018)
- Liturgia della Parola: I. Dialogo tra Dio e il suo popolo (31 gennaio 2018)
- Liturgia della Parola. II. Vangelo e omelia (7 febbraio 2018)
- Liturgia della Parola. III. Credo e Preghiera universale (14 febbraio 2018)
- Liturgia eucaristica: I. Presentazione dei doni (28 febbraio 2018)
- Liturgia eucaristica: II. Preghiera eucaristica (7 marzo 2018)
- Liturgia eucaristica. III. “Padre nostro” e frazione del Pane (14 marzo 2018)
- Liturgia eucaristica. IV. La Comunione (21 marzo 2018)
- Riti di conclusione (4 aprile 2018)
- Introduzione (8 novembre 2017)
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Iniziamo oggi una nuova serie di catechesi, che punterà lo sguardo sul “cuore” della Chiesa, cioè l’Eucaristia. È fondamentale per noi cristiani comprendere bene il valore e il significato della Santa Messa, per vivere sempre più pienamente il nostro rapporto con Dio.
Non possiamo dimenticare il gran numero di cristiani che, nel mondo intero, in duemila anni di storia, hanno resistito fino alla morte per difendere l’Eucaristia; e quanti, ancora oggi, rischiano la vita per partecipare alla Messa domenicale. Nell’anno 304, durante le persecuzioni di Diocleziano, un gruppo di cristiani, del nord Africa, furono sorpresi mentre celebravano la Messa in una casa e vennero arrestati. Il proconsole romano, nell’interrogatorio, chiese loro perché l’avessero fatto, sapendo che era assolutamente vietato. Ed essi risposero: «Senza la domenica non possiamo vivere», che voleva dire: se non possiamo celebrare l’Eucaristia, non possiamo vivere, la nostra vita cristiana morirebbe.
In effetti, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6, 53-54).
Quei cristiani del nord Africa furono uccisi perché celebravano l’Eucaristia. Hanno lasciato la testimonianza che si può rinunciare alla vita terrena per l’Eucaristia, perché essa ci dà la vita eterna, rendendoci partecipi della vittoria di Cristo sulla morte. Una testimonianza che ci interpella tutti e chiede una risposta su che cosa significhi per ciascuno di noi partecipare al Sacrificio della Messa e accostarci alla Mensa del Signore. Stiamo cercando quella sorgente che “zampilla acqua viva” per la vita eterna?, che fa della nostra vita un sacrificio spirituale di lode e di ringraziamento e fa di noi un solo corpo con Cristo? Questo è il senso più profondo della santa Eucaristia, che significa “ringraziamento”: ringraziamento a Dio Padre, Figlio e Spirito Santo che ci coinvolge e ci trasforma nella sua comunione di amore.
Nelle prossime catechesi vorrei dare risposta ad alcune domande importanti sull’Eucaristia e la Messa, per riscoprire, o scoprire, come attraverso questo mistero della fede risplende l’amore di Dio.
Il Concilio Vaticano II è stato fortemente animato dal desiderio di condurre i cristiani a comprendere la grandezza della fede e la bellezza dell’incontro con Cristo. Per questo motivo era necessario anzitutto attuare, con la guida dello Spirito Santo, un adeguato rinnovamento della Liturgia, perché la Chiesa continuamente vive di essa e si rinnova grazie ad essa.
Un tema centrale che i Padri conciliari hanno sottolineato è la formazione liturgica dei fedeli, indispensabile per un vero rinnovamento. Ed è proprio questo anche lo scopo di questo ciclo di catechesi che oggi iniziamo: crescere nella conoscenza del grande dono che Dio ci ha donato nell’Eucaristia.
L’Eucaristia è un avvenimento meraviglioso nel quale Gesù Cristo, nostra vita, si fa presente. Partecipare alla Messa «è vivere un’altra volta la passione e la morte redentrice del Signore. È una teofania: il Signore si fa presente sull’altare per essere offerto al Padre per la salvezza del mondo» (Omelia nella S. Messa, Casa S. Marta, 10 febbraio 2014). Il Signore è lì con noi, presente. Tante volte noi andiamo lì, guardiamo le cose, chiacchieriamo fra noi mentre il sacerdote celebra l’Eucaristia… e non celebriamo vicino a Lui. Ma è il Signore! Se oggi venisse qui il Presidente della Repubblica o qualche persona molto importante del mondo, è sicuro che tutti saremmo vicino a lui, che vorremmo salutarlo. Ma pensa: quando tu vai a Messa, lì c’è il Signore! E tu sei distratto. È il Signore! Dobbiamo pensare a questo. “Padre, è che le messe sono noiose” – “Ma cosa dici, il Signore è noioso?” – “No, no, la Messa no, i preti” – “Ah, che si convertano i preti, ma è il Signore che sta lì!”. Capito? Non dimenticatelo. «Partecipare alla Messa è vivere un’altra volta la passione e la morte redentrice del Signore».
Proviamo ora a porci alcune semplici domande. Per esempio, perché si fa il segno della croce e l’atto penitenziale all’inizio della Messa? E qui vorrei fare un’altra parentesi. Voi avete visto come i bambini si fanno il segno della croce? Tu non sai cosa fanno, se è il segno della croce o un disegno. Fanno così [fa un gesto confuso]. Bisogna insegnare ai bambini a fare bene il segno della croce. Così incomincia la Messa, così incomincia la vita, così incomincia la giornata. Questo vuol dire che noi siamo redenti con la croce del Signore. Guardate i bambini e insegnate loro a fare bene il segno della croce. E quelle Letture, nella Messa, perché stanno lì? Perché si leggono la domenica tre Letture e gli altri giorni due? Perché stanno lì, cosa significa la Lettura della Messa? Perché si leggono e che c’entrano? Oppure, perché a un certo punto il sacerdote che presiede la celebrazione dice: “In alto i nostri cuori?”. Non dice: “In alto i nostri telefonini per fare la fotografia!”. No, è una cosa brutta! E vi dico che a me dà tanta tristezza quando celebro qui in Piazza o in Basilica e vedo tanti telefonini alzati, non solo dei fedeli, anche di alcuni preti e anche vescovi. Ma per favore! La Messa non è uno spettacolo: è andare ad incontrare la passione e la risurrezione del Signore. Per questo il sacerdote dice: “In alto i nostri cuori”. Cosa vuol dire questo? Ricordatevi: niente telefonini.
È molto importante tornare alle fondamenta, riscoprire ciò che è l’essenziale, attraverso quello che si tocca e si vede nella celebrazione dei Sacramenti. La domanda dell’apostolo san Tommaso (cfr Gv 20, 25), di poter vedere e toccare le ferite dei chiodi nel corpo di Gesù, è il desiderio di potere in qualche modo “toccare” Dio per credergli. Ciò che San Tommaso chiede al Signore è quello di cui noi tutti abbiamo bisogno: vederlo, toccarlo per poterlo riconoscere. I Sacramenti vengono incontro a questa esigenza umana. I Sacramenti, e la celebrazione eucaristica in modo particolare, sono i segni dell’amore di Dio, le vie privilegiate per incontrarci con Lui.
Così, attraverso queste catechesi che oggi cominciano, vorrei riscoprire insieme a voi la bellezza che si nasconde nella celebrazione eucaristica, e che, una volta svelata, dà senso pieno alla vita di ciascuno. La Madonna ci accompagni in questo nuovo tratto di strada. Grazie.
- La Messa è preghiera (15 novembre 2017)
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Continuiamo con le catechesi sulla Santa Messa. Per comprendere la bellezza della celebrazione eucaristica desidero iniziare con un aspetto molto semplice: la Messa è preghiera, anzi, è la preghiera per eccellenza, la più alta, la più sublime, e nello stesso tempo la più “concreta”. Infatti è l’incontro d’amore con Dio mediante la sua Parola e il Corpo e Sangue di Gesù. È un incontro con il Signore.
Ma prima dobbiamo rispondere a una domanda. Che cosa è veramente la preghiera? Essa è anzitutto dialogo, relazione personale con Dio. E l’uomo è stato creato come essere in relazione personale con Dio che trova la sua piena realizzazione solamente nell’incontro con il suo Creatore. La strada della vita è verso l’incontro definitivo con il Signore.
Il Libro della Genesi afferma che l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio, il quale è Padre e Figlio e Spirito Santo, una relazione perfetta di amore che è unità. Da ciò possiamo comprendere che noi tutti siamo stati creati per entrare in una relazione perfetta di amore, in un continuo donarci e riceverci per poter trovare così la pienezza del nostro essere.
Quando Mosè, di fronte al roveto ardente, riceve la chiamata di Dio, gli chiede qual è il suo nome. E cosa risponde Dio?: «Io sono colui che sono» (Es 3, 14). Questa espressione, nel suo senso originario, esprime presenza e favore, e infatti subito dopo Dio aggiunge: «Il Signore, il Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe» (v. 15). Così anche Cristo, quando chiama i suoi discepoli, li chiama affinché stiano con Lui. Questa dunque è la grazia più grande: poter sperimentare che la Messa, l’Eucaristia è il momento privilegiato per stare con Gesù, e, attraverso di Lui, con Dio e con i fratelli.
Pregare, come ogni vero dialogo, è anche saper rimanere in silenzio – nei dialoghi ci sono momenti di silenzio -, in silenzio insieme a Gesù. E quando noi andiamo a Messa, forse arriviamo cinque minuti prima e incominciamo a chiacchierare con questo che è accanto a noi. Ma non è il momento di chiacchierare: è il momento del silenzio per prepararci al dialogo. È il momento di raccogliersi nel cuore per prepararsi all’incontro con Gesù. Il silenzio è tanto importante! Ricordatevi quello che ho detto la settimana scorsa: non andiamo ad un uno spettacolo, andiamo all’incontro con il Signore e il silenzio ci prepara e ci accompagna. Rimanere in silenzio insieme a Gesù. E dal misterioso silenzio di Dio scaturisce la sua Parola che risuona nel nostro cuore. Gesù stesso ci insegna come realmente è possibile “stare” con il Padre e ce lo dimostra con la sua preghiera. I Vangeli ci mostrano Gesù che si ritira in luoghi appartati a pregare; i discepoli, vedendo questa sua intima relazione con il Padre, sentono il desiderio di potervi partecipare, e gli chiedono: «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11, 1). Abbiamo sentito nella Lettura prima, all’inizio dell’udienza. Gesù risponde che la prima cosa necessaria per pregare è saper dire “Padre”. Stiamo attenti: se io non sono capace di dire “Padre” a Dio, non sono capace di pregare. Dobbiamo imparare a dire “Padre”, cioè mettersi alla sua presenza con confidenza filiale. Ma per poter imparare, bisogna riconoscere umilmente che abbiamo bisogno di essere istruiti, e dire con semplicità: Signore, insegnami a pregare.
Questo è il primo punto: essere umili, riconoscersi figli, riposare nel Padre, fidarsi di Lui. Per entrare nel Regno dei cieli è necessario farsi piccoli come bambini. Nel senso che i bambini sanno fidarsi, sanno che qualcuno si preoccuperà di loro, di quello che mangeranno, di quello che indosseranno e così via (cfr Mt 6, 25-32). Questo è il primo atteggiamento: fiducia e confidenza, come il bambino verso i genitori; sapere che Dio si ricorda di te, si prende cura di te, di te, di me, di tutti.
La seconda predisposizione, anch’essa propria dei bambini, è lasciarsi sorprendere. Il bambino fa sempre mille domande perché desidera scoprire il mondo; e si meraviglia persino di cose piccole perché tutto è nuovo per lui. Per entrare nel Regno dei cieli bisogna lasciarsi meravigliare. Nella nostra relazione con il Signore, nella preghiera – domando – ci lasciamo meravigliare o pensiamo che la preghiera è parlare a Dio come fanno i pappagalli? No, è fidarsi e aprire il cuore per lasciarsi meravigliare. Ci lasciamo sorprendere da Dio che è sempre il Dio delle sorprese? Perché l’incontro con il Signore è sempre un incontro vivo, non è un incontro di museo. È un incontro vivo e noi andiamo alla Messa non a un museo. Andiamo ad un incontro vivo con il Signore.
Nel Vangelo si parla di un certo Nicodemo (Gv 3, 1-21), un uomo anziano, un’autorità in Israele, che va da Gesù per conoscerlo; e il Signore gli parla della necessità di “rinascere dall’alto” (cfr v. 3). Ma che cosa significa? Si può “rinascere”? Tornare ad avere il gusto, la gioia, la meraviglia della vita, è possibile, anche davanti a tante tragedie? Questa è una domanda fondamentale della nostra fede e questo è il desiderio di ogni vero credente: il desiderio di rinascere, la gioia di ricominciare. Noi abbiamo questo desiderio? Ognuno di noi ha voglia di rinascere sempre per incontrare il Signore? Avete questo desiderio voi? Infatti si può perderlo facilmente perché, a causa di tante attività, di tanti progetti da mettere in atto, alla fine ci rimane poco tempo e perdiamo di vista quello che è fondamentale: la nostra vita del cuore, la nostra vita spirituale, la nostra vita che è incontro con il Signore nella preghiera.
In verità, il Signore ci sorprende mostrandoci che Egli ci ama anche nelle nostre debolezze. «Gesù Cristo […] è la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (1Gv 2, 2). Questo dono, fonte di vera consolazione – ma il Signore ci perdona sempre – questo, consola, è una vera consolazione, è un dono che ci è dato attraverso l’Eucaristia, quel banchetto nuziale in cui lo Sposo incontra la nostra fragilità. Posso dire che quando faccio la comunione nella Messa, il Signore incontra la mia fragilità? Sì! Possiamo dirlo perché questo è vero! Il Signore incontra la nostra fragilità per riportarci alla nostra prima chiamata: quella di essere a immagine e somiglianza di Dio. Questo è l’ambiente dell’Eucaristia, questo è la preghiera.
- La Messa è il memoriale del Mistero pasquale di Cristo
(22 novembre 2017)
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Proseguendo con le Catechesi sulla Messa, possiamo domandarci: che cos’è essenzialmente la Messa? La Messa è il memoriale del Mistero pasquale di Cristo. Essa ci rende partecipi della sua vittoria sul peccato e la morte, e dà significato pieno alla nostra vita.
Per questo, per comprendere il valore della Messa dobbiamo innanzitutto capire allora il significato biblico del “memoriale”. Esso «non è soltanto il ricordo degli avvenimenti del passato, ma li rende in certo modo presenti e attuali. Proprio così Israele intende la sua liberazione dall’Egitto: ogni volta che viene celebrata la Pasqua, gli avvenimenti dell’Esodo sono resi presenti alla memoria dei credenti affinché conformino ad essi la propria vita» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1363). Gesù Cristo, con la sua passione, morte, risurrezione e ascensione al cielo ha portato a compimento la Pasqua. E la Messa è il memoriale della sua Pasqua, del suo “esodo”, che ha compiuto per noi, per farci uscire dalla schiavitù e introdurci nella terra promessa della vita eterna. Non è soltanto un ricordo, no, è di più: è fare presente quello che è accaduto venti secoli fa.
L’Eucaristia ci porta sempre al vertice dell’azione di salvezza di Dio: il Signore Gesù, facendosi pane spezzato per noi, riversa su di noi tutta la sua misericordia e il suo amore, come ha fatto sulla croce, così da rinnovare il nostro cuore, la nostra esistenza e il nostro modo di relazionarci con Lui e con i fratelli. Dice il Concilio Vaticano II: «Ogni volta che il sacrificio della croce, col quale Cristo, nostro agnello pasquale, è stato immolato, viene celebrato sull’altare, si effettua l’opera della nostra redenzione» (Cost. dogm. Lumen gentium, 3).
Ogni celebrazione dell’Eucaristia è un raggio di quel sole senza tramonto che è Gesù risorto. Partecipare alla Messa, in particolare alla domenica, significa entrare nella vittoria del Risorto, essere illuminati dalla sua luce, riscaldati dal suo calore. Attraverso la celebrazione eucaristica lo Spirito Santo ci rende partecipi della vita divina che è capace di trasfigurare tutto il nostro essere mortale. E nel suo passaggio dalla morte alla vita, dal tempo all’eternità, il Signore Gesù trascina anche noi con Lui a fare Pasqua. Nella Messa si fa Pasqua. Noi, nella Messa, stiamo con Gesù, morto e risorto e Lui ci trascina avanti, alla vita eterna. Nella Messa ci uniamo a Lui. Anzi, Cristo vive in noi e noi viviamo in Lui. «Sono stato crocifisso con Cristo – dice San Paolo -, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2, 19-20). Così pensava Paolo.
Il suo sangue, infatti, ci libera dalla morte e dalla paura della morte. Ci libera non solo dal dominio della morte fisica, ma dalla morte spirituale che è il male, il peccato, che ci prende ogni volta che cadiamo vittime del peccato nostro o altrui. E allora la nostra vita viene inquinata, perde bellezza, perde significato, sfiorisce.
Cristo invece ci ridà la vita; Cristo è la pienezza della vita, e quando ha affrontato la morte la annientata per sempre: «Risorgendo distrusse la morte e rinnovò la vita» (Preghiera eucaristica IV). La Pasqua di Cristo è la vittoria definitiva sulla morte, perché Lui ha trasformato la sua morte in supremo atto d’amore. Morì per amore! E nell’Eucaristia, Egli vuole comunicarci questo suo amore pasquale, vittorioso. Se lo riceviamo con fede, anche noi possiamo amare veramente Dio e il prossimo, possiamo amare come Lui ha amato noi, dando la vita.
Se l’amore di Cristo è in me, posso donarmi pienamente all’altro, nella certezza interiore che se anche l’altro dovesse ferirmi io non morirei; altrimenti dovrei difendermi. I martiri hanno dato la vita proprio per questa certezza della vittoria di Cristo sulla morte. Solo se sperimentiamo questo potere di Cristo, il potere del suo amore, siamo veramente liberi di donarci senza paura. Questo è la Messa: entrare in questa passione, morte, risurrezione, ascensione di Gesù; quando andiamo a Messa è come se andassimo al calvario, lo stesso. Ma pensate voi: se noi nel momento della Messa andiamo al calvario – pensiamo con immaginazione – e sappiamo che quell’uomo lì è Gesù. Ma, noi ci permetteremo di chiacchierare, di fare fotografie, di fare un po’ lo spettacolo? No! Perché è Gesù! Noi di sicuro staremmo nel silenzio, nel pianto e anche nella gioia di essere salvati.
Quando noi entriamo in chiesa per celebrare la Messa pensiamo questo: entro nel calvario, dove Gesù dà la sua vita per me. E così sparisce lo spettacolo, spariscono le chiacchiere, i commenti e queste cose che ci allontano da questa cosa tanto bella che è la Messa, il trionfo di Gesù.
Penso che ora sia più chiaro come la Pasqua si renda presente e operante ogni volta che celebriamo la Messa, cioè il senso del memoriale. La partecipazione all’Eucaristia ci fa entrare nel mistero pasquale di Cristo, donandoci di passare con Lui dalla morte alla vita, cioè lì nel calvario. La Messa è rifare il calvario, non è uno spettacolo.
- Perché andare a Messa la domenica? (13 dicembre 2017)
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Riprendendo il cammino di catechesi sulla Messa, oggi ci chiediamo: perché andare a Messa la domenica?
La celebrazione domenicale dell’Eucaristia è al centro della vita della Chiesa (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2177). Noi cristiani andiamo a Messa la domenica per incontrare il Signore risorto, o meglio per lasciarci incontrare da Lui, ascoltare la sua parola, nutrirci alla sua mensa, e così diventare Chiesa, ossia suo mistico Corpo vivente nel mondo.
Lo hanno compreso, fin dalla prima ora, i discepoli di Gesù, i quali hanno celebrato l’incontro eucaristico con il Signore nel giorno della settimana che gli ebrei chiamavano “il primo della settimana” e i romani “giorno del sole”, perché in quel giorno Gesù era risorto dai morti ed era apparso ai discepoli, parlando con loro, mangiando con loro, donando loro lo Spirito Santo (cf. Mt 28, 1; Mc 16, 9.14; Lc 24, 1.13; Gv 20, 1.19), come abbiamo sentito nella Lettura biblica. Anche la grande effusione dello Spirito a Pentecoste avvenne di domenica, il cinquantesimo giorno dopo la risurrezione di Gesù. Per queste ragioni, la domenica è un giorno santo per noi, santificato dalla celebrazione eucaristica, presenza viva del Signore tra noi e per noi. È la Messa, dunque, che fa la domenica cristiana! La domenica cristiana gira intorno alla Messa. Che domenica è, per un cristiano, quella in cui manca l’incontro con il Signore?
Ci sono comunità cristiane che, purtroppo, non possono godere della Messa ogni domenica; anch’esse tuttavia, in questo santo giorno, sono chiamate a raccogliersi in preghiera nel nome del Signore, ascoltando la Parola di Dio e tenendo vivo il desiderio dell’Eucaristia.
Alcune società secolarizzate hanno smarrito il senso cristiano della domenica illuminata dall’Eucaristia. È peccato, questo! In questi contesti è necessario ravvivare questa consapevolezza, per recuperare il significato della festa, il significato della gioia, della comunità parrocchiale, della solidarietà, del riposo che ristora l’anima e il corpo (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 2177-2188). Di tutti questi valori ci è maestra l’Eucaristia, domenica dopo domenica. Per questo il Concilio Vaticano II ha voluto ribadire che «la domenica è il giorno di festa primordiale che deve essere proposto e inculcato alla pietà dei fedeli, in modo che divenga anche giorno di gioia e di astensione dal lavoro» (Cost. Sacrosanctum Concilium, 106).
L’astensione domenicale dal lavoro non esisteva nei primi secoli: è un apporto specifico del cristianesimo. Per tradizione biblica gli ebrei riposano il sabato, mentre nella società romana non era previsto un giorno settimanale di astensione dai lavori servili. Fu il senso cristiano del vivere da figli e non da schiavi, animato dall’Eucaristia, a fare della domenica – quasi universalmente – il giorno del riposo.
Senza Cristo siamo condannati ad essere dominati dalla stanchezza del quotidiano, con le sue preoccupazioni, e dalla paura del domani. L’incontro domenicale con il Signore ci dà la forza di vivere l’oggi con fiducia e coraggio e di andare avanti con speranza. Per questo noi cristiani andiamo ad incontrare il Signore la domenica, nella celebrazione eucaristica.
La Comunione eucaristica con Gesù, Risorto e Vivente in eterno, anticipa la domenica senza tramonto, quando non ci sarà più fatica né dolore né lutto né lacrime, ma solo la gioia di vivere pienamente e per sempre con il Signore. Anche di questo beato riposo ci parla la Messa della domenica, insegnandoci, nel fluire della settimana, ad affidarci alle mani del Padre che è nei cieli.
Cosa possiamo rispondere a chi dice che non serve andare a Messa, nemmeno la domenica, perché l’importante è vivere bene, amare il prossimo? È vero che la qualità della vita cristiana si misura dalla capacità di amare, come ha detto Gesù: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 35); ma come possiamo praticare il Vangelo senza attingere l’energia necessaria per farlo, una domenica dopo l’altra, alla fonte inesauribile dell’Eucaristia? Non andiamo a Messa per dare qualcosa a Dio, ma per ricevere da Lui ciò di cui abbiamo davvero bisogno. Lo ricorda la preghiera della Chiesa, che così si rivolge a Dio: «Tu non hai bisogno della nostra lode, ma per un dono del tuo amore ci chiami a renderti grazie; i nostri inni di benedizione non accrescono la tua grandezza, ma ci ottengono la grazia che ci salva» (Messale Romano, Prefazio comune IV).
In conclusione, perché andare a Messa la domenica? Non basta rispondere che è un precetto della Chiesa; questo aiuta a custodirne il valore, ma da solo non basta. Noi cristiani abbiamo bisogno di partecipare alla Messa domenicale perché solo con la grazia di Gesù, con la sua presenza viva in noi e tra di noi, possiamo mettere in pratica il suo comandamento, e così essere suoi testimoni credibili.
- Riti di introduzione (20 dicembre 2017)
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi vorrei entrare nel vivo della celebrazione eucaristica. La Messa è composta da due parti, che sono la Liturgia della Parola e la Liturgia eucaristica, così strettamente congiunte tra di loro da formare un unico atto di culto (cf. Sacrosanctum Concilium, 56; Ordinamento Generale del Messale Romano, 28). Introdotta da alcuni riti preparatori e conclusa da altri, la celebrazione è dunque un unico corpo e non si può separare, ma per una comprensione migliore cercherò di spiegare i suoi vari momenti, ognuno dei quali è capace di toccare e coinvolgere una dimensione della nostra umanità. È necessario conoscere questi santi segni per vivere pienamente la Messa e assaporare tutta la sua bellezza.
Quando il popolo è radunato, la celebrazione si apre con i riti introduttivi, comprendenti l’ingresso dei celebranti o del celebrante, il saluto – “Il Signore sia con voi”, “La pace sia con voi” –, l’atto penitenziale – “Io confesso”, dove noi chiediamo perdono dei nostri peccati –, il Kyrie eleison, l’inno del Gloria e l’orazione colletta: si chiama “orazione colletta” non perché lì si fa la colletta delle offerte: è la colletta delle intenzioni di preghiera di tutti i popoli; e quella colletta dell’intenzione dei popoli sale al cielo come preghiera. Il loro scopo – di questi riti introduttivi – è di far sì «che i fedeli, riuniti insieme, formino una comunità, e si dispongano ad ascoltare con fede la parola di Dio e a celebrare degnamente l’Eucaristia» (Ordinamento Generale del Messale Romano, 46). Non è una buona abitudine guardare l’orologio e dire: “Sono in tempo, arrivo dopo il sermone e con questo compio il precetto”. La Messa incomincia con il segno della Croce, con questi riti introduttivi, perché lì incominciamo ad adorare Dio come comunità. E per questo è importante prevedere di non arrivare in ritardo, bensì in anticipo, per preparare il cuore a questo rito, a questa celebrazione della comunità.
Mentre normalmente si svolge il canto d’ingresso, il sacerdote con gli altri ministri raggiunge processionalmente il presbiterio, e qui saluta l’altare con un inchino e, in segno di venerazione, lo bacia e, quando c’è l’incenso, lo incensa. Perché? Perché l’altare è Cristo: è figura di Cristo. Quando noi guardiamo l’altare, guardiamo proprio dov’è Cristo. L’altare è Cristo. Questi gesti, che rischiano di passare inosservati, sono molto significativi, perché esprimono fin dall’inizio che la Messa è un incontro di amore con Cristo, il quale «offrendo il suo corpo sulla croce […] divenne altare, vittima e sacerdote» (prefazio pasquale V). L’altare, infatti, in quanto segno di Cristo, «è il centro dell’azione di grazie che si compie con l’Eucaristia» (Ordinamento Generale del Messale Romano, 296), e tutta la comunità attorno all’altare, che è Cristo; non per guardarsi la faccia, ma per guardare Cristo, perché Cristo è al centro della comunità, non è lontano da essa.
Vi è poi il segno della croce. Il sacerdote che presiede lo traccia su di sé e lo stesso fanno tutti i membri dell’assemblea, consapevoli che l’atto liturgico si compie «nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». E qui passo a un altro argomento piccolissimo. Voi avete visto come i bambini fanno il segno della croce? Non sanno cosa fanno: a volte fanno un disegno, che non è il segno della croce. Per favore: mamma e papà, nonni, insegnate ai bambini, dall’inizio – da piccolini – a fare bene il segno della croce. E spiegategli che è avere come protezione la croce di Gesù. E la Messa incomincia con il segno della croce. Tutta la preghiera si muove, per così dire, nello spazio della Santissima Trinità – “Nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo” –, che è spazio di comunione infinita; ha come origine e come fine l’amore di Dio Uno e Trino, manifestato e donato a noi nella Croce di Cristo. Infatti il suo mistero pasquale è dono della Trinità, e l’Eucaristia scaturisce sempre dal suo cuore trafitto. Segnandoci con il segno della croce, dunque, non solo facciamo memoria del nostro Battesimo, ma affermiamo che la preghiera liturgica è l’incontro con Dio in Cristo Gesù, che per noi si è incarnato, è morto in croce ed è risorto glorioso.
Il sacerdote, quindi, rivolge il saluto liturgico, con l’espressione: «Il Signore sia con voi» o un’altra simile – ce ne sono parecchie –; e l’assemblea risponde: «E con il tuo spirito». Siamo in dialogo; siamo all’inizio della Messa e dobbiamo pensare al significato di tutti questi gesti e parole. Stiamo entrando in una “sinfonia”, nella quale risuonano varie tonalità di voci, compreso tempi di silenzio, in vista di creare l’“accordo” tra tutti i partecipanti, cioè di riconoscersi animati da un unico Spirito e per un medesimo fine. In effetti «il saluto sacerdotale e la risposta del popolo manifestano il mistero della Chiesa radunata» (Ordinamento Generale del Messale Romano, 50). Si esprime così la comune fede e il desiderio vicendevole di stare con il Signore e di vivere l’unità con tutta la comunità.
E questa è una sinfonia orante, che si sta creando e presenta subito un momento molto toccante, perché chi presiede invita tutti a riconoscere i propri peccati. Tutti siamo peccatori. Non so, forse qualcuno di voi non è peccatore…Se qualcuno non è peccatore alzi la mano, per favore, così tutti vediamo. Ma non ci sono mani alzate, va bene: avete buona la fede! Tutti siamo peccatori; e per questo all’inizio della Messa chiediamo perdono. E’ l’atto penitenziale. Non si tratta solamente di pensare ai peccati commessi, ma molto di più: è l’invito a confessarsi peccatori davanti a Dio e davanti alla comunità, davanti ai fratelli, con umiltà e sincerità, come il pubblicano al tempio. Se veramente l’Eucaristia rende presente il mistero pasquale, vale a dire il passaggio di Cristo dalla morte alla vita, allora la prima cosa che dobbiamo fare è riconoscere quali sono le nostre situazioni di morte per poter risorgere con Lui a vita nuova.
Questo ci fa comprendere quanto sia importante l’atto penitenziale. E per questo riprenderemo l’argomento nella prossima catechesi.
Andiamo passo passo nella spiegazione della Messa. Ma mi raccomando: insegnate bene ai bambini a fare il segno della croce, per favore!
- L’atto penitenziale (3 gennaio 2018)
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Riprendendo le catechesi sulla celebrazione eucaristica, consideriamo oggi, nel contesto dei riti di introduzione, l’atto penitenziale. Nella sua sobrietà, esso favorisce l’atteggiamento con cui disporsi a celebrare degnamente i santi misteri, ossia riconoscendo davanti a Dio e ai fratelli i nostri peccati, riconoscendo che siamo peccatori. L’invito del sacerdote infatti è rivolto a tutta la comunità in preghiera, perché tutti siamo peccatori. Che cosa può donare il Signore a chi ha già il cuore pieno di sé, del proprio successo? Nulla, perché il presuntuoso è incapace di ricevere perdono, sazio com’è della sua presunta giustizia. Pensiamo alla parabola del fariseo e del pubblicano, dove soltanto il secondo – il pubblicano – torna a casa giustificato, cioè perdonato (cf. Lc 18, 9-14). Chi è consapevole delle proprie miserie e abbassa gli occhi con umiltà, sente posarsi su di sé lo sguardo misericordioso di Dio. Sappiamo per esperienza che solo chi sa riconoscere gli sbagli e chiedere scusa riceve la comprensione e il perdono degli altri.
Ascoltare in silenzio la voce della coscienza permette di riconoscere che i nostri pensieri sono distanti dai pensieri divini, che le nostre parole e le nostre azioni sono spesso mondane, guidate cioè da scelte contrarie al Vangelo. Perciò, all’inizio della Messa, compiamo comunitariamente l’atto penitenziale mediante una formula di confessione generale, pronunciata alla prima persona singolare. Ciascuno confessa a Dio e ai fratelli “di avere molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni”. Sì, anche in omissioni, ossia di aver tralasciato di fare il bene che avrei potuto fare. Spesso ci sentiamo bravi perché – diciamo – “non ho fatto male a nessuno”. In realtà, non basta non fare del male al prossimo, occorre scegliere di fare il bene cogliendo le occasioni per dare buona testimonianza che siamo discepoli di Gesù. È bene sottolineare che confessiamo sia a Dio che ai fratelli di essere peccatori: questo ci aiuta a comprendere la dimensione del peccato che, mentre ci separa da Dio, ci divide anche dai nostri fratelli, e viceversa. Il peccato taglia: taglia il rapporto con Dio e taglia il rapporto con i fratelli, il rapporto nella famiglia, nella società, nella comunità: Il peccato taglia sempre, separa, divide.
Le parole che diciamo con la bocca sono accompagnate dal gesto di battersi il petto, riconoscendo che ho peccato proprio per colpa mia, e non di altri. Capita spesso infatti che, per paura o vergogna, puntiamo il dito per accusare altri. Costa ammettere di essere colpevoli, ma ci fa bene confessarlo con sincerità. Confessare i propri peccati. Io ricordo un aneddoto, che raccontava un vecchio missionario, di una donna che è andata a confessarsi e incominciò a dire gli sbagli del marito; poi è passata a raccontare gli sbagli della suocera e poi i peccati dei vicini. A un certo punto, il confessore le ha detto: “Ma, signora, mi dica: ha finito? – Benissimo: lei ha finito con i peccati degli altri. Adesso incominci a dire i suoi”. Dire i propri peccati!
Dopo la confessione del peccato, supplichiamo la Beata Vergine Maria, gli Angeli e i Santi di pregare il Signore per noi. Anche in questo è preziosa la comunione dei Santi: cioè, l’intercessione di questi «amici e modelli di vita» (Prefazio del 1° novembre) ci sostiene nel cammino verso la piena comunione con Dio, quando il peccato sarà definitivamente annientato.
Oltre al “Confesso”, si può fare l’atto penitenziale con altre formule, ad esempio: «Pietà di noi, Signore / Contro di te abbiamo peccato. / Mostraci, Signore, la tua misericordia. / E donaci la tua salvezza» (cf. Sal 123, 3; 85, 8; Ger 14, 20). Specialmente la domenica si può compiere la benedizione e l’aspersione dell’acqua in memoria del Battesimo (cf. OGMR, 51), che cancella tutti i peccati. È anche possibile, come parte dell’atto penitenziale, cantare il Kyrie eléison: con antica espressione greca, acclamiamo il Signore – Kyrios – e imploriamo la sua misericordia (Ibid., 52).
La Sacra Scrittura ci offre luminosi esempi di figure “penitenti” che, rientrando in se stessi dopo aver commesso il peccato, trovano il coraggio di togliere la maschera e aprirsi alla grazia che rinnova il cuore. Pensiamo al re Davide e alle parole a lui attribuite nel Salmo: «Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità» (51, 3). Pensiamo al figlio prodigo che ritorna dal padre; o all’invocazione del pubblicano: «O Dio, abbi pietà di me, peccatore» (Lc 18, 13). Pensiamo anche a San Pietro, a Zaccheo, alla donna samaritana. Misurarsi con la fragilità dell’argilla di cui siamo impastati è un’esperienza che ci fortifica: mentre ci fa fare i conti con la nostra debolezza, ci apre il cuore a invocare la misericordia divina che trasforma e converte. E questo è quello che facciamo nell’atto penitenziale all’inizio della Messa.
Da Ordinamento generale del Messale romano
Atto penitenziale
- Quindi il sacerdote invita all’atto penitenziale, che, dopo una breve pausa di silenzio, viene compiuto da tutta la comunità mediante una formula di confessione generale, e si conclude con l’assoluzione del sacerdote, che tuttavia non ha lo stesso valore del sacramento della Penitenza.
La domenica, specialmente nel tempo pasquale, in circostanze particolari, si può sostituire il consueto atto penitenziale con la benedizione e l’aspersione dell’acqua in memoria del Battesimo.
Kyrie eleison
- (= 30)Dopo l’atto penitenziale ha sempre luogo il Kyrie eleison, a meno che non sia già stato detto durante l’atto penitenziale. Essendo un canto col quale i fedeli acclamano il Signore e implorano la sua misericordia, di solito viene eseguito da tutti, in alternanza tra il popolo e la schola o un cantore.
Ogni acclamazione viene ripetuta normalmente due volte, senza escluderne tuttavia un numero maggiore, in considerazione dell’indole delle diverse lingue o della composizione musicale o di circostanze particolari. Quando il Kyrie eleison viene cantato come parte dell’atto penitenziale, alle singole acclamazioni si fa precedere un «tropo».
- 7. Il canto del “Gloria” e l’orazione colletta (10 gennaio 2018)
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Nel percorso di catechesi sulla celebrazione eucaristica, abbiamo visto che l’Atto penitenziale ci aiuta a spogliarci delle nostre presunzioni e a presentarci a Dio come siamo realmente, coscienti di essere peccatori, nella speranza di essere perdonati.
Proprio dall’incontro tra la miseria umana e la misericordia divina prende vita la gratitudine espressa nel “Gloria”, «un inno antichissimo e venerabile con il quale la Chiesa, radunata nello Spirito Santo, glorifica e supplica Dio Padre e l’Agnello» (Ordinamento Generale del Messale Romano, 53).
L’esordio di questo inno – “Gloria a Dio nell’alto dei cieli” – riprende il canto degli Angeli alla nascita di Gesù a Betlemme, gioioso annuncio dell’abbraccio tra cielo e terra. Questo canto coinvolge anche noi raccolti in preghiera: «Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà».
Dopo il “Gloria”, oppure, quando questo non c’è, subito dopo l’Atto penitenziale, la preghiera prende forma particolare nell’orazione denominata “colletta”, per mezzo della quale viene espresso il carattere proprio della celebrazione, variabile secondo i giorni e i tempi dell’anno (cf. Ibid., 54). Con l’invito «preghiamo», il sacerdote esorta il popolo a raccogliersi con lui in un momento di silenzio, al fine di prendere coscienza di stare alla presenza di Dio e far emergere, ciascuno nel proprio cuore, le personali intenzioni con cui partecipa alla Messa (cf. Ibid.). Il sacerdote dice «preghiamo»; e poi, viene un momento di silenzio, e ognuno pensa alle cose di cui ha bisogno, che vuol chiedere, nella preghiera.
Il silenzio non si riduce all’assenza di parole, bensì nel disporsi ad ascoltare altre voci: quella del nostro cuore e, soprattutto, la voce dello Spirito Santo. Nella liturgia, la natura del sacro silenzio dipende dal momento in cui ha luogo: «Durante l’atto penitenziale e dopo l’invito alla preghiera, aiuta il raccoglimento; dopo la lettura o l’omelia, è un richiamo a meditare brevemente ciò che si è ascoltato; dopo la Comunione, favorisce la preghiera interiore di lode e di supplica» (Ibid., 45). Dunque, prima dell’orazione iniziale, il silenzio aiuta a raccoglierci in noi stessi e a pensare al perché siamo lì. Ecco allora l’importanza di ascoltare il nostro animo per aprirlo poi al Signore. Forse veniamo da giorni di fatica, di gioia, di dolore, e vogliamo dirlo al Signore, invocare il suo aiuto, chiedere che ci stia vicino; abbiamo familiari e amici malati o che attraversano prove difficili; desideriamo affidare a Dio le sorti della Chiesa e del mondo. E a questo serve il breve silenzio prima che il sacerdote, raccogliendo le intenzioni di ognuno, esprima a voce alta a Dio, a nome di tutti, la comune preghiera che conclude i riti d’introduzione, facendo appunto la “colletta” delle singole intenzioni. Raccomando vivamente ai sacerdoti di osservare questo momento di silenzio e non andare di fretta: «preghiamo», e che si faccia il silenzio. Raccomando questo ai sacerdoti. Senza questo silenzio, rischiamo di trascurare il raccoglimento dell’anima.
Il sacerdote recita questa supplica, questa orazione di colletta, con le braccia allargate è l’atteggiamento dell’orante, assunto dai cristiani fin dai primi secoli – come testimoniano gli affreschi delle catacombe romane – per imitare il Cristo con le braccia aperte sul legno della croce. E lì, Cristo è l’Orante ed è insieme la preghiera! Nel Crocifisso riconosciamo il Sacerdote che offre a Dio il culto a lui gradito, ossia l’obbedienza filiale.
Nel Rito Romano le orazioni sono concise ma ricche di significato: si possono fare tante belle meditazioni su queste orazioni. Tanto belle! Tornare a meditarne i testi, anche fuori della Messa, può aiutarci ad apprendere come rivolgerci a Dio, cosa chiedere, quali parole usare. Possa la liturgia diventare per tutti noi una vera scuola di preghiera.
Da Ordinamento generale del Messale romano
Gloria
- Il Gloria è un inno antichissimo e venerabile con il quale la Chiesa, radunata nello Spirito Santo, glorifica e supplica Dio Padre e l’Agnello. Il testo di questo inno non può essere sostituito con un altro. Viene iniziato dal sacerdote o, secondo l’opportunità, dal cantore o dalla schola, ma viene cantato o da tutti simultaneamente o dal popolo alternativamente con la schola,oppure dalla stessa schola. Se non lo si canta, viene recitato da tutti, o insieme o da due cori che si alternano.
Lo si canta o si recita nelle domeniche fuori del tempo di Avvento e Quaresima; e inoltre nelle solennità e feste, e in celebrazioni di particolare solennità.
Colletta
- Poi il sacerdote invita il popolo a pregare e tutti insieme con lui stanno per qualche momento in silenzio, per prendere coscienza di essere alla presenza di Dio e poter formulare nel cuore le proprie intenzioni di preghiera. Quindi il sacerdote dice l’orazione, chiamata comunemente «colletta», per mezzo della quale viene espresso il carattere della celebrazione. Per antica tradizione della Chiesa, l’orazione colletta è abitualmente rivolta a Dio Padre, per mezzo di Cristo, nello Spirito Santo (Cf. Tertulliano, Adversus Marcionem, IV, 9: CCSL 1, 560; Origene, Disputatio cum Heracleida, n. 4, 24: SCh 67, 62; Statuta Concilii Hipponensi Breviata, 21: CCSL 149, 39)e termina con la conclusione trinitaria, cioè più lunga, in questo modo:
– se è rivolta al Padre: Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli;
– se è rivolta al Padre, ma verso la fine dell’orazione medesima si fa menzione del Figlio: Egli è Dio e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli;
– se è rivolta al Figlio: Tu sei Dio e vivi e regni con Dio Padre, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
Il popolo, unendosi alla preghiera, fa propria l’orazione con l’acclamazione Amen.
Nella Messa si dice sempre una sola colletta.
Il silenzio
- Si deve anche osservare, a suo tempo, il sacro silenzio, come parte della celebrazione (Cf. Conc. Ecum. Vaticano II, Costituzione sulla sacra Liturgia, Sacrosanctum Concilium,n. 30; Cf. Sacra Congregazione dei Riti, Istruzione Musicam sacram, 5 marzo 1967, n. 17: AAS 59 (1967) 305). La sua natura dipende dal momento in cui ha luogo nelle singole celebrazioni. Così, durante l’atto penitenziale e dopo l’invito alla preghiera, il silenzio aiuta il raccoglimento; dopo la lettura o l’omelia, è un richiamo a meditare brevemente ciò che si è ascoltato; dopo la Comunione, favorisce la preghiera interiore di lode e di supplica.
Anche prima della stessa celebrazione è bene osservare il silenzio in chiesa, in sagrestia e nel luogo dove si assumono i paramenti e nei locali annessi, perché tutti possano prepararsi devotamente e nei giusti modi alla sacra celebrazione.
- Liturgia della Parola:
- Dialogo tra Dio e il suo popolo (31 gennaio 2018)
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Continuiamo oggi le catechesi sulla Santa Messa. Dopo esserci soffermati sui riti d’introduzione, consideriamo ora la Liturgia della Parola, che è una parte costitutiva perché ci raduniamo proprio per ascoltare quello che Dio ha fatto e intende ancora fare per noi. È un’esperienza che avviene “in diretta” e non per sentito dire, perché «quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura, Dio stesso parla al suo popolo e Cristo, presente nella parola, annunzia il Vangelo» (Ordinamento Generale del Messale Romano, 29; cf. Cost. Sacrosanctum Concilium, 7; 33). E quante volte, mentre viene letta la Parola di Dio, si commenta: “Guarda quello…, guarda quella…, guarda il cappello che ha portato quella: è ridicolo…”. E si cominciano a fare dei commenti. Non è vero? Si devono fare dei commenti mentre si legge la Parola di Dio? [rispondono: “No!”]. No, perché se tu fai delle chiacchiere con la gente non ascolti la Parola di Dio. Quando si legge la Parola di Dio nella Bibbia – la prima Lettura, il Salmo responsoriale, la seconda e il Vangelo – dobbiamo ascoltare, aprire il cuore, perché è Dio stesso che ci parla e non pensare ad altre cose o parlare di altre cose. Capito?… Vi spiegherò che cosa succede in questa Liturgia della Parola.
Le pagine della Bibbia cessano di essere uno scritto per diventare parola viva, pronunciata da Dio. È Dio che, tramite la persona che legge, ci parla e interpella noi che ascoltiamo con fede. Lo Spirito «che ha parlato per mezzo dei profeti» (Credo) e ha ispirato gli autori sacri, fa sì che «la parola di Dio operi davvero nei cuori ciò che fa risuonare negli orecchi» (Lezionario, Introd., 9). Ma per ascoltare la Parola di Dio bisogna avere anche il cuore aperto per ricevere le parole nel cuore. Dio parla e noi gli porgiamo ascolto, per poi mettere in pratica quanto abbiamo ascoltato. È molto importante ascoltare. Alcune volte forse non capiamo bene perché ci sono alcune letture un po’ difficili. Ma Dio ci parla lo stesso in un altro modo. [Bisogna stare] in silenzio e ascoltare la Parola di Dio. Non dimenticatevi di questo. Alla Messa, quando incominciano le letture, ascoltiamo la Parola di Dio.
Abbiamo bisogno di ascoltarlo! È infatti una questione di vita, come ben ricorda l’incisiva espressione che «non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4, 4). La vita che ci dà la Parola di Dio. In questo senso, parliamo della Liturgia della Parola come della “mensa” che il Signore imbandisce per alimentare la nostra vita spirituale. È una mensa abbondante quella della liturgia, che attinge largamente ai tesori della Bibbia (cf. SC, 51), sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, perché in essi è annunciato dalla Chiesa l’unico e identico mistero di Cristo (cf. Lezionario, Introd., 5). Pensiamo alla ricchezza delle letture bibliche offerte dai tre cicli domenicali che, alla luce dei Vangeli Sinottici, ci accompagnano nel corso dell’anno liturgico: una grande ricchezza. Desidero qui ricordare anche l’importanza del Salmo responsoriale, la cui funzione è di favorire la meditazione di quanto ascoltato nella lettura che lo precede. È bene che il Salmo sia valorizzato con il canto, almeno nel ritornello (cf. OGMR, 61; Lezionario, Introd., 19-22).
La proclamazione liturgica delle medesime letture, con i canti desunti dalla Sacra Scrittura, esprime e favorisce la comunione ecclesiale, accompagnando il cammino di tutti e di ciascuno. Si capisce pertanto perché alcune scelte soggettive, come l’omissione di letture o la loro sostituzione con testi non biblici, siano proibite. Ho sentito che qualcuno, se c’è una notizia, legge il giornale, perché è la notizia del giorno. No! La Parola di Dio è la Parola di Dio! Il giornale lo possiamo leggere dopo. Ma lì si legge la Parola di Dio. È il Signore che ci parla. Sostituire quella Parola con altre cose impoverisce e compromette il dialogo tra Dio e il suo popolo in preghiera. Al contrario, [si richiede] la dignità dell’ambone e l’uso del Lezionario, la disponibilità di buoni lettori e salmisti. Ma bisogna cercare dei buoni lettori!, quelli che sappiano leggere, non quelli che leggono [storpiando le parole] e non si capisce nulla. È così. Buoni lettori. Si devono preparare e fare la prova prima della Messa per leggere bene. E questo crea un clima di silenzio ricettivo («La Liturgia della Parola deve essere celebrata in modo da favorire la meditazione; quindi si deve assolutamente evitare ogni forma di fretta che impedisca il raccoglimento. In essa sono opportuni anche brevi momenti di silenzio, adatti all’assemblea radunata, per mezzo dei quali, con l’aiuto dello Spirito Santo, la parola di Dio venga accolta nel cuore e si prepari la risposta con la preghiera» (OGMR, 56)).
Sappiamo che la parola del Signore è un aiuto indispensabile per non smarrirci, come ben riconosce il Salmista che, rivolto al Signore, confessa: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Sal 119, 105). Come potremmo affrontare il nostro pellegrinaggio terreno, con le sue fatiche e le sue prove, senza essere regolarmente nutriti e illuminati dalla Parola di Dio che risuona nella liturgia?
Certo non basta udire con gli orecchi, senza accogliere nel cuore il seme della divina Parola, permettendole di portare frutto. Ricordiamoci della parabola del seminatore e dei diversi risultati a seconda dei diversi tipi di terreno (cf. Mc 4, 14-20). L’azione dello Spirito, che rende efficace la risposta, ha bisogno di cuori che si lascino lavorare e coltivare, in modo che quanto ascoltato a Messa passi nella vita quotidiana, secondo l’ammonimento dell’apostolo Giacomo: «Siate di quelli che mettono in pratica la Parola e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi» (Gc 1, 22). La Parola di Dio fa un cammino dentro di noi. La ascoltiamo con le orecchie e passa al cuore; non rimane nelle orecchie, deve andare al cuore; e dal cuore passa alle mani, alle opere buone. Questo è il percorso che fa la Parola di Dio: dalle orecchie al cuore e alle mani. Impariamo queste cose. Grazie!
- Liturgia della Parola:
- Vangelo e omelia (7 febbraio 2018)
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Continuiamo con le catechesi sulla Santa Messa. Eravamo arrivati alle Letture.
Il dialogo tra Dio e il suo popolo, sviluppato nella Liturgia della Parola della Messa, raggiunge il culmine nella proclamazione del Vangelo. Lo precede il canto dell’Alleluia – oppure, in Quaresima, un’altra acclamazione – con cui «l’assemblea dei fedeli accoglie e saluta il Signore che sta per parlare nel Vangelo»[1]. Come i misteri di Cristo illuminano l’intera rivelazione biblica, così, nella Liturgia della Parola, il Vangelo costituisce la luce per comprendere il senso dei testi biblici che lo precedono, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento. In effetti, «di tutta la Scrittura, come di tutta la celebrazione liturgica, Cristo è il centro e la pienezza»[2]. Sempre al centro c’è Gesù Cristo, sempre.
Perciò la stessa liturgia distingue il Vangelo dalle altre letture e lo circonda di particolare onore e venerazione[3]. Infatti, la sua lettura è riservata al ministro ordinato, che termina baciando il libro; ci si pone in ascolto in piedi e si traccia un segno di croce in fronte, sulla bocca e sul petto; i ceri e l’incenso onorano Cristo che, mediante la lettura evangelica, fa risuonare la sua efficace parola. Da questi segni l’assemblea riconosce la presenza di Cristo che le rivolge la “buona notizia” che converte e trasforma. È un discorso diretto quello che avviene, come attestano le acclamazioni con cui si risponde alla proclamazione: «Gloria a te, o Signore» e «Lode a te, o Cristo». Noi ci alziamo per ascoltare il Vangelo: è Cristo che ci parla, lì. E per questo noi stiamo attenti, perché è un colloquio diretto. È il Signore che ci parla.
Dunque, nella Messa non leggiamo il Vangelo per sapere come sono andate le cose, ma ascoltiamo il Vangelo per prendere coscienza che ciò che Gesù ha fatto e detto una volta; e quella Parola è viva, la Parola di Gesù che è nel Vangelo è viva e arriva al mio cuore. Per questo ascoltare il Vangelo è tanto importante, col cuore aperto, perché è Parola viva. Scrive sant’Agostino che «la bocca di Cristo è il Vangelo. Lui regna in cielo, ma non cessa di parlare sulla terra»[4]. Se è vero che nella liturgia «Cristo annunzia ancora il Vangelo»[5], ne consegue che, partecipando alla Messa, dobbiamo dargli una risposta. Noi ascoltiamo il Vangelo e dobbiamo dare una risposta nella nostra vita.
Per far giungere il suo messaggio, Cristo si serve anche della parola del sacerdote che, dopo il Vangelo, tiene l’omelia[6]. Raccomandata vivamente dal Concilio Vaticano II come parte della stessa liturgia[7], l’omelia non è un discorso di circostanza – neppure una catechesi come questa che sto facendo adesso -, né una conferenza neppure una lezione, l’omelia è un’altra cosa. Cosa è l’omelia? È «un riprendere quel dialogo che è già aperto tra il Signore e il suo popolo»[8], affinché trovi compimento nella vita. L’esegesi autentica del Vangelo è la nostra vita santa! La parola del Signore termina la sua corsa facendosi carne in noi, traducendosi in opere, come è avvenuto in Maria e nei Santi. Ricordate quello che ho detto l’ultima volta, la Parola del Signore entra dalle orecchie, arriva al cuore e va alle mani, alle opere buone. E anche l’omelia segue la Parola del Signore e fa anche questo percorso per aiutarci affinché la Parola del Signore arrivi alle mani, passando per il cuore.
Ho già trattato l’argomento dell’omelia nell’Esortazione Evangelii gaudium, dove ricordavo che il contesto liturgico «esige che la predicazione orienti l’assemblea, e anche il predicatore, verso una comunione con Cristo nell’Eucaristia che trasformi la vita»[9].
Chi tiene l’omelia deve compiere bene il suo ministero – colui che predica, il sacerdote o il diacono o il vescovo -, offrendo un reale servizio a tutti coloro che partecipano alla Messa, ma anche quanti l’ascoltano devono fare la loro parte. Anzitutto prestando debita attenzione, assumendo cioè le giuste disposizioni interiori, senza pretese soggettive, sapendo che ogni predicatore ha pregi e limiti. Se a volte c’è motivo di annoiarsi per l’omelia lunga o non centrata o incomprensibile, altre volte è invece il pregiudizio a fare da ostacolo.
E chi fa l’omelia deve essere conscio che non sta facendo una cosa propria, sta predicando, dando voce a Gesù, sta predicando la Parola di Gesù. E l’omelia deve essere ben preparata, deve essere breve, breve! Mi diceva un sacerdote che una volta era andato in un’altra città dove abitavano i genitori e il papà gli aveva detto: “Tu sai, sono contento, perché con i miei amici abbiamo trovato una chiesa dove si fa la Messa senza omelia!”. E quante volte noi vediamo che nell’omelia alcuni si addormentano, altri chiacchierano o escono fuori a fumare una sigaretta… Per questo, per favore, che sia breve, l’omelia, ma che sia ben preparata. E come si prepara un’omelia, cari sacerdoti, diaconi, vescovi? Come si prepara? Con la preghiera, con lo studio della Parola di Dio e facendo una sintesi chiara e breve, non deve andare oltre i 10 minuti, per favore. Concludendo possiamo dire che nella Liturgia della Parola, attraverso il Vangelo e l’omelia, Dio dialoga con il suo popolo, il quale lo ascolta con attenzione e venerazione e, allo stesso tempo, lo riconosce presente e operante. Se, dunque, ci mettiamo in ascolto della “buona notizia”, da essa saremo convertiti e trasformati, pertanto capaci di cambiare noi stessi e il mondo. Perché? Perché la Buona Notizia, la Parola di Dio entra dalle orecchie, va al cuore e arriva alle mani per fare delle opere buone.
- Liturgia della Parola:
III. Credo e Preghiera universale (14 febbraio 2018)
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Buongiorno anche se la giornata è un po’ bruttina. Ma se l’anima è in gioia sempre è un buon giorno. Così, buongiorno! Oggi l’udienza si farà in due parti: un piccolo gruppo di ammalati è in aula, per il tempo e noi siamo qui. Ma noi vediamo loro e loro vedono noi nel maxischermo. Li salutiamo con un applauso.
Continuiamo con la Catechesi sulla Messa. L’ascolto delle Letture bibliche, prolungato nell’omelia, risponde a che cosa? Risponde a un diritto: il diritto spirituale del popolo di Dio a ricevere con abbondanza il tesoro della Parola di Dio (cf. Introduzione al Lezionario, 45). Ognuno di noi quando va a Messa ha il diritto di ricevere abbondantemente la Parola di Dio ben letta, ben detta e poi, ben spiegata nell’omelia. È un diritto! E quando la Parola di Dio non è ben letta, non è predicata con fervore dal diacono, dal sacerdote o dal vescovo si manca a un diritto dei fedeli. Noi abbiamo il diritto di ascoltare la Parola di Dio. Il Signore parla per tutti, Pastori e fedeli. Egli bussa al cuore di quanti partecipano alla Messa, ognuno nella sua condizione di vita, età, situazione. Il Signore consola, chiama, suscita germogli di vita nuova e riconciliata. E questo per mezzo della sua Parola. La sua Parola bussa al cuore e cambia i cuori!
Perciò, dopo l’omelia, un tempo di silenzio permette di sedimentare nell’animo il seme ricevuto, affinché nascano propositi di adesione a ciò che lo Spirito ha suggerito a ciascuno. Il silenzio dopo l’omelia. Un bel silenzio si deve fare lì e ognuno deve pensare a quello che ha ascoltato.
Dopo questo silenzio, come continua la Messa? La personale risposta di fede si inserisce nella professione di fede della Chiesa, espressa nel “Credo”. Tutti noi recitiamo il “Credo” nella Messa. Recitato da tutta l’assemblea, il Simbolo manifesta la comune risposta a quanto insieme si è ascoltato dalla Parola di Dio (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, 185-197). C’è un nesso vitale tra ascolto e fede. Sono uniti. Questa – la fede -, infatti, non nasce da fantasia di menti umane ma, come ricorda san Paolo, «viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo» (Rm 10, 17). La fede si alimenta, dunque, con l’ascolto e conduce al Sacramento. Così, la recita del “Credo” fa sì che l’assemblea liturgica «torni a meditare e professi i grandi misteri della fede, prima della loro celebrazione nell’Eucaristia» (Ordinamento Generale del Messale Romano, 67).
Il Simbolo di fede vincola l’Eucaristia al Battesimo, ricevuto «nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo», e ci ricorda che i Sacramenti sono comprensibili alla luce della fede della Chiesa.
La risposta alla Parola di Dio accolta con fede si esprime poi nella supplica comune, denominata Preghiera universale, perché abbraccia le necessità della Chiesa e del mondo (cf. OGMR, 69-71; Introduzione al Lezionario, 30-31). Viene anche detta Preghiera dei fedeli.
I Padri del Vaticano II hanno voluto ripristinare questa preghiera dopo il Vangelo e l’omelia, specialmente nella domenica e nelle feste, affinché «con la partecipazione del popolo, si facciano preghiere per la santa Chiesa, per coloro che ci governano, per coloro che si trovano in varie necessità, per tutti gli uomini e per la salvezza di tutto il mondo» (Cost. Sacrosanctum Concilium, 53; cf. 1Tm 2, 1-2). Pertanto, sotto la guida del sacerdote che introduce e conclude, «il popolo, esercitando il proprio sacerdozio battesimale, offre a Dio preghiere per la salvezza di tutti» (OGMR, 69). E dopo le singole intenzioni, proposte dal diacono o da un lettore, l’assemblea unisce la sua voce invocando: «Ascoltaci, o Signore».
Ricordiamo, infatti, quanto ci ha detto il Signore Gesù: «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto» (Gv 15, 7). “Ma noi non crediamo questo, perché abbiamo poca fede”. Ma se noi avessimo una fede – dice Gesù – come il grano di senape, avremmo ricevuto tutto. “Chiedete quello che volete e vi sarà fatto”. E in questo momento della preghiera universale dopo il Credo, è il momento di chiedere al Signore le cose più forti nella Messa, le cose di cui noi abbiamo bisogno, quello che vogliamo. “Vi sarà fatto”; in uno o nell’altro modo ma “Vi sarà fatto”. “Tutto è possibile a colui che crede”, ha detto il Signore. Che cosa ha risposto quell’uomo al quale il Signore si è rivolto per dire questa parola – tutto è possibile a quello che crede -? Ha detto: “Credo Signore. Aiuta la mia poca fede”. Anche noi possiamo dire: “Signore, io credo. Ma aiuta la mia poca fede”. E la preghiera dobbiamo farla con questo spirito di fede: “Credo Signore, aiuta la mia poca fede”. Le pretese di logiche mondane, invece, non decollano verso il Cielo, così come restano inascoltate le richieste autoreferenziali (cf. Gc 4, 2-3). Le intenzioni per cui si invita il popolo fedele a pregare devono dar voce ai bisogni concreti della comunità ecclesiale e del mondo, evitando di ricorrere a formule convenzionali e miopi. La preghiera “universale”, che conclude la liturgia della Parola, ci esorta a fare nostro lo sguardo di Dio, che si prende cura di tutti i suoi figli.
- Liturgia eucaristica:
- Presentazione dei doni (28 febbraio 2018)
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Continuiamo con la catechesi sulla Santa Messa. Alla Liturgia della Parola – su cui mi sono soffermato nelle scorse catechesi – segue l’altra parte costitutiva della Messa, che è la Liturgia eucaristica. In essa, attraverso i santi segni, la Chiesa rende continuamente presente il Sacrificio della nuova alleanza sigillata da Gesù sull’altare della Croce (cf. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Sacrosanctum Concilium, 47). È stato il primo altare cristiano, quello della Croce, e quando noi ci avviciniamo all’altare per celebrare la Messa, la nostra memoria va all’altare della Croce, dove è stato fatto il primo sacrificio. Il sacerdote, che nella Messa rappresenta Cristo, compie ciò che il Signore stesso fece e affidò ai discepoli nell’Ultima Cena: prese il pane e il calice, rese grazie, li diede ai discepoli, dicendo: «Prendete, mangiate … bevete: questo è il mio corpo … questo è il calice del mio sangue. Fate questo in memoria di me».
Obbediente al comando di Gesù, la Chiesa ha disposto la Liturgia eucaristica in momenti che corrispondono alle parole e ai gesti compiuti da Lui la vigilia della sua Passione. Così, nella preparazione dei doni sono portati all’altare il pane e il vino, cioè gli elementi che Cristo prese nelle sue mani. Nella Preghiera eucaristica rendiamo grazie a Dio per l’opera della redenzione e le offerte diventano il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo. Seguono la frazione del Pane e la Comunione, mediante la quale riviviamo l’esperienza degli Apostoli che ricevettero i doni eucaristici dalle mani di Cristo stesso (cf. Ordinamento Generale del Messale Romano, 72).
Al primo gesto di Gesù: «prese il pane e il calice del vino», corrisponde quindi la preparazione dei doni. È la prima parte della Liturgia eucaristica. È bene che siano i fedeli a presentare al sacerdote il pane e il vino, perché essi significano l’offerta spirituale della Chiesa lì raccolta per l’Eucaristia. È bello che siano proprio i fedeli a portare all’altare il pane e il vino. Sebbene oggi «i fedeli non portino più, come un tempo, il loro proprio pane e vino destinati alla Liturgia, tuttavia il rito della presentazione di questi doni conserva il suo valore e significato spirituale» (ibid., 73). E al riguardo è significativo che, nell’ordinare un nuovo presbitero, il Vescovo, quando gli consegna il pane e il vino, dice: «Ricevi le offerte del popolo santo per il sacrificio eucaristico» (Pontificale Romano – Ordinazione dei vescovi, dei presbiteri e dei diaconi). Il popolo di Dio che porta l’offerta, il pane e il vino, la grande offerta per la Messa! Dunque, nei segni del pane e del vino il popolo fedele pone la propria offerta nelle mani del sacerdote, il quale la depone sull’altare o mensa del Signore, «che è il centro di tutta la Liturgia eucaristica» (OGMR, 73). Cioè, il centro della Messa è l’altare, e l’altare è Cristo; sempre bisogna guardare l’altare che è il centro della Messa. Nel «frutto della terra e del lavoro dell’uomo», viene pertanto offerto l’impegno dei fedeli a fare di se stessi, obbedienti alla divina Parola, un «sacrificio gradito a Dio Padre onnipotente», «per il bene di tutta la sua santa Chiesa». Così «la vita dei fedeli, la loro sofferenza, la loro preghiera, il loro lavoro, sono uniti a quelli di Cristo e alla sua offerta totale, e in questo modo acquistano un valore nuovo» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1368).
Certo, è poca cosa la nostra offerta, ma Cristo ha bisogno di questo poco. Ci chiede poco, il Signore, e ci dà tanto. Ci chiede poco. Ci chiede, nella vita ordinaria, buona volontà; ci chiede cuore aperto; ci chiede voglia di essere migliori per accogliere Lui che offre se stesso a noi nell’Eucaristia; ci chiede queste offerte simboliche che poi diventeranno il Suo corpo e il Suo sangue. Un’immagine di questo movimento oblativo di preghiera è rappresentata dall’incenso che, consumato nel fuoco, libera un fumo profumato che sale verso l’alto: incensare le offerte, come si fa nei giorni di festa, incensare la croce, l’altare, il sacerdote e il popolo sacerdotale manifesta visibilmente il vincolo offertoriale che unisce tutte queste realtà al sacrificio di Cristo (cf. OGMR, 75). E non dimenticare: c’è l’altare che è Cristo, ma sempre in riferimento al primo altare che è la Croce, e sull’altare che è Cristo portiamo il poco dei nostri doni, il pane e il vino che poi diventeranno il tanto: Gesù stesso che si dà a noi.
E tutto questo è quanto esprime anche l’orazione sulle offerte. In essa il sacerdote chiede a Dio di accettare i doni che la Chiesa gli offre, invocando il frutto del mirabile scambio tra la nostra povertà e la sua ricchezza. Nel pane e nel vino gli presentiamo l’offerta della nostra vita, affinché sia trasformata dallo Spirito Santo nel sacrificio di Cristo e diventi con Lui una sola offerta spirituale gradita al Padre. Mentre si conclude così la preparazione dei doni, ci si dispone alla Preghiera eucaristica (cf. ibid., 77).
La spiritualità del dono di sé, che questo momento della Messa ci insegna, possa illuminare le nostre giornate, le relazioni con gli altri, le cose che facciamo, le sofferenze che incontriamo, aiutandoci a costruire la città terrena alla luce del Vangelo.
- Liturgia eucaristica:
- Preghiera eucaristica (7 marzo 2018)
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Continuiamo le catechesi sulla Santa Messa e con questa catechesi ci soffermiamo sulla Preghiera eucaristica. Concluso il rito della presentazione del pane e del vino, ha inizio la Preghiera eucaristica, che qualifica la celebrazione della Messa e ne costituisce il momento centrale, ordinato alla santa Comunione. Corrisponde a quanto Gesù stesso fece, a tavola con gli Apostoli nell’Ultima Cena, allorché «rese grazie» sul pane e poi sul calice del vino (cf. Mt 26, 27; Mc 14, 23; Lc 22, 17.19; 1Cor 11, 24): il suo ringraziamento rivive in ogni nostra Eucaristia, associandoci al suo sacrificio di salvezza.
E in questa solenne Preghiera – la Preghiera eucaristica è solenne – la Chiesa esprime ciò che essa compie quando celebra l’Eucaristia e il motivo per cui la celebra, ossia fare comunione con Cristo realmente presente nel pane e nel vino consacrati. Dopo aver invitato il popolo a innalzare i cuori al Signore e a rendergli grazie, il sacerdote pronuncia la Preghiera ad alta voce, a nome di tutti i presenti, rivolgendosi al Padre per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito Santo. «Il significato di questa Preghiera è che tutta l’assemblea dei fedeli si unisca con Cristo nel magnificare le grandi opere di Dio e nell’offrire il sacrificio» (Ordinamento Generale del Messale Romano, 78). E per unirsi deve capire. Per questo, la Chiesa ha voluto celebrare la Messa nella lingua che la gente capisce, affinché ciascuno possa unirsi a questa lode e a questa grande preghiera con il sacerdote. In verità, «il sacrificio di Cristo e il sacrificio dell’Eucaristia sono un unico sacrificio» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1367).
Nel Messale vi sono varie formule di Preghiera eucaristica, tutte costituite da elementi caratteristici, che vorrei ora ricordare (cf. OGMR, 79; CCC, 1352-1354). Sono bellissime tutte. Anzitutto vi è il Prefazio, che è un’azione di grazie per i doni di Dio, in particolare per l’invio del suo Figlio come Salvatore. Il Prefazio si conclude con l’acclamazione del «Santo», normalmente cantata. È bello cantare il “Santo”: “Santo, Santo, Santo il Signore”. È bello cantarlo. Tutta l’assemblea unisce la propria voce a quella degli Angeli e dei Santi per lodare e glorificare Dio.
Vi è poi l’invocazione dello Spirito affinché con la sua potenza consacri il pane e il vino. Invochiamo lo Spirito perché venga e nel pane e nel vino ci sia Gesù. L’azione dello Spirito Santo e l’efficacia delle stesse parole di Cristo proferite dal sacerdote, rendono realmente presente, sotto le specie del pane e del vino, il suo Corpo e il suo Sangue, il suo sacrificio offerto sulla croce una volta per tutte (cf. CCC, 1375). Gesù in questo è stato chiarissimo. Abbiamo sentito come San Paolo all’inizio racconta le parole di Gesù: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”. “Questo è il mio sangue, questo è il mio corpo”. È Gesù stesso che ha detto questo. Noi non dobbiamo fare pensieri strani: “Ma, come mai una cosa che …”. È il corpo di Gesù; è finita lì! La fede: ci viene in aiuto la fede; con un atto di fede crediamo che è il corpo e il sangue di Gesù. È il «mistero della fede», come noi diciamo dopo la consacrazione. Il sacerdote dice: “Mistero della fede” e noi rispondiamo con un’acclamazione. Celebrando il memoriale della morte e risurrezione del Signore, nell’attesa del suo ritorno glorioso, la Chiesa offre al Padre il sacrificio che riconcilia cielo e terra: offre il sacrificio pasquale di Cristo offrendosi con Lui e chiedendo, in virtù dello Spirito Santo, di diventare «in Cristo un solo corpo e un solo spirito» (Pregh. euc. III; cf. Sacrosanctum Concilium, 48; OGMR, 79f). La Chiesa vuole unirci a Cristo e diventare con il Signore un solo corpo e un solo spirito. È questa la grazia e il frutto della Comunione sacramentale: ci nutriamo del Corpo di Cristo per diventare, noi che ne mangiamo, il suo Corpo vivente oggi nel mondo.
Mistero di comunione è questo, la Chiesa si unisce all’offerta di Cristo e alla sua intercessione e in questa luce, «nelle catacombe la Chiesa è spesso raffigurata come una donna in preghiera con le braccia spalancate, in atteggiamento di orante come Cristo ha steso le braccia sulla croce, così per mezzo di Lui, con Lui e in Lui, essa si offre e intercede per tutti gli uomini» (CCC, 1368). La Chiesa che ora, che prega. È bello pensare che la Chiesa ora, prega. C’è un passo nel Libro degli Atti degli Apostoli; quando Pietro era in carcere, la comunità cristiana dice: “Orava incessantemente per Lui”. La Chiesa che ora, la Chiesa orante. E quando noi andiamo a Messa è per fare questo: fare Chiesa orante.
La Preghiera eucaristica chiede a Dio di raccogliere tutti i suoi figli nella perfezione dell’amore, in unione con il Papa e il Vescovo, menzionati per nome, segno che celebriamo in comunione con la Chiesa universale e con la Chiesa particolare. La supplica, come l’offerta, è presentata a Dio per tutti i membri della Chiesa, vivi e defunti, in attesa della beata speranza di condividere l’eredità eterna del cielo, con la Vergine Maria (cf. CCC, 1369-1371). Nessuno e niente è dimenticato nella Preghiera eucaristica, ma ogni cosa è ricondotta a Dio, come ricorda la dossologia che la conclude. Nessuno è dimenticato. E se io ho qualche persona, parenti, amici, che sono nel bisogno o sono passati da questo mondo all’altro, posso nominarli in quel momento, interiormente e in silenzio o fare scrivere che il nome sia detto. “Padre, quanto devo pagare perché il mio nome venga detto lì?”- “Niente”. Capito questo? Niente! La Messa non si paga. La Messa è il sacrificio di Cristo, che è gratuito. La redenzione è gratuita. Se tu vuoi fare un’offerta falla, ma non si paga. Questo è importante capirlo.
Questa formula codificata di preghiera, forse possiamo sentirla un po’ lontana – è vero, è una formula antica – ma, se ne comprendiamo bene il significato, allora sicuramente parteciperemo meglio. Essa infatti esprime tutto ciò che compiamo nella celebrazione eucaristica; e inoltre ci insegna a coltivare tre atteggiamenti che non dovrebbero mai mancare nei discepoli di Gesù. I tre atteggiamenti: primo, imparare a “rendere grazie, sempre e in ogni luogo”, e non solo in certe occasioni, quando tutto va bene; secondo, fare della nostra vita un dono d’amore, libero e gratuito; terzo, costruire la concreta comunione, nella Chiesa e con tutti. Dunque, questa Preghiera centrale della Messa ci educa, a poco a poco, a fare di tutta la nostra vita una “eucaristia”, cioè un’azione di grazie.
- Liturgia eucaristica.
III. “Padre nostro” e frazione del Pane (14 marzo 2018)
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Continuiamo con la Catechesi sulla Santa Messa. Nell’ultima Cena, dopo che Gesù prese il pane e il calice del vino, ed ebbe reso grazie a Dio, sappiamo che «spezzò il pane». A quest’azione corrisponde, nella Liturgia eucaristica della Messa, la frazione del Pane, preceduta dalla preghiera che il Signore ci ha insegnato, cioè del “Padre Nostro”.
E così cominciano i riti di Comunione, prolungando la lode e la supplica della Preghiera eucaristica con la recita comunitaria del “Padre nostro”. Questa non è una delle tante preghiere cristiane, ma è la preghiera dei figli di Dio: è la grande preghiera che ci ha insegnato Gesù. Infatti, consegnatoci nel giorno del nostro Battesimo, il “Padre nostro” fa risuonare in noi quei medesimi sentimenti che furono in Cristo Gesù. Quando noi preghiamo col “Padre Nostro”, preghiamo come pregava Gesù. È la preghiera che ha fatto Gesù, e l’ha insegnata a noi; quando i discepoli gli hanno detto: “Maestro, insegnaci a pregare come tu preghi”. E Gesù pregava così. È tanto bello pregare come Gesù! Formati al suo divino insegnamento, osiamo rivolgerci a Dio chiamandolo “Padre”, perché siamo rinati come suoi figli attraverso l’acqua e lo Spirito Santo (cf. Ef 1, 5). Nessuno, in verità, potrebbe chiamarlo familiarmente “Abbà” – “Padre” – senza essere stato generato da Dio, senza l’ispirazione dello Spirito, come insegna san Paolo (cf. Rm 8, 15). Dobbiamo pensare: nessuno può chiamarlo “Padre” senza l’ispirazione dello Spirito. Quante volte c’è gente che dice “Padre Nostro”, ma non sa cosa dice. Perché sì, è il Padre, ma tu senti che quando dici “Padre” Lui è il Padre, il Padre tuo, il Padre dell’umanità, il Padre di Gesù Cristo? Tu hai un rapporto con questo Padre? Quando noi preghiamo il “Padre Nostro”, ci colleghiamo col Padre che ci ama, ma è lo Spirito a darci questo collegamento, questo sentimento di essere figli di Dio.
Quale preghiera migliore di quella insegnata da Gesù può disporci alla Comunione sacramentale con Lui? Oltre che nella Messa, il “Padre nostro” viene pregato, alla mattina e alla sera, nelle Lodi e nei Vespri; in tal modo, l’atteggiamento filiale verso Dio e di fraternità con il prossimo contribuiscono a dare forma cristiana alle nostre giornate.
Nella Preghiera del Signore – nel “Padre nostro” – chiediamo il «pane quotidiano», nel quale scorgiamo un particolare riferimento al Pane eucaristico, di cui abbiamo bisogno per vivere da figli di Dio. Imploriamo anche «la remissione dei nostri debiti», e per essere degni di ricevere il perdono di Dio ci impegniamo a perdonare chi ci ha offeso. E questo non è facile. Perdonare le persone che ci hanno offeso non è facile; è una grazia che dobbiamo chiedere: “Signore, insegnami a perdonare come tu hai perdonato me”. È una grazia. Con le nostre forze noi non possiamo: è una grazia dello Spirito Santo perdonare. Così, mentre ci apre il cuore a Dio, il “Padre nostro” ci dispone anche all’amore fraterno. Infine, chiediamo ancora a Dio di «liberarci dal male» che ci separa da Lui e ci divide dai nostri fratelli. Comprendiamo bene che queste sono richieste molto adatte a prepararci alla santa Comunione (cf. Ordinamento Generale del Messale Romano, 81).
In effetti, quanto chiediamo nel “Padre nostro” viene prolungato dalla preghiera del sacerdote che, a nome di tutti, supplica: «Liberaci, o Signore, da tutti i mali, concedi la pace ai nostri giorni». E poi riceve una sorta di sigillo nel rito della pace: per prima cosa si invoca da Cristo che il dono della sua pace (cfr Gv 14,27) – così diversa dalla pace del mondo – faccia crescere la Chiesa nell’unità e nella pace, secondo la sua volontà; quindi, con il gesto concreto scambiato tra noi, esprimiamo «la comunione ecclesiale e l’amore vicendevole, prima di comunicare al Sacramento» (OGMR, 82). Nel Rito romano lo scambio del segno di pace, posto fin dall’antichità prima della Comunione, è ordinato alla Comunione eucaristica. Secondo l’ammonimento di san Paolo, non è possibile comunicare all’unico Pane che ci rende un solo Corpo in Cristo, senza riconoscersi pacificati dall’amore fraterno (cf. 1Cor 10, 16-17; 11, 29). La pace di Cristo non può radicarsi in un cuore incapace di vivere la fraternità e di ricomporla dopo averla ferita. La pace la dà il Signore: Egli ci dà la grazia di perdonare coloro che ci hanno offeso.
Il gesto della pace è seguito dalla frazione del Pane, che fin dal tempo apostolico ha dato il nome all’intera celebrazione dell’Eucaristia (cf. OGMR, 83; Catechismo della Chiesa Cattolica, 1329). Compiuto da Gesù durante l’Ultima Cena, lo spezzare il Pane è il gesto rivelatore che ha permesso ai discepoli di riconoscerlo dopo la sua risurrezione. Ricordiamo i discepoli di Emmaus, i quali, parlando dell’incontro con il Risorto, raccontano «come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane» (cf. Lc 24, 30-31.35).
La frazione del Pane eucaristico è accompagnata dall’invocazione dell’«Agnello di Dio», figura con cui Giovanni Battista ha indicato in Gesù «colui che toglie il peccato del mondo» (Gv 1, 29). L’immagine biblica dell’agnello parla della redenzione (cf. Es 12, 1-14; Is 53, 7; 1Pt 1, 19; Ap 7, 14). Nel Pane eucaristico, spezzato per la vita del mondo, l’assemblea orante riconosce il vero Agnello di Dio, cioè il Cristo Redentore, e lo supplica: «Abbi pietà di noi … dona a noi la pace».
«Abbi pietà di noi», «dona a noi la pace» sono invocazioni che, dalla preghiera del “Padre nostro” alla frazione del Pane, ci aiutano a disporre l’animo a partecipare al convito eucaristico, fonte di comunione con Dio e con i fratelli.
Non dimentichiamo la grande preghiera: quella che ha insegnato Gesù, e che è la preghiera con la quale Lui pregava il Padre. E questa preghiera ci prepara alla Comunione.
- Liturgia eucaristica.
- La Comunione (21 marzo 2018)
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
E oggi è il primo giorno di primavera: buona primavera! Ma cosa succede in primavera? Fioriscono le piante, fioriscono gli alberi. Io vi farò qualche domanda. Un albero o una pianta ammalati, fioriscono bene, se sono malati?. No! Un albero, una pianta che non sono annaffiati dalla pioggia o artificialmente, possono fiorire bene? No. E un albero e una pianta che ha tolto le radici o che non ha radici, può fiorire? No. Ma, senza radici si può fiorire? No! E questo è un messaggio: la vita cristiana dev’essere una vita che deve fiorire nelle opere di carità, nel fare il bene. Ma se tu non hai delle radici, non potrai fiorire, e la radice chi è? Gesù! Se tu non sei con Gesù, lì, in radice, non fiorirai. Se tu non annaffi la tua vita con la preghiera e i sacramenti, voi avrete fiori cristiani? No! Perché la preghiera e i sacramenti annaffiano le radici e la nostra vita fiorisce. Vi auguro che questa primavera sia per voi una primavera fiorita, come sarà la Pasqua fiorita. Fiorita di buone opere, di virtù, di fare il bene agli altri Ricordate questo, questo è un versetto molto bello della mia Patria: “Quello che l’albero ha di fiorito, viene da quello che ha di sotterrato”. Mai tagliare le radici con Gesù.
E continuiamo adesso con la catechesi sulla Santa Messa. La celebrazione della Messa, di cui stiamo percorrendo i vari momenti, è ordinata alla Comunione, cioè a unirci con Gesù. La comunione sacramentale: non la comunione spirituale, che tu puoi farla a casa tua dicendo: “Gesù, io vorrei riceverti spiritualmente”. No, la comunione sacramentale, con il corpo e il sangue di Cristo. Celebriamo l’Eucaristia per nutrirci di Cristo, che ci dona se stesso sia nella Parola sia nel Sacramento dell’altare, per conformarci a Lui. Lo dice il Signore stesso: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui» (Gv 6, 56). Infatti, il gesto di Gesù che diede ai discepoli il suo Corpo e Sangue nell’ultima Cena, continua ancora oggi attraverso il ministero del sacerdote e del diacono, ministri ordinari della distribuzione ai fratelli del Pane della vita e del Calice della salvezza.
Nella Messa, dopo aver spezzato il Pane consacrato, cioè il corpo di Gesù, il sacerdote lo mostra ai fedeli, invitandoli a partecipare al convito eucaristico. Conosciamo le parole che risuonano dal santo altare: «Beati gli invitati alla Cena del Signore: ecco l’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo». Ispirato a un passo dell’Apocalisse – «beati gli invitati al banchetto di nozze dell’Agnello» (Ap 19, 9): dice “nozze” perché Gesù è lo sposo della Chiesa – questo invito ci chiama a sperimentare l’intima unione con Cristo, fonte di gioia e di santità. È un invito che rallegra e insieme spinge a un esame di coscienza illuminato dalla fede. Se da una parte, infatti, vediamo la distanza che ci separa dalla santità di Cristo, dall’altra crediamo che il suo Sangue viene «sparso per la remissione dei peccati». Tutti noi siamo stati perdonati nel battesimo, e tutti noi siamo perdonati o saremo perdonati ogni volta che ci accostiamo al sacramento della penitenza. E non dimenticate: Gesù perdona sempre. Gesù non si stanca di perdonare. Siamo noi a stancarci di chiedere perdono. Proprio pensando al valore salvifico di questo Sangue, sant’Ambrogio esclama: «Io che pecco sempre, devo sempre disporre della medicina» (De sacramentis, 4, 28: PL 16, 446A). In questa fede, anche noi volgiamo lo sguardo all’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo e lo invochiamo: «O Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa: ma di’ soltanto una parola e io sarò salvato». Questo lo diciamo in ogni Messa.
Se siamo noi a muoverci in processione per fare la Comunione, noi andiamo verso l’altare in processione a fare la comunione, in realtà è Cristo che ci viene incontro per assimilarci a sé. C’è un incontro con Gesù! Nutrirsi dell’Eucaristia significa lasciarsi mutare in quanto riceviamo. Ci aiuta sant’Agostino a comprenderlo, quando racconta della luce ricevuta nel sentirsi dire da Cristo: «Io sono il cibo dei grandi. Cresci, e mi mangerai. E non sarai tu a trasformarmi in te, come il cibo della tua carne; ma tu verrai trasformato in me» (Confessioni VII, 10, 16: PL 32, 742). Ogni volta che noi facciamo la comunione, assomigliamo di più a Gesù, ci trasformiamo di più in Gesù. Come il pane e il vino sono convertiti nel Corpo e Sangue del Signore, così quanti li ricevono con fede sono trasformati in Eucaristia vivente. Al sacerdote che, distribuendo l’Eucaristia, ti dice: «Il Corpo di Cristo», tu rispondi: «Amen», ossia riconosci la grazia e l’impegno che comporta diventare Corpo di Cristo. Perché quando tu ricevi l’Eucaristia diventi corpo di Cristo. È bello, questo; è molto bello. Mentre ci unisce a Cristo, strappandoci dai nostri egoismi, la Comunione ci apre ed unisce a tutti coloro che sono una sola cosa in Lui. Ecco il prodigio della Comunione: diventiamo ciò che riceviamo!
La Chiesa desidera vivamente che anche i fedeli ricevano il Corpo del Signore con ostie consacrate nella stessa Messa; e il segno del banchetto eucaristico si esprime con maggior pienezza se la santa Comunione viene fatta sotto le due specie, pur sapendo che la dottrina cattolica insegna che sotto una sola specie si riceve il Cristo tutto intero (cf. Ordinamento Generale del Messale Romano, 85; 281-282). Secondo la prassi ecclesiale, il fedele si accosta normalmente all’Eucaristia in forma processionale, come abbiamo detto, e si comunica in piedi con devozione, oppure in ginocchio, come stabilito dalla Conferenza Episcopale, ricevendo il sacramento in bocca o, dove è permesso, sulla mano, come preferisce (cf. OGMR, 160-161). Dopo la Comunione, a custodire in cuore il dono ricevuto ci aiuta il silenzio, la preghiera silenziosa. Allungare un po’ quel momento di silenzio, parlando con Gesù nel cuore ci aiuta tanto, come pure cantare un salmo o un inno di lode (cfr OGMR, 88) che ci aiuti a essere con il Signore.
La Liturgia eucaristica è conclusa dall’orazione dopo la Comunione. In essa, a nome di tutti, il sacerdote si rivolge a Dio per ringraziarlo di averci resi suoi commensali e chiedere che quanto ricevuto trasformi la nostra vita. L’Eucaristia ci fa forti per dare frutti di buone opere per vivere come cristiani. È significativa l’orazione di oggi, in cui chiediamo al Signore che «la partecipazione al suo sacramento sia per noi medicina di salvezza, ci guarisca dal male e ci confermi nella sua amicizia» (Messale Romano, Mercoledì della V settimana di Quaresima). Accostiamoci all’Eucaristia: ricevere Gesù che ci trasforma in Lui, ci fa più forti. È tanto buono e tanto grande il Signore!
DOCUMENTI DEL MAGISTERO CITATI NELLA CATECHESI
Ordinamento Generale del Messale Romano, 85; 281-282
- Si desidera vivamente che i fedeli, come anche il sacerdote è tenuto a fare, ricevano il Corpo del Signore con ostie consacrate nella stessa Messa e, nei casi previsti, facciano la Comunione al calice (Cf. n. 284), perché anche per mezzo dei segni, la Comunione appaia meglio come partecipazione al sacrificio in atto (Cf. Sacra Congregazione dei riti, Istruzione Eucharisticum mysterium, 25 maggio 1967, nn. 31, 32: AAS 59 [1967] 558-559; Sacra Congregazione per la Disciplina dei Sacramenti, Istruzione Immensae caritatis, 29 gennaio 1973, n. 2: AAS 65 [1973] 267-268).
La Comunione sotto le due specie
- La santa Comunione esprime con maggior pienezza la sua forma di segno, se viene fatta sotto le due specie. Risulta infatti più evidente il segno del banchetto eucaristico, e si esprime più chiaramente la volontà divina di ratificare la nuova ed eterna alleanza nel Sangue del Signore, ed è più intuitivo il rapporto tra il banchetto eucaristico e il convito escatologico nel regno del Padre (Cf. Sacra Congregazione dei riti, Istruzione Eucharisticum mysterium, 25 maggio 1967, n. 32: AAS 59 (1967) 558).
- I pastori d’anime si facciano un dovere di ricordare, nel modo più adatto, ai fedeli che partecipano al rito o che vi assistono, la dottrina cattolica riguardo alla forma della Comunione, secondo il Concilio Ecumenico di Trento. In particolare ricordino ai fedeli quanto insegna la fede cattolica: che, cioè, anche sotto una sola specie si riceve il Cristo tutto intero e il Sacramento in tutta la sua verità; di conseguenza, per quanto riguarda i frutti della Comunione, coloro che ricevono una sola specie, non rimangono privi di nessuna grazia necessaria alla salvezza (Cf. Conc. Ecum. Tridentino, Sess. XXI, 16 luglio 1562, Decreto sulla Comunione eucaristica, capp. 1-3, Denz-Schönm. 1725-1729).
Inoltre insegnino che nell’amministrazione dei Sacramenti, salva la loro sostanza, la Chiesa ha il potere di determinare o cambiare ciò che essa ritiene più conveniente per la venerazione dovuta ai Sacramenti stessi e per l’utilità di coloro che li ricevono secondo la diversità delle circostanze, dei tempi e dei luoghi (Cf. Ibidem, cap. 2, Denz-Schönm. 1728). Nello stesso tempo però esortino i fedeli perché partecipino più intensamente al sacro rito, nella forma in cui è posto in maggior evidenza il segno del banchetto.
OGMR, 160-161
- Poi il sacerdote prende la patena o la pisside e si reca dai comunicandi, che normalmente si avvicinano processionalmente.
Non è permesso ai fedeli prendere da se stessi il pane consacrato o il sacro calice, tanto meno passarselo di mano in mano. I fedeli si comunicano in ginocchio o in piedi, come stabilito dalla Conferenza Episcopale. Quando però si comunicano stando in piedi, si raccomanda che, prima di ricevere il Sacramento, facciano la debita riverenza, da stabilire dalle stesse norme.
- Se la Comunione si fa sotto la sola specie del pane, il sacerdote, eleva alquanto l’ostia e la presenta a ciascuno dicendo: Il Corpo di Cristo. Il comunicando risponde: Amen, e riceve il sacramento in bocca o, nei luoghi in cui è stato permesso, sulla mano, come preferisce. Il comunicando appena ha ricevuto l’ostia sacra, la consuma totalmente. Se invece la Comunione si fa sotto le due specie si segue il rito descritto a suo luogo (Cf. nn. 284-287).
OGMR, 88
Terminata la distribuzione della Comunione, il sacerdote e i fedeli, secondo l’opportunità, pregano per un po’ di tempo in silenzio. Tutta l’assemblea può anche cantare un salmo, un altro cantico di lode o un inno.
- Riti di conclusione (4 aprile 2018)
Cari fratelli e sorelle, buongiorno e buona Pasqua!
Voi vedete che oggi ci sono dei fiori: i fiori dicono gioia, allegria. In certi posti la Pasqua è chiamata anche “Pasqua fiorita”, perché fiorisce il Cristo risorto: è il fiore nuovo; fiorisce la nostra giustificazione; fiorisce la santità della Chiesa. Per questo, tanti fiori: è la nostra gioia. Tutta la settimana noi festeggiamo la Pasqua, tutta la settimana. E per questo ci diamo, una volta in più, tutti noi, l’augurio di “Buona Pasqua”. Diciamo insieme: “Buona Pasqua”, tutti! [rispondono: “Buona Pasqua!”]. Vorrei anche che dessimo la Buona Pasqua – perché è stato Vescovo di Roma – all’amato Papa Benedetto, che ci segue per televisione. A Papa Benedetto, tutti diamo la Buona Pasqua: [dicono: “Buona Pasqua!”] E un applauso, forte.
Con questa catechesi concludiamo il ciclo dedicato alla Messa, che è proprio la commemorazione, ma non soltanto come memoria, si vive di nuovo la Passione e la Risurrezione di Gesù. L’ultima volta siamo arrivati fino alla Comunione e l’orazione dopo la Comunione; dopo questa orazione, la Messa si conclude con la benedizione impartita dal sacerdote e il congedo del popolo (cf. Ordinamento Generale del Messale Romano, 90). Come era iniziata con il segno della croce, nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, è ancora nel nome della Trinità che viene sigillata la Messa, cioè l’azione liturgica.
Tuttavia, sappiamo bene che mentre la Messa finisce, si apre l’impegno della testimonianza cristiana. I cristiani non vanno a Messa per fare un compito settimanale e poi si dimenticano, no. I cristiani vanno a Messa per partecipare alla Passione e Risurrezione del Signore e poi vivere di più come cristiani: si apre l’impegno della testimonianza cristiana. Usciamo dalla chiesa per «andare in pace» a portare la benedizione di Dio nelle attività quotidiane, nelle nostre case, negli ambienti di lavoro, tra le occupazioni della città terrena, “glorificando il Signore con la nostra vita”. Ma se noi usciamo dalla chiesa chiacchierando e dicendo: “guarda questo, guarda quello…”, con la lingua lunga, la Messa non è entrata nel mio cuore. Perché? Perché non sono capace di vivere la testimonianza cristiana. Ogni volta che esco dalla Messa, devo uscire meglio di come sono entrato, con più vita, con più forza, con più voglia di dare testimonianza cristiana. Attraverso l’Eucaristia il Signore Gesù entra in noi, nel nostro cuore e nella nostra carne, affinché possiamo «esprimere nella vita il sacramento ricevuto nella fede» (Messale Romano, Colletta del lunedì nell’Ottava di Pasqua).
Dalla celebrazione alla vita, dunque, consapevoli che la Messa trova compimento nelle scelte concrete di chi si fa coinvolgere in prima persona nei misteri di Cristo. Non dobbiamo dimenticare che celebriamo l’Eucaristia per imparare a diventare uomini e donne eucaristici. Cosa significa questo? Significa lasciare agire Cristo nelle nostre opere: che i suoi pensieri siano i nostri pensieri, i suoi sentimenti i nostri, le sue scelte le nostre scelte. E questo è santità: fare come ha fatto Cristo è santità cristiana. Lo esprime con precisione san Paolo, parlando della propria assimilazione a Gesù, e dice così: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2, 19-20). Questa è la testimonianza cristiana. L’esperienza di Paolo illumina anche noi: nella misura in cui mortifichiamo il nostro egoismo, cioè facciamo morire ciò che si oppone al Vangelo e all’amore di Gesù, si crea dentro di noi un maggiore spazio per la potenza del suo Spirito. I cristiani sono uomini e donne che si lasciano allargare l’anima con la forza dello Spirito Santo, dopo aver ricevuto il Corpo e il Sangue di Cristo. Lasciatevi allargare l’anima! Non queste anime così strette e chiuse, piccole, egoiste, no! Anime larghe, anime grandi, con grandi orizzonti… Lasciatevi allargare l’anima con la forza dello Spirito, dopo aver ricevuto il Corpo e il Sangue di Cristo.
Poiché la presenza reale di Cristo nel Pane consacrato non termina con la Messa (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, 1374), l’Eucaristia viene custodita nel tabernacolo per la Comunione ai malati e per l’adorazione silenziosa del Signore nel Santissimo Sacramento; il culto eucaristico fuori della Messa, sia in forma privata che comunitaria, ci aiuta infatti a rimanere in Cristo (cf. Ibidem, 1378-1380).
I frutti della Messa, pertanto, sono destinati a maturare nella vita di ogni giorno. Possiamo dire così, un po’ forzando l’immagine: la Messa è come il chicco, il chicco di grano che poi nella vita ordinaria cresce, cresce e matura nelle opere buone, negli atteggiamenti che ci fanno assomigliare a Gesù. I frutti della Messa, pertanto, sono destinati a maturare nella vita di ogni giorno. In verità, accrescendo la nostra unione a Cristo, l’Eucaristia aggiorna la grazia che lo Spirito ci ha donato nel Battesimo e nella Confermazione, affinché sia credibile la nostra testimonianza cristiana (cf. Ibid., 1391-1392).
Ancora, accendendo nei nostri cuori la carità divina, l’Eucaristia cosa fa? Ci separa dal peccato: «Quanto più partecipiamo alla vita di Cristo e progrediamo nella sua amicizia, tanto più ci è difficile separarci da Lui con il peccato mortale» (Ibid., 1395).
Il regolare accostarci al Convito eucaristico rinnova, fortifica e approfondisce il legame con la comunità cristiana a cui apparteniamo, secondo il principio che l’Eucaristia fa la Chiesa (cf. Ibid., 1396), ci unisce tutti.
Infine, partecipare all’Eucaristia impegna nei confronti degli altri, specialmente dei poveri, educandoci a passare dalla carne di Cristo alla carne dei fratelli, in cui egli attende di essere da noi riconosciuto, servito, onorato, amato (cf. Ibid., 1397).
Portando il tesoro dell’unione con Cristo in vasi di creta (cf. 2Cor 4, 7), abbiamo continuo bisogno di ritornare al santo altare, fino a quando, in paradiso, gusteremo pienamente la beatitudine del banchetto di nozze dell’Agnello (cf. Ap 19, 9).
Ringraziamo il Signore per il cammino di riscoperta della santa Messa che ci ha donato di compiere insieme, e lasciamoci attrarre con fede rinnovata a questo incontro reale con Gesù, morto e risorto per noi, nostro contemporaneo. E che la nostra vita sia sempre “fiorita” così, come la Pasqua, con i fiori della speranza, della fede, delle opere buone. Che noi troviamo sempre la forza per questo nell’Eucaristia, nell’unione con Gesù. Buona Pasqua a tutti!
I riti di conclusione comprendono:
- a) Brevi avvisi, se necessari.
- b) Il saluto e la benedizione del sacerdote, che in alcuni giorni e in certe circostanze si può arricchire e sviluppare con l’orazione sul popolo o con un’altra formula più solenne.
- c) Il congedo del popolo da parte del diacono o del sacerdote, perché ognuno ritorni alle sue opere di bene lodando e benedicendo Dio.
- d) Il bacio dell’altare da parte del sacerdote e del diacono e poi l’inchino profondo all’altare da parte del sacerdote, del diacono e degli altri ministri (Ordinamento generale del Messale Romano, n. 90).
[1] Ordinamento Generale del Messale Romano, 62.
[2] Introduzione al Lezionario, 5.
[3] Cf. Ordinamento Generale del Messale Romano, 60 e 134.
[4] Sermone 85, 1: PL 38, 520; cf. anche Trattato sul vangelo di Giovanni, XXX, I: PL 35, 1632; CCL 36, 289.
[5] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Sacrosanctum Concilium, 33.
[6] Cf. Ordinamento Generale del Messale Romano, 65-66; Introduzione al Lezionario, 24-27.
[7] Cf. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Sacrosanctum Concilium, 52.
[8] Esort. ap. Evangelii gaudium, 137.