“Uno strumento pastorale” rivolto a tutti, espressione “di una Chiesa che vuole mantenere il dialogo con gli operatori sanitari credenti e non credenti, con coloro ai quali è affidata la cura pastorale, con le famiglie che stanno accanto ai malati nella delicata fase finale della vita e con chi affronta la sofferenza in prima persona”. Mons. Carlo Maria Redaelli, Arcivescovo di Gorizia e Presidente della Commissione episcopale per il servizio della carità e la salute, ha definito così il documento “Alla sera della vita. Riflessioni sulla fase terminale della vita terrena”, presentato oggi in una conferenza stampa online.
Il testo, elaborato dall’Ufficio Nazionale per la pastorale della salute, è frutto di una riflessione rigorosa e approfondita, condivisa nella Commissione Cei per il servizio della carità e la salute, e indaga con responsabilità e rispetto proprio quel delicato momento dell’esistenza definito “processo del morire”. Si tratta, ha osservato mons. Redaelli, di un documento che “offre risposte e orientamenti in una situazione complessa e in continua evoluzione”.
“Dopo un lavoro di circa due anni si è arrivati ad un testo fondato scientificamente e pastoralmente, per il quale si è voluto però utilizzare un linguaggio chiaro, non tecnico”, ha aggiunto don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute, evidenziando che “è stato chiarito che cos’è la vita, perché non è disponibile e dunque perché non esiste un diritto a morire”. Proprio sul concetto di “libertà di autodeterminazione del paziente”, don Angelelli ha affermato che “non è pensabile un diritto a morire, perché se costruiamo un diritto a morire dobbiamo costruire un dovere di qualcuno a porre fine alla vita”. “Per postulare un diritto a morire – ha precisato – dovremmo postulare un dovere di uccidere e questo dal punto di vista umano, civile e cristiano è totalmente inaccettabile”.
Nel testo, ha continuato il direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute, non si parla di “fine vita” ma di “fine vita terrena” perché “la prospettiva cristiana supera questa vita e si rivolge con uno sguardo escatologico alla vita futura”. “L’attore principale, il malato che si prepara a concludere la sua vita terrena, deve restare sempre al centro dell’attenzione del sistema di cure”, ha ricordato don Angelelli. “Quando la malattia irrompe nella vita, si scopre drammaticamente di non bastare a se stessi e inizia un cammino alla ricerca delle risorse con cui si vorrebbe fronteggiare un evento inatteso”, ha fatto eco don Vito Piccinonna, presidente della Fondazione “Opera Santi Medici Cosma e Damiano – Bitonto – Onlus”, per il quale “la prima risorsa è proprio l’accompagnamento all’interno del quale c’è posto per la domanda religiosa, che non attiene solo al compito dell’accompagnatore spirituale, ma di tutta l’équipe”.
Uno dei temi affrontati nel documento è quello delle cure palliative su cui si è soffermata Assuntina Morresi, docente di chimica fisica all’Università degli Studi di Perugia e membro del Comitato nazionale di bioetica: “abbiamo un’ottima legge, ma una situazione a macchia di leopardo perché l’attuazione di questa legge non è uniforme dal punto di vista territoriale”. “La palliazione – ha chiarito – è anzitutto un atteggiamento, non è una soluzione tecnica o una prestazione professionale qualsiasi; bensì uno stile di accompagnamento nel quale l’importante non è il guarire ma il prendersi cura”. Per quanto riguarda la sedazione profonda, ha rilevato, “i timori non hanno ragione d’essere, nel senso che quando ci sono appropriatezza e proporzionalità clinica sono assolutamente lecite”.
“A dieci anni dalla legge, fatichiamo ancora a far diventare le cure palliative la quarta gamba dell’organizzazione sanitaria”, ha detto mons. Francesco Savino, vescovo di Cassano all’Jonio, per il quale è fondamentale “attivare un cambiamento culturale e di sguardo sulla malattia”. “Sulle cure palliative – ha concluso – si gioca la democrazia e la civiltà”.
16 Dicembre 2020