Di seguito i testi delle tre prediche di Avvento che Padre Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap. ha proposto alle ore 9 nella Cappella Redemptoris Mater sullìespressione del salmo 42: “L’anima mia ha sete del Dio vivente”; venerdì 7 dicembre (Dio c’è), venerdì 14 dicembre (Il Dio vivente è la vivente Trinità) e venerdì 21 dicembre (“Dio nessuno lo ha mai visto…”), alla presenza di Papa Francesco.
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Dio c’è
Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, nella Chiesa siamo così incalzati da compiti da assolvere, problemi da affrontare, sfide a cui rispondere, che rischiamo di perdere di vista, o lasciare come sullo sfondo, il “porro unum necessarium” del Vangelo, e cioè il nostro rapporto personale con Dio. Oltre tutto, sappiamo per esperienza che un rapporto personale autentico con Dio è la prima condizione per affrontare tutte le situazioni e i problemi che si presentano, senza perdere la pace e la pazienza.
Ho pensato perciò di lasciare da parte, in queste prediche di Avvento, ogni riferimento a problemi di attualità. Cercheremo di fare quello che santa Angela da Foligno raccomandava ai suoi figli spirituali: “raccoglierci in unità e inabissare la nostra anima nell’infinito che è Dio” . Fare un bagno mattutino di fede, prima di iniziare la giornata di lavoro.
Il tema di queste prediche di Avvento (e, se Dio lo vorrà, anche della Quaresima) sarà il versetto del Salmo: “L’anima mia ha sete del Dio vivente” (Sal 42, 2). Gli uomini del nostro tempo si appassionano a cercare segnali dell’esistenza di esseri viventi e intelligenti su altri pianeti. È una ricerca legittima e comprensibile anche se tanto incerta. Pochi però cercano e studiano segnali dell’Essere vivente che ha creato l’universo, che è entrato in esso, nella sua storia, e vive in esso. “In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17, 28) e non ce ne accorgiamo. Abbiamo il Vivente reale in mezzo a noi e lo trascuriamo per cercare esseri viventi ipotetici che, nel migliore dei casi, potrebbero fare ben poco per noi, certo non salvarci dalla morte.
Quante volte siamo costretti a dire a Dio, con sant’Agostino: “Tu eri con me, ma io non ero con te” . Al contrario di noi, infatti, il Dio vivente ci cerca, non fa altro dalla creazione del mondo. Continua a dire: “Adamo, dove sei?” (Gen 3, 9). Noi ci proponiamo di captare i segnali di questo Dio vivente, di rispondere al suo appello, di “bussare alla sua porta”, per entrare in un contatto nuovo, vivo, con lui.
Ci appoggiamo sulla parola di Gesù: “Cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” (Mt 7, 7). Quando si leggono queste parole, si pensa immediatamente che Gesù prometta di darci tutte le cose che gli chiediamo, e rimaniamo perplessi perché vediamo che questo raramente si realizza. Egli però intendeva dire soprattutto una cosa: “Cercatemi e mi troverete, bussate e vi aprirò”. Promette di dare se stesso, al di là delle cose spicciole che gli chiediamo, e questa promessa è sempre infallibilmente mantenuta. Chi lo cerca, lo trova; a chi bussa, lui apre e una volta trovato lui, tutto il resto passa in seconda linea.
L’anima che ha sete del Dio vivente lo troverà infallibilmente e con lui e in lui troverà tutto, come ci ricordano le parole di Santa Teresa d’Avila: “Nulla ti turbi, nulla ti spaventi; tutto passa, Dio non cambia; la pazienza ottiene tutto; chi possiede Dio non manca di nulla. Solo Dio basta”. Con questi sentimenti iniziamo il nostro cammino di ricerca del volto di Dio vivente.
Tornare alle cose!
La Bibbia è punteggiata di testi che parlano di Dio come del “vivente”. “Egli è il Dio vivente”, dice Geremia (Ger 10, 10); “Io sono il vivente”, dice Dio stesso in Ezechiele (Ez 33, 11). In uno dei salmi più belli del salterio, scritto durante l’esilio, l’orante esclama: “L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente” (Sal 42, 2). E ancora: “Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente” (Sal 84, 3). Pietro, a Cesarea di Filippo, proclama Gesù “Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16).
Si tratta evidentemente di una metafora tratta dall’esperienza umana. Israele si è rassegnato a usarla per distinguere il suo Dio dagli idoli delle genti che sono divinità “morte”. In contrasto con essi, il Dio della Bibbia è “un Dio che respira” e il suo respiro o soffio (ruah) è lo Spirito Santo.
Dopo il lungo predominio dell’idealismo e il trionfo dell’“idea”, in tempi a noi più vicini, anche il pensiero secolare ha avvertito il bisogno di un ritorno alla “realtà” e l’ha espresso nel grido programmatico: “Tornare alle cose!” . Cioè: non fermarsi alle formulazioni date della realtà, alle teorie costruitevi sopra, a ciò che comunemente si pensa intorno ad essa, ma puntare direttamente alla realtà stessa che sta alla base di tutto; rimuovere i vari strati di terra riportata e scoprire la roccia sottostante.
Dobbiamo applicare questo programma anche all’ambito della fede. Della fede, infatti, san Tommaso d’Aquino ha scritto che “non termina alle enunciazioni, ma alle cose” . Quando si tratta della “cosa” suprema nell’ambito della fede, cioè di Dio, “tornare alle cose”, significa tornare al Dio vivente; sfondare, per così dire, il terribile muro dell’idea che ci siamo fatti di lui e correre, come a braccia aperte, incontro a Dio in persona. Scoprire che Dio non è un’astrazione, ma una realtà; che tra le nostre idee di Dio e il Dio vivo c’è la stessa differenza che tra un cielo dipinto su un foglio di carta e il cielo vero.
Il programma: “Tornare alle cose!” ha avuto un’applicazione giustamente famosa: quella che ha portato alla scoperta che le cose…esistono. Vale la pena rileggere la pagina famosa di Sartre:
“Ero al giardino pubblico. La radice del castagno s’affondava nella terra, proprio sotto la mia panchina. Non mi ricordavo più che era una radice. Le parole erano scomparse, con esse, il significato delle cose, i modi del loro uso, i tenui segni di riconoscimento che gli uomini hanno tracciato sulla loro superficie. Ero seduto, un po’ chino, a testa bassa, solo, di fronte a quella massa nera e nodosa, del tutto brutta, che mi faceva paura. E poi ho avuto un lampo d’illuminazione. Ne ho avuto il fiato mozzo. Mai prima di questi ultimi tempi, avevo presentito ciò che vuol dire ‘esistere’. Ero come gli altri, come quelli che passeggiano in riva al mare nei loro abiti primaverili. Dicevo come loro: ‘Il mare è verde; quel punto bianco, lassù, è un gabbiano’, ma non sentivo che ciò esisteva, che il gabbiano era un gabbiano-esistente; di solito l’esistenza si nasconde. È lì attorno a noi, è noi, non si può dire due parole senza parlare di essa e, infine, non la si tocca…E poi, ecco: d’un tratto, era lì, chiaro come il giorno: l’esistenza s’era improvvisamente svelata” .
Il filosofo che ha fatto questa “scoperta” si dichiarava ateo, perciò non è andato oltre la costatazione che io esisto, che il mondo esiste, che le cose esistono. Noi però possiamo partire da questa esperienza e farne il trampolino di lancio per la scoperta di un altro Esistente, la scintilla che rende possibile un’altra illuminazione. Quello che è stato possibile con la radice di castagno, perché non dovrebbe infatti essere possibile con Dio? È forse Dio, per la mente dell’uomo, meno reale di quanto la radice di castagno lo sia per il suo occhio? I Padri non esitavano a mettere a servizio della fede le intuizioni di verità presenti nei filosofi pagani, anche di quelli la cui autorità veniva volentieri addotta contro i cristiani. Noi dobbiamo imitarli e fare lo stesso nel nostro tempo.
Cosa possiamo dunque ritenere della “illuminazione” di quel filosofo? Nessuna applicazione diretta, o di contenuto, ma solo una indiretta e di metodo. Letto con una certa disposizione d’animo favorita dalla grazia, quel racconto sembra fatto apposta per scuoterci dall’abitudine, per suscitare in noi dapprima il sospetto, poi la certezza che esiste una conoscenza di Dio che ancora ci è ignota. Che, forse, prima d’ora, neppure noi abbiamo mai intuito cosa vuole dire che Dio “esiste”, che egli è un Dio-esistente, o, come dice la Bibbia, un Dio-vivente. Che abbiamo dunque un compito davanti a noi, una scoperta da fare: scoprire che Dio “c’è”, tanto da averne, anche noi, per un istante, il fiato mozzo! Sarebbe l’avventura della vita.
Ci aiuta a capire di che si tratta l’esperienza di certi convertiti, ai quali l’esistenza di Dio si è rivelata improvvisamente, a un certo punto della vita, dopo averla tenacemente ignorata o negata.
Uno di essi è stato il giornalista francese André Frossard, morto il 2 Febbraio del 1995. Così egli descrive la sua vita prima della conversione:
“Dio non esisteva. La sua immagine, le immagini in sostanza che evocano l’esistenza sua o di quella che potrebbe esserne detta la discendenza storica: i santi, i profeti, gli eroi della Bibbia, non figuravano affatto in casa nostra. Nessuno ci parlava di lui. Eravamo degli atei perfetti, di quelli che non si pongono più interrogativi sul loro ateismo. Gli ultimi anticlericali che si scagliavano ancora contro la religione nelle riunioni pubbliche ci parevano patetici ed un po’ ridicoli, quali lo sarebbero degli storici che si impegnassero a confutare la favola di Cappuccetto Rosso”.
In una giornata d’estate, stanco di aspettare l’amico con cui aveva un appuntamento, il giovane Frossard entra nella chiesa vicina, osserva la sua architettura e guarda le persone che vi pregano. Ed ecco come egli narra ciò che accadde:
“Dapprima mi vengono suggerite queste parole: “Vita Spirituale”. Non dette, e neppure formate da me stesso: sentite come se fossero pronunciate accanto a me sottovoce da una persona che veda ciò che io non vedo ancora. L’ultima sillaba di questo preludio sussurrato raggiunge appena in me il filo della coscienza, che comincia la valanga a rovescio. […] Come descriverlo con queste povere parole? Un altro mondo d’uno splendore e d’ una densità che rimandano di colpo il nostro tra le ombre fragili dei sogni realizzabili. Questo mondo, è la realtà, la verità: la vedo dalla sponda oscura su cui sono ancora trattenuto. C’ è un ordine nell’ universo, ed alla sommità, al di là di questo velo di nebbia risplendente, l’evidenza di Dio, l’evidenza fatta presenza e l’evidenza fatta persona di colui che un istante prima avrei negato […] La sua irruzione straripante, totale, s’ accompagna con una gioia che non è altro che l’esultanza del salvato”
Uscito di chiesa, il suo amico, vedendo che qualcosa è accaduto, gli domanda: “Che ti succede? – “Risponde: “Sono cattolico”, e, come se temessi di non essere stato sufficientemente esplicito, aggiunsi “apostolico e romano”.
L’espressione che nella nostra lingua meglio esprime questo avvenimento è: accorgerci di Dio. “Accorgersi” indica un improvviso aprirsi degli occhi, un soprassalto della coscienza, per cui cominciamo a vedere qualcosa che era lì anche prima, ma che non vedevamo.
Proviamo a rileggere, sull’onda dell’“illuminazione” descritta da Sartre, l’episodio del roveto ardente. Ci servirà, tra l’altro, per costatare come anche il moderno pensiero “esistenziale” ci può aiutare a scoprire, nella Bibbia, qualcosa di nuovo, che il pensiero antico, tutto orientato in senso ontologico, pur con tutta la sua ricchezza, non era in grado di cogliere.
La pagina della Bibbia che narra del roveto ardente (Es 3, 1ss.) è essa stessa un roveto ardente. Brucia, ma non si consuma. A distanza di millenni non ha perso nulla del suo potere di veicolare il senso del divino. Essa mostra, meglio di ogni discorso, cosa succede quando si incontra davvero il Dio vivente. “Mosè pensò: ‘Voglio avvicinarmi…’”. Ancora pensa e vuole. È padrone di sé; è lui che conduce (o crede di condurre) il gioco. Ma ecco che il divino irrompe con il suo essere e impone la sua legge. “Mosè, Mosè! Non avvicinarti. Io sono il Dio di tuo padre”. Tutto è improvvisamente cambiato. Mosè diventa di colpo docile, remissivo. “Eccomi!”, risponde e si vela il viso, come i Serafini si coprivano gli occhi con le ali (cf. Is 6, 2). Il ‘numinoso’ è nell’aria. Mosè entra nel mistero.
In questa atmosfera Dio rivela il suo nome: “Io sono colui che sono”. Trapiantata sul terreno culturale ellenistico, già con i Settanta, questa parola era stata interpretata come una definizione di ciò che Dio è, l’Essere assoluto, come un’affermazione della sua essenza più profonda. Ma una tale interpretazione, dicono oggi gli esegeti, è “del tutto estranea al modo di pensare dell’Antico Testamento”. La frase significa piuttosto: “Io sono colui che ci sono; o più semplicemente ancora: “Io ci sono (o Io ci sarò) per voi!” . Si tratta di un’affermazione concreta, non astratta; si riferisce più all’esistenza di Dio che non alla sua essenza, più al suo “esserci”, che non a “che cosa è”. Non siamo lontani dall’ “Io vivo”, “Io sono il vivente”, che Dio pronuncia in altre parti della Bibbia.
Quel giorno dunque Mosè scoprì una cosa semplicissima, ma capace di mettere in moto e sostenere tutto il processo di liberazione che seguirà. Scoprì che il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe esiste, c’è, è una realtà presente e operante nella storia, uno su cui si può contare. Questo era, del resto, quello che Mosè aveva bisogno di sapere in quel momento, non un’astratta definizione di Dio.
C’è qualcosa che accomuna l’esperienza del filosofo davanti alla radice del castagno e quella di Mosè davanti al roveto ardente. Entrambi scoprono il mistero dell’essere: il primo, l’essere delle cose, il secondo l’Essere di Dio. Ma mentre scoprire che Dio esiste è fonte di coraggio e di gioia, scoprire solo che le cose esistono non produce, a detta di quello stesso filosofo, che “nausea”.
Dio, sentimento di una presenza
Cosa significa e come si definisce il Dio vivente? Per un momento ho coltivato il proposito di rispondere a questa domanda, tracciando un profilo del Dio vivente, a partire dalla Bibbia, ma poi ho visto che sarebbe stata una grande stoltezza. Voler descrivere il Dio vivente, tracciarne un profilo, sia pure fondandosi sulla Bibbia, è ricadere nel tentativo di ridurre il Dio vivente a idea del Dio vivente.
Quello che possiamo fare, anche nei confronti del Dio vivente, è oltrepassare “i tenui segni di riconoscimento che gli uomini hanno tracciato sulla sua superficie”, rompere i piccoli gusci delle nostre idee di Dio, o i “vasetti di alabastro” in cui lo teniamo racchiuso, in modo che il suo profumo si espanda e “riempia la casa”. Ci è maestro in questo sant’Agostino. Il santo ci ha lasciato una specie di metodo per elevarci con il cuore e la mente al Dio vivo e vero. Esso consiste nel ripetere a noi stessi, dopo ogni riflessione su Dio: “Ma Dio non è questo, ma Dio non è questo!”. Pensa alla terra, pensa al cielo, pensa agli angeli o a qualsiasi cosa o persona; pensa, infine, a quello che tu stesso pensi di Dio, e ogni volta ripeti: “Sì, ma Dio non è questo, Dio non è questo!”. “Cerca sopra di noi”, rispondono, una ad una, tutte le creature interrogate . Dobbiamo credere in un Dio che è al di là del Dio in cui crediamo!
Il Dio vivente, in quanto vivente, lo si può intuire vagamente, averne una specie di sentore o pre-sentimento. Si può suscitarne il desiderio, la nostalgia. Di più no. Non si può racchiudere la vita in un’idea. Per questo si può avere di lui più facilmente il sentimento, o il sentore, che non l’idea, poiché l’idea circoscrive la persona, mentre il sentimento ne rivela la presenza, lasciandola nella sua interezza e indeterminazione. San Gregorio Nisseno parla della più alta forma di conoscenza di Dio come di un “sentimento di presenza” .
Il divino è una categoria assolutamente diversa da ogni altra, che non può essere definita, ma solo accennata; se ne può parlare solo per analogie e per contrapposti. Un’ immagine che nella Bibbia ci parla così di Dio è quella della roccia. Pochi titoli biblici sono capaci di creare in noi un sentimento così vivo di Dio – soprattutto di ciò che Dio è per noi – quanto questo del Dio-roccia. Cerchiamo anche noi di succhiare, come dice la Scrittura, “miele dalla roccia” (cf. Dt 32, 13).
Più che un semplice titolo, roccia appare, nella Bibbia, come una specie di nome personale di Dio, tanto da essere scritto, a volte, con la lettera maiuscola. “Egli è la Roccia, perfetta è l’opera sua” (Dt 32, 4); “Il Signore è una roccia eterna” (Is 26, 4). Ma perché questa immagine non ci incuta spavento e soggezione per la durezza e l’impenetrabilità che evoca, ecco che la Bibbia aggiunge subito un’altra verità: egli è la “nostra” roccia, la “mia” roccia. Cioè una roccia per noi, non contro di noi. “Il Signore è la mia roccia” (Sal 18, 3), la “roccia della mia difesa” (Sal 31, 4), la “roccia della nostra salvezza” (Sal 95, 1).
I primi traduttori della Bibbia, i Settanta, si sono spaventati davanti a un’immagine così materiale di Dio che sembrava abbassarlo e hanno sistematicamente sostituito il concreto “roccia” con astratti, quali “forza”, “rifugio”, “salvezza”. Ma giustamente tutte le traduzioni moderne hanno restituito a Dio il titolo originale di roccia.
Roccia non è un titolo astratto; non dice soltanto cos’è Dio, ma anche cosa dobbiamo essere noi. La roccia è fatta per essere scalata, per cercarvi rifugio, non solo per essere contemplata da lontano. La roccia attira, appassiona. Se Dio è roccia, l’uomo deve diventare un “rocciatore”. Gesù diceva: “Imparate dal padrone di casa”; “Guardate i pescatori”; san Giacomo continua dicendo: “Guardate gli agricoltori”. Noi possiamo aggiungere: “Guardate i rocciatori!”. Se cala la notte o viene una bufera, non commettono l’imprudenza di tentare di scendere, ma ancora di più si stringono alla roccia e aspettano che passi la bufera.
L’insistenza della Bibbia sul Dio-roccia ha come scopo quello di infondere nella creatura fiducia, scacciando dal suo cuore le paure. “Non temiamo se trema la terra, se crollano i monti nel fondo del mare”, dice un salmo; e il motivo che si adduce è: “Nostra roccaforte è il Dio di Giacobbe” (Sal 46, 3. 8).
Dio c’è e tanto basta!
Il primo biografo di san Francesco d’Assisi, Tommaso da Celano, descrive un momento di buio e quasi di sconforto che il santo visse verso la fine della sua vita, a causa delle deviazioni che vedeva intorno a sé dal primitivo stile di vita dei suoi frati.
Essendo turbato – scrive – per i cattivi esempi, e avendo fatto ricorso un giorno, così amareggiato, alla preghiera, si sentì apostrofato a questo modo dal Signore: “Perché tu, omiciattolo, ti turbi? Forse io ti ho stabilito pastore del mio Ordine in modo tale che tu dimenticassi che io ne rimango il patrono principale? […] Non turbarti dunque, ma attendi alla tua salvezza perché se l’Ordine si riducesse anche a soli tre frati, rimarrà il mio aiuto sempre stabile” .
Lo studioso francescano francese P. Eloi Leclerc, che meglio di tutti ha illustrato questa fase tormentata della vita di Francesco, dice che il Santo fu così rianimato dalle parole di Cristo che andava ripetendo tra sé una esclamazione: “Dieu est, et cela suffit”. Francesco, Dio c’è e tanto basta! Dio c’è e tanto basta!” .
Impariamo a ripetere anche noi queste semplici parole quando, nella Chiesa o nella nostra vita, ci troviamo in situazioni simili a quelle di Francesco. Dio c’è e tanto basta!
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Il Dio vivente è la vivente Trinità
Una esperienza del Dio vivente
Quando si tratta della conoscenza del Dio vivente, una esperienza vale più di molti ragionamenti e io vorrei iniziare questa seconda meditazione proprio con una esperienza. Tempo fa ricevetti la lettera di una persona che seguivo spiritualmente, una donna sposata e vedova, deceduta da alcuni anni. L’autenticità delle sue esperienze è confermata dal fatto che le ha portate con sé nella tomba, senza parlarne mai a nessuno, fuori che al suo padre spirituale. Ma tutte le grazie appartengono alla Chiesa e voglio perciò condividerla con voi, ora che lei è presso Dio. Essa a me ha fatto ricordare l’esperienza di Mosè davanti al roveto ardente. Diceva:
“Non avevo ancora quattro anni e mi trovavo in campagna dalla nonna. Una mattina, mentre aspettavo nella mia camera che venissero a vestirmi, guardavo un gran tiglio che spiegava i rami davanti alla finestra. Il sole nascente lo investiva sul davanti. Ero incantata dalla sua bellezza, quando di colpo la mia attenzione fu attirata da uno splendore insolito, d’un bianco straordinario. Ogni foglia, ogni ramo si mise a vibrare come fiammelle di mille candele. Ero più meravigliata di quando vidi cadere la prima neve della mia vita. E la mia meraviglia aumentò quando – non so se con gli occhi del corpo o no – al centro di tutto quel luccichio vidi come uno sguardo e un sorriso di una bellezza e di una benevolenza indicibili. Avevo il cuore che batteva all’impazzata; sentii quella potenza d’amore penetrarmi ed ebbi la sensazione di essere amata fin nel più intimo del mio essere. Durò un minuto, un minuto e mezzo, non lo so, per me era l’eternità. Fui riportata alla realtà da un brivido di freddo che mi passò per il corpo e con grande tristezza mi resi conto che lo sguardo e il sorriso erano svaniti e che a poco a poco lo splendore dell’albero si spegneva. Le foglie ripresero il loro aspetto ordinario e il tiglio, anche se investito dalla luce radiosa di un sole d’estate, in confronto al suo splendore precedente, con mia grande delusione mi apparve oscuro come sotto un cielo piovoso.
Non parlai a nessuno di questo fatto, ma poco tempo dopo, sentii la cuoca e un’altra donna parlare tra di loro di Dio. Trasalii e chiesi: “Dio? Chi è?”, intuendo qualcosa di misterioso. “Povera piccola – disse la cuciniera all’altra donna –, la nonna è una pagana e non le insegna queste cose! Dio – disse rivolta verso di me – è colui che ha fatto il cielo e la terra, gli uomini e gli animali. È onnipotente e abita nel cielo”. Rimasi in silenzio, ma tra di me dissi: “È lui che ho visto!”.
E tuttavia ero molto confusa. Ai miei occhi, la nonna era ben superiore a queste donne di servizio, eppure la cuoca aveva detto che era una pagana perché non conosceva Dio e io avevo capito che era un termine dispregiativo. Chi aveva ragione? Un mattino aspettavo di nuovo che venissero a vestirmi. Ero impaziente e deploravo il fatto che i miei abiti di bambina si abbottonavano sul di dietro. Alla fine non aspettai più e dissi: “Dio, se tu esisti e sei veramente onnipotente, abbottonami il vestito sulla schiena perché possa scendere in giardino”. Non avevo finito di pronunciare queste parole che il mio vestito si trovò abbottonato. Restai a bocca aperta, atterrita dall’effetto delle mie parole. Le gambe che mi tremavano, mi sedetti davanti allo specchio dell’armadio per costatare se era vero e per riprendere fiato. Non sapevo ancora cosa significasse la frase “tentare Dio”, ma capivo che sarei stata ridotta in polvere se mi fossi opposta alla sua volontà.
Tutto un cammino di santità seguito a quella esperienza conferma che non si era trattato di una fantasia infantile”.
Dio è amore e perciò è Trinità
Ora proseguiamo la nostra riflessione sul Dio Vivente. A chi ci rivolgiamo, noi cristiani, quando pronunciamo la parola “Dio”, senza altra specificazione? A chi si riferisce quel “tu”, quando, con le parole del salmo, diciamo: “O Dio, tu sei il mio Dio” (Sal 63, 2)? Chi risponde ad esso, per così dire, dall’altro capo del filo? Quel “tu” non è semplicemente Dio-Padre, la prima persona divina, quasi che essa sia esistita o sia pensabile, un solo istante, senza le altre due. Non è neppure l’essenza divina indeterminata, quasi che esista un’essenza divina che solo in un secondo momento si specifica in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo.
L’unico Dio è il Padre che genera il Figlio e che con lui spira lo Spirito, comunicando ad essi l’intera sua divinità. È il Dio comunione d’amore, in cui unità e trinità provengono dalla stessa radice e dallo stesso atto e formano una Triunità, in cui nessuna delle due cose – unità e pluralità – precede l’altra, o esiste senza l’altra, nessuno dei due livelli è superiore all’altro o più “profondo” dell’altro.
Quel “tu” a cui ci rivolgiamo nella preghiera, secondo i casi e la grazia di ognuno, può essere una delle tre divine persone in particolare: il Padre, il Figlio Gesù Cristo, o lo Spirito Santo, senza che si perda l’intero. Per la comunione trinitaria infatti in ogni persona divina sono presenti le altre due. La Trinità è come uno di quei triangoli musicali che da qualsiasi lato si tocchi vibra tutto e dà lo stesso suono.
Il Dio vivente dei cristiani non è altro, in conclusione, che la vivente Trinità. La dottrina della Trinità è contenuta, come in nuce, nella rivelazione di Dio come amore. Dire: “Dio è amore” (1Gv 4, 8) è dire: Dio è trinità. Ogni amore implica un amante, un amato e un amore che li unisce. Ogni amore è amore di qualcuno o di qualcosa; non si dà un amore “a vuoto”, senza oggetto. Ora chi ama Dio, per essere definito amore? L’uomo? Ma allora è amore solo da qualche centinaio di milioni di anni. Ama l’universo? Ma allora è amore solo da qualche decina di miliardi di anni. E prima chi amava Dio per essere l’amore?
I pensatori greci e, in genere, le filosofie religiose di tutti i tempi, concependo Dio soprattutto come “pensiero”, potevano rispondere: Dio pensava se stesso; era “puro pensiero”, “pensiero di pensiero”. Ma questo non è più possibile, nel momento in cui si dice che Dio è anzitutto amore, perché il “puro amore di se stesso” sarebbe puro egoismo, che non è l’esaltazione massima dell’amore, ma la sua totale negazione. Ed ecco la risposta della rivelazione, esplicitata dalla Chiesa. Dio è amore da sempre, ab aeterno, perché prima ancora che esistesse un oggetto fuori di sé da amare, aveva in se stesso il Verbo, il Figlio che amava con amore infinito, cioè “nello Spirito Santo”.
Questo non spiega “come” l’unità possa essere contemporaneamente trinità; questo è un mistero inconoscibile da noi perché avviene solo in Dio. Ci aiuta però a intuire “perché”, in Dio, l’unità deve essere anche pluralità: perché “Dio è amore”! Un Dio che fosse pura conoscenza o pura legge, o puro potere non avrebbe certo bisogno di essere trino. Questo anzi complicherebbe le cose e infatti nessun “triumvirato” è mai durato a lungo nella storia! Non così con un Dio che è anzitutto amore, perché “meno che tra due, non ci può essere amore”. “Occorre – ha scritto Henri de Lubac – che il mondo lo sappia: la rivelazione di Dio come amore sconvolge tutto quello che esso aveva concepito in precedenza della divinità” . Noi cristiani crediamo “in un Dio solo”, non in un Dio solitario!
Contemplare la Trinità per vincere l’odiosa divisione del mondo
Nessun trattato sulla Trinità è capace di farci entrare in contatto vivo con essa quanto la contemplazione dell’icona della Trinità di Rublev, di cui vediamo una riproduzione nel mosaico che abbiamo davanti a noi, alla sommità della parete di fronte. Dipinta nel 1425 per la Chiesa di san Sergio, l’icona fu dichiarata, dal “concilio dei cento capitoli” del 1551, modello di tutte le rappresentazioni della Trinità.
Una cosa si deve notare subito circa questa immagine. Essa non vuole rappresentare direttamente la Trinità, che, per definizione, è invisibile e ineffabile. Questo sarebbe stato contrario a tutti i canoni dell’iconografia bizantina. Direttamente, essa rappresenta la scena dei tre angeli apparsi ad Abramo alle querce di Mamre (Gen 18, 1-15); lo dimostra chiaramente il fatto che in altri dipinti dello stesso soggetto, prima e dopo Rublev, nell’icona appaiono anche Abramo, Sara, il vitello e, sullo sfondo, la quercia. Questa scena però, alla luce della tradizione patristica, viene letta come una prefigurazione della Trinità. L’icona è una delle forme che assume la lettura spirituale della Bibbia, cioè l’interpretazione di un fatto dell’Antico Testamento alla luce del Nuovo.
Il dogma dell’unità e trinità di Dio viene espresso nell’icona di Rublev dal fatto che le figure presenti sono tre e ben distinte, ma somigliantissime tra loro. Esse sono contenute idealmente dentro un cerchio che mette in luce la loro unità, mentre il diverso movimento, soprattutto del capo, proclama la loro distinzione. Tutti e tre indossano, nell’originale, una veste di colore azzurro, segno della natura divina che hanno in comune; ma sopra, o sotto, di essa ognuno riveste un colore che lo distingue dall’altro. Il Padre (identificato in genere con l’angelo di sinistra verso il quale le altre due persone inclinano il capo), ha una veste dai colori indefinibili, fatta quasi di pura luce, segno della sua invisibilità e inaccessibilità; il Figlio, al centro, veste una tunica scura, segno della umanità che ha rivestito; lo Spirito Santo, l’angelo di destra, un manto verde, segno della vita, essendo egli colui “che dà la vita”.
Soprattutto una cosa colpisce contemplando l’icona di Rublev: la pace profonda e l’unità che emana dall’insieme. Dall’icona si sprigiona un silenzioso grido: “Siate una cosa sola, come noi siamo una cosa sola”. San Sergio di Radonez, per il cui monastero fu dipinta l’icona, si era distinto nella storia russa per aver riportato l’unità tra i capi in discordia tra di loro e aver reso così possibile la liberazione della Russia dai Tartari. Il suo motto era: “Contemplando la Santissima Trinità, vincere l’odiosa discordia di questo mondo”. Rublev ha voluto raccogliere l’eredità spirituale del grande santo che aveva fatto della Trinità la fonte ispiratrice della sua vita e del suo operato.
Da questa visione della Trinità raccogliamo dunque soprattutto l’appello all’unità. Tutti vogliamo l’unità. Dopo la parola felicità, non ce n’è alcun’altra che risponda a un bisogno altrettanto impellente del cuore umano come la parola unità. Noi siamo “esseri finiti, capaci di infinito” e questo vuol dire che siamo creature limitate che aspiriamo a superare il nostro limite, per essere “in qualche modo tutto”, quodammodo omnia, si dice in filosofia. Non ci rassegniamo a essere solo quello che siamo. Chi non ricorda, negli anni giovanili, qualche momento di struggente bisogno di unità, quando avrebbe voluto che tutto l’universo fosse racchiuso in un punto solo e lui essere, con tutti gli altri, in quell’unico punto, tanto il senso di separazione e di solitudine nel mondo si faceva sentire con sofferenza? San Tommaso d’Aquino spiega tutto ciò dicendo: “Poiché l’unità (unum) è un principio dell’essere come la bontà (bonum), ne deriva che ognuno desidera naturalmente l’unità, come desidera il bene. Per questo come l’amore o il desiderio del bene causa sofferenza, così fa anche l’amore o il desiderio dell’unità” .
Tutti dunque vogliamo l’unità, tutti la desideriamo dal profondo del cuore. Perché allora è così difficile fare unità, se tutti la desideriamo così ardentemente? È che noi vogliamo, sì, che si faccia l’unità, ma… intorno al nostro punto di vista. Esso ci sembra così ovvio, così ragionevole, che ci stupiamo come gli altri non se ne accorgano e insistano invece nel loro punto di vista. Tracciamo perfino delicatamente agli altri la strada per venire dove siamo noi e raggiungerci nel nostro centro. Il problema è che l’altro che mi sta davanti sta facendo esattamente la stessa cosa con me. Per questa via non si raggiungerà mai alcuna unità. Si fa il cammino inverso.
La Trinità ci indica il vero cammino verso l’unità. Partendo dalle persone divine, anziché dal concetto di natura, gli orientali si son trovati a dover assicurare in altro modo l’unità divina. Lo hanno fatto elaborando la dottrina della pericoresi. Applicata alla Trinità, pericoresi (alla lettera, mutua compenetrazione) esprime l’unione delle tre persone nell’unica essenza . Grazie ad essa le tre persone sono unite, senza essere confuse; ogni persona si “immedesima” nell’altra, si dona all’altra e fa essere l’altra. Il concetto si fonda sulle parole di Cristo: “Io sono nel Padre e il Padre è in me”.
Gesù ha esteso questo principio al rapporto che c’è tra lui e noi: “Io sono nel Padre e voi in me e io in voi” (Gv 14, 20); “Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità” (Gv 17, 23). La via alla vera unità sta nell’imitare tra di noi, nella Chiesa, la pericoresi divina. San Paolo ne indica il fondamento quando dice che “siamo membra gli uni degli altri” (Rm 12, 5). In Dio la pericoresi si basa sull’unità della natura, in noi sul fatto che siamo “un solo corpo e un solo spirito”.
L’Apostolo ci aiuta a capire cosa significa, nella pratica, vivere tra noi la pericoresi, o mutua compenetrazione: “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui” (1Cor 12, 26); “Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo” (Gal 6, 2). I “pesi” degli altri sono le malattie, i limiti, i crucci, anche i difetti e i peccati. Vivere la pericoresi significa “immedesimarci” con l’altro, calarci, come si dice, nei suoi panni, cercare di capire, prima che giudicare.
Le tre persone divine sono sempre impegnate a glorificarsi a vicenda. Il Padre glorifica il Figlio; il Figlio glorifica il Padre (Gv 17, 4); il Paraclito glorificherà il Figlio (Gv 16, 14). Ogni persona si dà a conoscere facendo conoscere l’altra. Il Figlio insegna a gridare Abba!; lo Spirito Santo insegna a gridare: “Gesù è il Signore!”, e “Vieni, Signore” Maranatha. Non insegnano a pronunciare il proprio nome, ma quello delle altre persone. C’è un solo “luogo” al mondo dove la regola “ama il prossimo tuo come te stesso” è messa in pratica, in senso assoluto, ed è la Trinità! Ogni persona divina ama l’altra esattamente come se stessa.
Come è diversa l’atmosfera che si respira quando e in un corpo sociale ci si sforza di vivere con questi ideali sublimi davanti agli occhi! Pensiamo a una famiglia in cui il marito difende ed esalta la propria moglie davanti ai figli e agli estranei, e lo stesso fa la moglie rispetto al marito; pensiamo a una comunità in cui ci si sforza di mettere in pratica la raccomandazione di san Giacomo: “Non sparlate gli uni degli altri, fratelli” (Gc 4, 11), o quella di san Paolo: “Gareggiate nello stimarvi a vicenda” (Rm 12, 10). Di questo passo, uno potrebbe perfino arrivare a rallegrarsi della nomina di un’altra persona che stima a un certo posto di onore (per esempio al cardinalato), come se vi fosse nominato lui stesso.
Ma lasciamo dire queste cose ai santi, i soli che hanno il diritto di farlo, perché le mettono in pratica. In una delle sue Ammonizioni san Francesco d’Assisi dice: “Beato quel servo il quale non si inorgoglisce per il bene che il Signore dice e opera per mezzo di lui, più che per il bene che dice e opera per mezzo di un altro” . Sant’Agostino diceva al popolo:
“Se tu ami l’unità, tutto ciò che in essa è posseduto da qualcuno, lo possiedi anche tu! Bandisci l’invidia e sarà tuo ciò che è mio, e se io bandisco l’invidia, è mio ciò che possiedi tu. L’invidia separa, la carità unisce… Soltanto la mano agisce nel corpo; essa però non agisce soltanto per se stessa, ma anche per l’occhio. Se sta per arrivare un colpo che ha di mira, non la mano, ma il volto, forse che la mano dice: ‘Non mi muovo perché il colpo non è diretto a me?” .
Voleva dire: se tu ti sforzi di mettere il bene della comunità al di sopra della tua affermazione personale, ogni carisma e ogni onore presente in essa sarà tuo, come in una famiglia unita il successo di un membro fa felici tutti gli altri. Ecco perché la carità è “la via migliore di tutte” (1Cor 12, 31): essa moltiplica i carismi, fa del carisma di uno il carisma di tutti. Sono cose, mi rendo conto, facili a dirsi, ma difficili a mettere in pratica; è bello tuttavia sapere che, con la grazia di Dio, esse sono possibili e alcune anime le hanno realizzate e le realizzano anche per noi nella Chiesa.
Contemplare la Trinità aiuta davvero a vincere “l’odiosa discordia del mondo”. Il primo miracolo che lo Spirito operò a Pentecoste fu di rendere i discepoli “concordi” (At 1, 14), “un cuore solo e un’anima sola” (At 4, 32). Egli è sempre pronto a ripetere questo miracolo, a trasformare ogni volta la dis-cordia in con-cordia. Si può essere divisi nella mente, in ciò che ognuno pensa su questioni dottrinali o pastorali ancora legittimamente dibattute nella Chiesa, ma mai divisi nel cuore: In dubiis libertas, in omnibus vero caritas. Questo significa, propriamente, imitare l’unità della Trinità; essa infatti è “unità nella diversità”.
Entrare nella Trinità
C’è qualcosa di ancora più beato che possiamo fare nei riguardi della Trinità che contemplarla e imitarla ed è entrare in essa! Noi non possiamo abbracciare l’oceano, ma possiamo entrare in esso; non possiamo abbracciare il mistero della Trinità con la nostra mente, ma possiamo entrare in esso! Cristo ci ha lasciato un mezzo concreto per farlo, l’Eucaristia. Nell’icona di Rublev, i tre angeli sono disposti in cerchio intorno a una mensa; su quella mensa c’è una coppa e dentro la coppa, si intravede un agnello. Non si poteva dire in modo più semplice ed efficace che la Trinità ci dà appuntamento ogni giorno nell’Eucaristia. Il banchetto di Abramo alle querce di Mamre è figura di questo banchetto. La visita dei tre ad Abramo si rinnova per noi ogni volta che ci accostiamo alla comunione.
Anche qui, cioè a proposito dell’Eucaristia, è illuminante la dottrina della pericoresi trinitaria. Essa ci dice che dove c’è una persona della Trinità, lì sono anche le altre due, inseparabilmente unite. Al momento della comunione si realizza in senso stretto la parola di Cristo: “Io in loro e tu in me”. “Chi vede me, vede il Padre”, chi riceve me riceve il Padre. Non arriveremo mai a valutare appieno la grazia che ci è offerta. Commensali della Trinità!
San Cirillo Alessandrino ha formulato con il solito rigore teologico questa verità che lega indissolubilmente Trinità ed Eucaristia. Dice: “Siamo consumati nell’unità con Dio Padre per mezzo di Cristo. Ricevendo infatti in noi corporalmente e spiritualmente ciò che il Figlio è per natura diventiamo partecipi e consorti di tutta la natura suprema” .
La stessa persona di cui ho riportato la testimonianza all’inizio, mi confidò, in un’altra occasione, una sua esperienza della Trinità. Mi permetto di condividere anche questa perché aiuta a capire che la Chiesa non è solo quello che si vede o si dice di essa.
“L’altra notte, lo Spirito mi introdusse nel mistero dell’amore trinitario. Lo scambio estasiante del donare e del ricevere si operò anche attraverso di me: del Cristo, al quale ero unita, verso il Padre e del Padre verso il Figlio. Ma come esprimere l’inesprimibile? Non vedevo nulla, ma era ben più che vedere e le mie parole sono impotenti a tradurre questo scambio nella giubilazione, che si rispondeva, si slanciava, riceveva e donava. E da quello scambio fluiva una vita intensa dall’Uno all’Altro, come un latte tiepido che scorre dal seno della madre alla bocca del bambino attaccato a questo benessere. Ed ero io quel bambino, era tutta la creazione che partecipa alla vita, al regno, alla gloria, essendo stata rigenerata da Cristo. O Santa e vivente Trinità! Rimasi come fuori di me per due o tre giorni, e ancora oggi questa esperienza rimane fortemente impressa in me”.
La Trinità non è soltanto un mistero e un articolo della nostra fede, è una realtà viva e palpitante. Ripeto ciò che ho detto all’inizio: il Dio vivente della Bibbia non è altri che la vivente Trinità. Che lo Spirito introduca anche noi in essa e ci faccia gustare la sua dolce compagnia.
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“Dio nessuno lo ha mai visto…”
Il Dio vivente è la vivente Trinità, abbiamo detto l’ultima volta. Ma noi siamo nel tempo e Dio è nell’eternità. Come superare questa “infinita differenza qualitativa”? Come gettare un ponte su un tale abisso infinito? La risposta è nella solennità che ci apprestiamo a celebrare: “Il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi”.
Tra noi e Dio – ha scritto il grande teologo bizantino Nicola Cabasilas – si ergevano tre muri di separazione: quello della natura perché Dio è spirito e noi siamo carne, quello del peccato, quello della morte. Il primo di questi muri è stato abbattuto nell’incarnazione, quando natura umana e natura divina si sono unite nella persona di Cristo; il muro del peccato è stato abbattuto sulla croce, e il muro della morte nella risurrezione . Gesù Cristo è ormai il luogo definitivo dell’incontro tra il Dio vivente e l’uomo vivente. In lui, il Dio lontano si è fatto vicino, è divenuto l’Emmanuele, il Dio-con-noi.
Il cammino di ricerca del Dio vivente che abbiamo intrapreso in questo Avvento ha avuto un precedente illustre: “L’itinerario della mente a Dio” (Itinerarium mentis in Deum) di san Bonaventura. Come filosofo e teologo speculativo, egli individua sette gradini per i quali l’anima ascende alla conoscenza di Dio. Essi sono:
La visione di lui attraverso i suoi vestigi nell’universo.
La contemplazione di Dio nei vestigi suoi in questo mondo sensibile.
La contemplazione di Dio attraverso la sua immagine impressa nelle facoltà naturali.
La contemplazione di Dio nella sua immagine rinnovata dai doni di grazia.
La contemplazione della divina unità nel suo primo nome che è l’Essere.
La visione della beatissima Trinità come il Bene.
Il rapimento mistico dell’anima in cui cessa l’opera dell’intelletto mentre l’amore trapassa totalmente in Dio.
Dopo aver passato in rassegna i vari mezzi che abbiamo per elevarci alla conoscenza del Dio vivente e i “luoghi” dove possiamo incontrarlo, san Bonaventura giunge alla conclusione che il mezzo definitivo, infallibile e sufficiente è la persona di Gesù Cristo. Così termina infatti il suo trattato:
“Orbene: all’anima non rimane che andare al di là di tutto questo con la contemplazione, e passar oltre il mondo sensibile, non solo, ma persino oltre se stessa. In questo passaggio Cristo è via e porta; Cristo è scala e veicolo come propiziatorio posto sopra l’arca di Dio e sacramento nascosto nei secoli”.
Il filosofo Blaise Pascal, nel suo famoso Memoriale, giunge alla stessa conclusione: il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe “lo si trova soltanto per le vie insegnate dal Vangelo”. Il motivo di ciò è semplice: Gesù Cristo è “il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16). La Lettera agli Ebrei fonda su questo la novità del Nuovo Testamento:
“Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo” (Eb 1, 1-2).
Il Dio vivente non ci parla più per interposta persona, ma di persona perché il Figlio “è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza” (Eb 1, 3). Questo dal punto di vista ontologico e oggettivo. Dal punto di vista esistenziale, o soggettivo, la grande novità è che ora non è più l’uomo che, “a tentoni” (At 17, 27), va alla ricerca del Dio vivente; è il Dio vivente che scende alla ricerca dell’uomo, fino a dimorare nel suo stesso cuore. È lì che d’ora in poi lo si può incontrare e adorare in spirito e verità: “Se uno mi ama, dice Gesù, osserva la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14, 23).
“Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”
Chi ha fatto di questa verità – cioè che Gesù Cristo è il supremo rivelatore del Dio vivente e il “luogo” dove si entra in contatto con lui – il cuore del suo vangelo è Giovanni. Ci affidiamo a lui perché ci aiuti a fare della ricerca del Dio vivente qualcosa di più che una semplice “ricerca”, ma una “esperienza” di lui, ad averne non solo la conoscenza, ma un vivo “sentimento”.
Per non perdere la forza e immediatezza della sua testimonianza ispirata, evitiamo di imporre ai testi qualsiasi cornice interpretativa. Passiamo semplicemente in rassegna le parole più esplicite nelle quali è Gesù stesso che si presenta come il definitivo rivelatore di Dio. Ognuna di queste parole è capace, da sola, di portarci sull’orlo del mistero e farci affacciare su un orizzonte infinito.
Giovanni 1, 18: “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato”. Per comprendere il senso di queste parole, bisogna rifarsi a tutta la tradizione biblica sul Dio che non si può vedere senza morire. Basta leggere Esodo 33, 18-20: “Gli disse (Mosè): «Mostrami la tua gloria!». Rispose: «Farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome, Signore, davanti a te. A chi vorrò far grazia farò grazia e di chi vorrò aver misericordia avrò misericordia». Soggiunse: «Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo».
C’è un tale abisso tra la santità di Dio e l’indegnità dell’uomo che questi dovrebbe morire vedendo Dio o soltanto udendo la sua voce. Perciò Mosè (Es 3, 69) e anche i serafini (Is 6, 2) si velano la faccia davanti a Dio. Restando in vita, dopo aver visto Dio, si prova una sorpresa riconoscente (Gen 32, 31). È un raro favore che Dio concede a Mosè (Es 33,11) ed Elia (1Re 19, 11s.) che saranno significativamente ammessi a contemplare la gloria di Cristo sul Tabor.
Giovanni 10,30: “Io e il Padre siamo una cosa sola”. È l’affermazione forse più carica di mistero di tutto il Nuovo Testamento. Gesù Cristo non è solo il rivelatore del Dio vivente: è lui stesso il Dio vivente! Il rivelatore e rivelazione sono la stessa persona. Da questa affermazione la riflessione della Chiesa partirà per arrivare alla piena ed esplicita fede nel dogma trinitario. Quello che noi traduciano con l’espressione “una cosa sola” è un sostantivo neutro (hen in greco, unum in latino). Se Gesù avesse usato il maschile eis, unus si sarebbe dovuto pensare che Padre e Figlio sono una sola persona e la dottrina della Trinità sarebbe esclusa alla radice. Dicendo “unum”, una cosa sola, i Padri ne dedurranno giustamente che Padre e Figlio (e, come si affermerà più tardi, lo Spirito Santo) sono una stessa natura, ma non una sola persona.
Giovanni 14, 6: Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Qui dobbiamo soffermarci un po’ più a lungo. “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. Lette nel contesto attuale del dialogo interreligioso, queste parole pongono un interrogativo che non possiamo passare sotto silenzio. Che pensare di tutta quella parte dell’umanità che non conosce Cristo e il suo Vangelo? Nessuno di essi va al Padre? Sono essi esclusi dalla mediazione di Cristo e quindi dalla salvezza?
Una cosa è certa e da essa deve partire ogni teologia cristiana delle religioni: Cristo ha dato la sua vita “in riscatto” e per amore di tutti gli uomini, perché tutti sono creature del Padre suo e suoi fratelli. Non ha fatto distinzioni. La sua offerta di salvezza è universale. “Quando sarò innalzato da terra (sulla croce!), attirerò tutti a me” (Gv 12, 32); “Non c’è altro nome dato agli uomini in cui è stabilito che siano salvati”, proclama Pietro davanti al Sinedrio (At 4, 12).
Alcuni, pur professandosi credenti cristiani, non riescono anche oggi ad ammettere che un fatto storico particolare, come è la morte e risurrezione di Cristo, possa aver cambiato la situazione dell’intera umanità di fronte a Dio. Sostituiscono perciò l’evento storico con una principio universale “impersonale”, riproponendo l’antico cammino della gnosi. Essi dovrebbero porsi, credo, un’altra domanda, e cioè se credono davvero nel mistero con cui l’intero cristianesimo sta o cade: l’incarnazione del Verbo e la divinità di Cristo. Una volta ammessa questa, non appare più assurdo per la ragione che un atto particolare possa avere una portata universale. Sarebbe strano piuttosto pensare il contrario.
Il torto più grande, nel sottrargli tanta parte dell’umanità, non lo si fa a Cristo o alla Chiesa, ma a quell’umanità stessa. Non è possibile partire dall’affermazione che “Cristo è la suprema, definitiva e normativa proposta di salvezza fatta da Dio al mondo”, senza con ciò stesso riconoscere a tutti gli uomini il diritto di beneficiare di questa salvezza?
“Ma è realistico – ci si chiede – continuare a credere in una misteriosa presenza e influenza di Cristo in religioni che esistono da prima di lui e che non sentono alcun bisogno, dopo venti secoli, di accogliere il suo vangelo?”. C’è, nella Bibbia, un dato che può aiutarci a dare una risposta a questa obbiezione: l’umiltà di Dio, il nascondimento di Dio. “Tu sei un Dio nascosto, Dio d’Israele salvatore”: Vere tu es Deus absconditus (Is 45, 15, Volgata). Dio è umile nel creare. Non mette la sua etichetta su tutto, come fanno gli uomini. Nelle creature non sta scritto che sono fatte da Dio. È lasciato ad esse di scoprirlo.
Quanto tempo ci è voluto perché l’uomo riconoscesse a chi doveva l’essere, chi aveva creato per lui il cielo e la terra? Quanto ce ne vorrà ancora prima che tutti arrivino a riconoscerlo? Cessa, per questo, Dio di essere lui il creatore di tutto? Cessa di riscaldare con il suo sole chi lo conosce e chi non lo conosce? Avviene lo stesso nella redenzione. Dio è umile nel creare ed è umile nel salvare. Cristo è più preoccupato che tutti gli uomini siano salvi, che non che sappiano chi è il loro Salvatore.
Più che della salvezza di coloro che non hanno conosciuto Cristo, ci sarebbe da preoccuparsi, credo, della salvezza di quelli che l’hanno conosciuto, se vivono come se non fosse mai esistito, dimentichi del tutto del loro battesimo, estranei alla Chiesa e a ogni pratica religiosa. Quanto alla salvezza dei primi, la Scrittura ci assicura che “Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga” (At 10, 34-35). Francesco d’Assisi, a sua volta, fa una affermazione quasi incredibile per i suoi tempi: “Ogni bene che si trova negli uomini, pagani o no, va riferito a Dio, fonte di qualsiasi bene” .
Il Paraclito guiderà alla verità tutt’intera
Parlando del ruolo di Cristo nei confronti delle persone che vivono fuori della Chiesa, il concilio Vaticano II afferma che “lo Spirito Santo, in un modo conosciuto solo da Dio, dà a ogni persona la possibilità di entrare in contatto con il mistero pasquale di Cristo”, cioè con la sua opera redentrice (Gaudium et spes, 22). Siamo giunti così all’ultima tappa del nostro cammino, lo Spirito Santo. Al termine della sua vita terrena Gesù diceva:
“Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà” (Gv 16, 12-15).
Nello Spirito Santo è ancora Gesù che continua a rivelarci il Padre, perché lo Spirito Santo è ormai lo Spirito del Risorto, lo Spirito che continua e applica l’opera del Gesù terreno. Poco dopo le parole appena ricordate, Gesù aggiunge: “Queste cose ve le ho dette in modo velato, ma viene l’ora in cui non vi parlerò più in modo velato e apertamente vi parlerò del Padre”. Quand’è che Gesù potrà parlare ai discepoli apertamente del Padre, dal momento che queste sono tra le ultime parole da lui pronunciate da vivo, dopo le quali morirà sulla croce? Lo farà, appunto, mediante lo Spirito Santo che egli invierà dal Padre.
San Gregorio Nisseno ha scritto: “Se a Dio togliamo lo Spirito Santo, quello che resta non è più il Dio vivente, ma il suo cadavere” . È Gesù stesso che spiega la ragione di ciò. “È lo Spirito – dice – che dà la vita, la carne non giova a nulla” (Gv 6, 63). Applicato al nostro caso, ciò significa: è lo Spirito che dà la vita all’idea di Dio e alla ricerca su di lui. La ragione umana, segnata com’è dal peccato, da sola, non basta. L’uomo che si accinge a parlare di Dio, a qualsiasi titolo, se è un credente, deve ricordare che “i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere, se non lo Spirito di Dio (1Cor 2, 11).
Lo Spirito Santo è il vero “ambiente vitale”, il Sitzt im Leben, in cui nasce e si sviluppa ogni autentica teologia cristiana. Lo Spirito Santo è quello spazio invisibile in cui è possibile avvertire il passaggio di Dio e in cui Dio stesso appare una realtà viva e attiva. Il Dio vivente, a differenza degli idoli, è un “Dio che respira” e lo Spirito Santo è il suo respiro. Questo è vero anche nei confronti di Cristo. “Nello Spirito Santo” indica quell’ambito misterioso in cui, dopo la sua risurrezione, si può entrare in contatto con Cristo e sperimentarne l’azione santificatrice. Egli vive ora “nello Spirito” (cf. Rm 1, 4; 1Pt 3, 18). Lo Spirito Santo è, nella storia, “il respiro del Risorto”.
Il grande arco voltaico tra Dio e l’uomo non si chiude, dunque, e l’improvviso lampo di luce non si produce se non dentro questo speciale “campo magnetico” che è costituito dallo Spirito del Dio vivente. È lui che crea nell’intimo dell’uomo quello stato di grazia per cui un giorno si ha la grande “illuminazione”: si scopre che Dio esiste, è reale, fino ad averne “il fiato mozzo”.
A chi cercasse Dio altrove, solo tra le pagine dei libri o tra i ragionamenti umani, bisognerebbe ripetere ciò che l’angelo disse alle donne: “Perché cercate tra i morti colui che è vivente?” (Lc 24, 5). Dallo Spirito Santo – scrive san Basilio – dipende “la familiarità con Dio” . Dipende, cioè, se Dio ci è familiare o invece estraneo, se siamo sensibili, o invece allergici alla sua realtà.
Il rimedio è dunque ritrovare un contatto sempre più pieno con la realtà, anzi con la persona, dello Spirito Santo. Non contentarci neppure di una rinnovata Pneumatologia, cioè di una teologia dello Spirito, ma aspirare a fare di lui anche una esperienza personale. Milioni di cristiani del nostro tempo hanno fatto una esperienza forte della novella Pentecoste auspicata da san Giovanni XXIII. Ecco come uno di quelli che per primi, nella Chiesa cattolica, fecero questa esperienza, ne descriveva gli effetti a un amico:
“La nostra fede è diventata viva; il nostro credere è diventato una sorta di conoscere. Improvvisamente, il soprannaturale è diventato più reale del naturale. In breve, Gesù è una persona viva per noi. Prova ad aprire il Nuovo Testamento e a leggerlo come se fosse letteralmente vero ora, ogni parola, ogni riga. La preghiera e i sacramenti sono diventati veramente il nostro pane quotidiano, e non delle generiche pie pratiche. Un amore per le Scritture che io non avrei mai creduto possibile, una trasformazione delle nostre relazioni con gli altri, un bisogno e una forza di testimoniare al di là di ogni aspettativa: tutto ciò è diventato parte della nostra vita. L’esperienza iniziale del battesimo dello Spirito non ci ha dato particolare emozione esteriore, ma la vita è diventata soffusa di calma, di fiducia, gioia e pace” .
“E il Verbo si è fatto carne”
Un meditazione sul ruolo di Cristo rivelatore unico del Dio vivente non può concludersi in modo più degno che con il Prologo di Giovanni. Non come un brano di vangelo da commentare – questo lo faremo il giorno di Natale –, ma come un inno di lode che sgorga ora dal nostro cuore a gloria della Santissima Trinità. Che una porzione così rappresentativa della Chiesa, in un luogo come questo, proclami la sua assoluta fede in Cristo Figlio di Dio e luce del mondo riveste un valore salvifico. Su un atto di fede come questo Cristo ha fondato la sua Chiesa e ha promesso che “le potenze degli inferi non prevarranno contro di essa”. Lo recitiamo insieme in piedi con il cuore colmo di stupore e gratitudine:
1 In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
2Egli era, in principio, presso Dio:
3tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
4In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
5la luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l’hanno vinta […].
9Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
10Era nel mondo
e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
11Venne fra i suoi,
e i suoi non lo hanno accolto.
12A quanti però lo hanno accolto
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
13i quali, non da sangue
né da volere di carne
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
14E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito
che viene dal Padre,
pieno di grazia e di verità […].
18Dio, nessuno lo ha mai visto:
il Figlio unigenito, che è Dio
ed è nel seno del Padre,
è lui che lo ha rivelato.
Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, Buon Natale!